A lungo trattati come “rifugiati di seconda classe”, gli Afghani oggi si chiedono quanto possano fare affidamento sul sostegno dell’Unione Europea. Da quando i Talebani sono saliti al potere e le operazioni di evacuazione sono terminate, i governi europei sembrano avere un’unica priorità: limitare la circolazione di potenziali richiedenti asilo afghani. Nonostante le manifestazioni locali in favore di un loro reinsediamento, le possibilità di raggiungere l’UE legalmente e in sicurezza restano poche e lontane.

“Uno dei miei clienti vuole portare in Belgio sua madre e sua sorella, rimaste bloccate in Afghanistan. Sua sorella era un’ostetrica specializzata in assistenza post-aborto. Il 25 agosto ho presentato domanda per un visto umanitario per questo caso. A parte una conferma di lettura automatica, non ho ricevuto alcuna risposta. Le autorità si comportano come se non fosse urgente.” Questa la dichiarazione incriminante dell’avvocata belga Selma Benkhelifa, membro dell’ufficio legale Progress Lawyers Network.

La rapida presa del potere dei Talebani, terminata il 15 agosto 2021, ha reso estremamente vulnerabili milioni di Afghani, in particolar modo le donne. Coloro che sono riusciti ad andare via durante l’evacuazione, terminata il 31 agosto, hanno lasciato un paese che precipitava nel caos. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), infatti, descrive questa “crisi umanitaria” come la ciliegina sulla torta di oltre “40 anni di conflitti, disastri naturali in aumento, povertà cronica e insicurezza alimentare”. Con il passare dei giorni, la situazione diventa ancora più raccapricciante: la malnutrizione sta peggiorando, il sistema sanitario sta collassando, l’economia è paralizzata. L’UNHCR aveva inizialmente affermato di aspettarsi fino a mezzo milione in più di rifugiati Afghani entro la fine del 2021, non tenendo tuttavia in conto la determinazione di alcuni Paesi limitrofi, principalmente Pakistan e Iran, a scoraggiare queste migrazioni di massa.

Nel frattempo, in Europa, “non abbiamo saputo più nulla dalla fine di agosto”, sostiene Nassim Majidi, cofondatrice del gruppo di esperti sulla migrazione e sull’evacuazione Samuel Hall. “Silenzio sui parenti degli sfollati rimasti lì, silenzio anche sulle persone presenti nelle liste ma non evacuate.”

Non ha imparato alcuna lezione l’UE dalla “crisi dei rifugiati” del 2015-16? La risposta, in realtà, è sì. La lezione imparata è stata quella di “tenere i rifugiati a distanza ancora una volta” – come sostenuto dal geografo svizzero Étienne Piguet – e gli strumenti sviluppati e rafforzati negli ultimi sei anni non lasciano ben sperare per tutti quegli Afghani che sperano di trovare rifugio in Europa.

I difetti della solidarietà

Molto più che una crisi, gli eventi del 2015-16 hanno messo a nudo i difetti di un sistema basato su una visione allarmista e disumanizzante della cosiddetta migrazione “illegale” e dell’iniqua condivisione di responsabilità nel sistema europeo dei richiedenti asilo. Dal 1990, la responsabilità è stata determinata dal Regolamento di Dublino, che generalmente assegna la competenza per le richieste di asilo al primo Paese membro dell’UE in cui il richiedente fa ingresso. Tuttavia, i Paesi di confine dell’UE, maggiormente esposti, non possono, all’occorrenza, contare sulla solidarietà degli altri stati membri, come si è potuto vedere quando gli arrivi sono aumentati notevolmente tra il 2015 e il 2016, prevedibile conseguenza dei conflitti continui in Iraq e Siria e all’avanzata dell’ISIS nella regione.

I paesi di confine dell’UE sovraesposti non possono, all’occorrenza, contare sulla solidarietà degli altri stati membri.

Dal 2015, ogni singola proposta per la creazione di meccanismi più o meno obbligatori per la ricollocazione dei richiedenti asilo è risultata fallimentare. Il Patto Europeo sulla Migrazione e sull’Asilo, presentato dalla Commissione a settembre 2020, ha incontrato le stesse difficoltà e, oggi sembra improbabile che l’intero pacchetto di proposte venga approvato. Solo le proposte approvate dal Consiglio dell’Unione Europea potranno continuare l’iter per diventare leggi dell’UE, andando a rafforzare i tre pilastri su cui si basa la politica europea sulla migrazione e sull’asilo: esternalizzazione, chiusura delle frontiere e rimpatri.

Di conseguenza, dal 2015, l’UE ha esercitato sempre più pressione sugli stati terzi – in forma di pagamenti, condizionalità degli aiuti e promesse di liberalizzazione dei visti – per convincerli a controllare i confini esterni dell’UE per suo conto. A riprova di questa pressione, l’accordo firmato il 18 marzo 2016 tra l’UE e la Turchia, di dubbia legalità, ha ridotto il numero degli arrivi sui confini esterni dell’UE: la ONG belga CNCD-11.11.11 lo descrive come un “cinico successo di contabilità”.

Un ulteriore fenomeno è in aumento dal 2015: la militarizzazione delle zone di confine con la proliferazione di centri per la detenzione, così come operazioni illegali di respingimento. Infine, l’ossessione per i rimpatri è ormai accettata a tal punto che la Commissione ha persino proposto l’assurdo concetto di “sponsorizzazione dei rimpatri” nel suo Patto sulla migrazione e sull’asilo. Uno stato membro che si rifiuta di accogliere richiedenti asilo può invece mostrare la sua “solidarietà” aiutando un altro stato membro a rimpatriare i migranti che soggiornano irregolarmente nell’UE.

Dal 2015, l’UE ha applicato una pressione crescente agli stati terzi – tramite pagamenti, condizionalità degli aiuti e promesse di liberalizzazione dei visti – per convincerli a controllare i confini esterni dell’UE per suo conto.

“Rifugiati di seconda classe”

L’Afghanistan è forse il Paese che è stato maggiormente penalizzato dalle politiche dell’UE e questo ha avuto inizio ben prima del 2015. Al secondo posto per numero di richieste di asilo in UE, gli Afghani “sono stati trattati a lungo come rifugiati di seconda classe”, afferma Abdul Ghafoor, direttore dell’associazione AMASO (Afghanistan Migrants Advice and Support Organisation), fondata nel 2013 a Kabul per offrire sostegno alle persone rimpatriate e per attirare l’attenzione sulla politica di rimpatrio dell’UE. Ma, spiega Nassim Majidi, andare via dall’Afghanistan “è essenziale, è un mezzo di sopravvivenza. Ogniqualvolta scoppia una crisi sociale, politica o economica, non c’è altra soluzione per un Afghano se non lasciare il Paese. In Europa si tende a etichettarli come migranti economici o rifugiati, ma non tutto è bianco o nero.”

Ignorando tutte le altre sfumature, l’UE ha peggiorato la situazione nel 2015. Gli Afghani sono stati tra le prime vittime del cosiddetto approccio “hotspot”, introdotto a maggio di quell’anno per aiutare l’Italia e la Grecia a gestire l’afflusso di richiedenti asilo e che, come scrive l’avvocata Claire Rodier, “ha subito portato all’istituzione di centri di permanenza – se non di detenzione – violenti, sovraffollati e scarsamente attrezzati.” Nel 2016, l’UE e il governo afghano hanno siglato un accordo in materia migratoria, il Joint Way Forward (rinnovato poi nel 2021 e rinominato Joint Declaration on Migration Cooperation), con il fine di aumentare i rimpatri.

Andare via dall’Afghanistan “è essenziale, è un mezzo di sopravvivenza. Ogniqualvolta scoppia una crisi sociale, politica o economica, non c’è altra soluzione per un Afghano se non lasciare il Paese.”

A causa della moltitudine dei migranti e dei tassi di riconoscimento limitati, (secondo Eurostat, in media il 56,21% nel 2020 in tutta l’UE, con una differenza che varia dall’1% in Bulgaria al 93% in Italia), è presente un numero elevato di Afghani “allontanabili” nel territorio dell’UE. Negli anni, molti stati membri – in particolare modo Svezia, Danimarca e, fino al 2020, Regno Unito – hanno aumentato le deportazioni, nonostante, spiega Nassim Majidi, “i programmi per il rimpatrio e il reinsediamento in Afghanistan non funzionino. La maggior parte delle persone se ne va di nuovo, come abbiamo potuto documentare.”

L’ossessione per i rimpatri era tale che, qualche tempo fa nel 2021, la richiesta di porre fine ai rimpatri forzati avanzata dal governo Afghano l’8 luglio, a causa della “situazione di deterioramento della sicurezza” nel Paese, venne ignorata dalla maggior parte degli stati europei. Dieci giorni dopo la caduta di Kabul, il 5 agosto, i governi di Germania, Austria, Belgio, Danimarca e Olanda, hanno inviato una lettera alla Commissione esprimendo la loro preoccupazione per la mancanza di cooperazione delle autorità afghane.

Nel luglio del 2021, la maggior parte degli stati ignorò la richiesta del governo Afghano ai paesi europei di porre fine ai rimpatri forzati a causa della “situazione di deterioramento della sicurezza” in Afghanistan.

Priorità contrastanti

Inizialmente, le reazioni europee alla presa del potere dei Talebani sono state scarsamente coordinate, con ogni stato membro impegnato a gestire le proprie liste di persone da evacuare. Molti governi hanno sospeso le deportazioni in Afghanistan (ad eccezione di Romania e Bulgaria). Alcuni stati membri, come Austria e Slovenia, hanno dichiarato sin dall’inizio che non avrebbero accettato rifugiati afghani. Il 31 agosto il Consiglio ha poi chiarito le priorità dell’UE nella sua informativa sulla situazione in Afghanistan: “Sulla base delle lezioni apprese, l’UE e i suoi Stati Membri sono determinati ad agire congiuntamente per evitare il ripetersi di incontrollati movimenti migratori illegali su larga scala avvenuti in passato, attraverso una risposta coordinata e ordinata.”

D’altra parte, in una risoluzione del 16 settembre (passata con 536 voti a favore, 96 contrari e 50 astensioni), il Parlamento Europeo ha chiesto solidarietà per le persone afghane, sottolineando che: “la politica dell’UE dovrebbe includere, in via prioritaria, un’espansione del reinsediamento di coloro che sono più a rischio e più vulnerabili, come anche ulteriori percorsi complementari, tra cui visti umanitari e un programma speciale di visti per donne afghane in cerca di protezione dal regime talebano.” Pochi giorni prima, il gruppo parlamentare dei Verdi/ALE aveva avanzato le seguenti richieste: “Tutti i paesi dell’UE devono assumersi la responsabilità dei rifugiati. È giunto il momento di intensificare il reinsediamento, di facilitare il ricongiungimento familiare e di prepararsi all’arrivo di profughi Afghani ai nostri confini.”

Reinsediamento, visti umanitari, ricongiungimento familiare: soluzioni guardate con diffidenza dagli stati membri, in quanto mezzi che permettono a queste persone di entrare in UE legalmente e in sicurezza. Lo stesso vale per la direttiva europea 2001 sulla protezione temporanea, che non è stata attuata, e per il riconoscimento dello status di rifugiato prima facie (status garantito collettivamente ad un gruppo anziché al singolo individuo), che Samuel Hall e Amnesty International richiedono con urgenza per i richiedenti asilo afghani, soprattutto per le donne.

I visti umanitari costituiscono un capitolo particolarmente sconfortante della recente storia della politica di asilo europea. A seguito di una risoluzione del 2018 del Parlamento Europeo, la Commissione avrebbe dovuto avanzare una proposta di regolamento entro marzo 2019, cosa che ad oggi non ha ancora fatto. Nel frattempo, questi visti sono stati rilasciati arbitrariamente da alcuni stati membri, dando vita a una situazione ideale per uno scandalo come quello della truffa compiutasi in Belgio tra il 2017 e il 2018, in cui venivano offerti visti in cambio di denaro.

“Tutti i paesi dell’UE devono assumersi la responsabilità dei rifugiati. È giunto il momento di intensificare il reinsediamento, di facilitare il ricongiungimento familiare e di prepararsi all’arrivo di profughi Afghani ai nostri confini.”

“A cosa servirà, quando saranno morti?”

Oggi, persone come Sami non riescono a capire per quale motivo i propri familiari non possano prendere un aereo e raggiungerli in Europa. Arrivato in Belgio nel 2015 all’età di 15 anni “dopo aver attraversato 10 Paesi in quattro mesi”, Sami potrebbe occuparsi dei suoi genitori, due fratelli e una sorella. Ma la sua richiesta dei visti umanitari, presentata da Selma Benkhelifa, sta andando per le lunghe. “Ci dicono che dobbiamo seguire la ‘procedura ordinaria’, cioè dobbiamo inviare i documenti tramite FedEx da Kabul a Islamabad, ma FedEx ha chiuso. Con la procedura normale, bisogna fornire un certificato di buona condotta. A chi chiederanno questo documento? Parlare di ‘via normale’ in una situazione così anormale come quella che vive l’Afghanistan, non ha assolutamente senso”, fa notare Benkhelifa. “Se ricevo un visto umanitario tra due mesi, cosa me ne faccio? A cosa servirà quando saranno morti?” afferma con tristezza Sami. “Queste politiche spingono le persone ad affidarsi ai trafficanti di esseri umani”, conclude Benkhelifa. “Cosa farà Sami se la sua richiesta non arriverà da nessuna parte? Dovrà pagare dei trafficanti per permettere alla sua famiglia di lasciare il paese”.

La frustrazione non è sentita solo dalla diaspora. A livello locale, istituzioni locali, università e associazioni benefiche sono pronte ad accogliere i rifugiati. Probabilmente l’unico lascito positivo della situazione del 2015-16 è l’aumento dei movimenti solidali che sono ora più forti e più uniti. Ma nonostante molti sindaci abbiano mostrato solidarietà – il Mayors Migration Council, che rappresenta 240.000 città nel mondo, ha rilasciato una dichiarazione di benvenuto per i rifugiati – Majidi sottolinea che “i governi nazionali devono tenere le porte aperte così che gli Afghani possano continuare ad entrare”.

Sami ha potuto occuparsi dei suoi genitori, due fratelli e una sorella. Ma la sua richiesta dei visti umanitari sta andando per le lunghe… “Se ricevo un visto umanitario tra due mesi, cosa me ne faccio? A cosa servirà quando saranno morti?”

Secondo gli stati membri, però, questa porta deve essere chiusa il prima possibile delegando il reinsediamento dei richiedenti asilo afghani ai paesi della regione. Tuttavia, questi stati non sembrano inclini ad assumere questo ruolo. Pakistan, Iran e Tagikistan stanno chiudendo i loro confini o creando zone di “protezione temporanea”, che come ammonisce Majidi: “è un ritorno a soluzioni di 40 anni fa: i campi”. La Turchia, irritata dai suoi partner europei, ha anche chiuso il confine con l’Iran e “sta cercando di riprendere le espulsioni”, dice Abdul Ghafoor. “Ci sono migliaia di Afghani detenuti nei centri di deportazione sparsi in tutto il Paese”. In quanto ai Talebani, hanno iniziato a impedire alla gente di lasciare il Paese.

In alcuni stati dell’UE, iniziative locali permetteranno l’evacuazione di donne, studenti, attivisti e artisti, ma è probabile che queste diminuiranno a causa dell’ostruzionismo dei governi. Non è una sorpresa che i governi accettino con riluttanza i programmi di reinsediamento, il che spiega la mancanza di risultati concreti emersi dal Forum di Alto Livello sul Reinsediamento dell’UE tenutosi il 7 ottobre 2021. Per quanto riguarda coloro che riescono ad arrivare in Europa “illegalmente”, si ritrovano poi bloccati nei nuovi “campi prigione” aperti il 18 settembre 2021 sull’isola greca di Somos, altro oscuro lascito della “crisi migratoria” del 2015-16.

Intanto, le persone con una richiesta di asilo in pendenza in uno stato dell’UE prima della caduta di Kabul, continueranno a temere per il proprio futuro. I trasferimenti intraeuropei dei “casi Dublino” (persone rimandate nel Paese membro che avrebbe dovuto processare la loro richiesta di asilo) non sono stati sospesi: un Afghano può essere rimandato in Bulgaria dalla Francia, come è successo il 27 settembre, per poi trovarsi a rischio di deportazione in Afghanistan. Il governo francese non sembra essere preoccupato dalla situazione. Eppure, come ricorda Abdul Ghafoor, “il portavoce dei Talebani ha annunciato che accetteranno i deportati, ma che saranno giudicati da un tribunale religioso”.

Divisione e illegalità

Alla conferenza annuale del Network Odysseus, rete di esperti di diritto dell’immigrazione e asilo, tenutasi l’8 e il 9 settembre 2021, si è voluto ricordare che ad aver aperto la strada al sistema comune europeo di asilo è stato il desiderio dei Paesi membri di entrare a far parte dell’area Schengen. Ad oggi, non c’è alcun incentivo per i governi europei ad impegnarsi in questo sistema comune. Le regole dell’UE in materia di asilo sono rispettate solo se non intralciano gli interessi nazionali, altrimenti possono essere infrante, e questa è una tendenza in aumento in tutto il blocco.

Nel 2016 Claire Rodier e lo storico Emmanuel Blanchard scrivevano: “Che si tratti di provocazioni razziste come in Ungheria o in Polonia, di abdicazione di responsabilità come in Grecia, di ostentazione umanitaria come in Francia, la risposta delle istituzioni e dei governi europei continua ad essere la negazione: la negazione della responsabilità verso i rifugiati che i loro obblighi internazionali comportano”.

Le regole dell’UE in materia di asilo sono rispettate solo se non intralciano gli interessi nazionali, altrimenti possono essere infrante, e questa è una tendenza in aumento in tutto il blocco.

Al momento, gli stati membri che non respingono i richiedenti asilo alle frontiere sono in minoranza. I respingimenti sono aumentati, così come la loro violenza e il linguaggio militarista usato dai governi nel parlare dei richiedenti asilo. A dimostrarlo è una recente inchiesta in Croazia e Grecia da parte di otto organi di stampa europei e una lettera firmata da 12 stati membri in cui si richiede alla commissione di finanziare “barriere fisiche” ai confini esterni dell’UE. Ma non bisogna dimenticare che la brutalità di queste immagini e di questo linguaggio sono frutto di decenni di politiche appoggiate da tutti gli stati membri.

In questo contesto, cosa si può fare per assicurarsi che il diritto di asilo venga assicurato? In un webinar del 7 ottobre sulla violazione dei diritti umani alla frontiera polacca e lituana, l’eurodeputata verde Tineke Strik ha evidenziato varie possibilità, dalle procedure di infrazione contro gli stati membri che non rispettano i diritti fondamentali, al subordinare l’accesso ai fondi europei alla difesa di questi diritti. “La Commissione, ma anche il Parlamento Europeo e gli stati membri, devono fare molto di più per proteggere i migranti, i rifugiati e coloro che lavorano con loro”, sottolinea Strik.

Non devono essere delusi dalla mancanza di volontà politica. Quanto al 6 ottobre 2021, erano già almeno sei le persone ad aver perso la vita al confine tra Bielorussia e Polonia. In una sua indagine, Amnesty International ha attribuito la colpa alla Polonia, così come alla Lettonia e alla Lituania. “Il 25 agosto, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha ordinato alla Polonia di fornire assistenza umanitaria ai migranti e ai rifugiati ai loro confini. Ordine rinnovato il 27 settembre. Al momento la Polonia non ha rispettato il volere della Corte”, scriveva Amnesty International il 30 settembre.

Un’Unione sempre più disunita di Paesi che infrangono la legge, ignorano i tribunali e lasciano morire esseri umani alle loro frontiere. Se i Paesi europei continuano su questa strada, sono realmente nella condizione di dare lezioni ai Talebani?

Translation: Adele Casciaro (The Bottom Up)