Il termine “rifugiato climatico” è utilizzato dalle testate giornalistiche e dalle forze politiche di tutto il panorama politico e al contempo viene rifiutato con decisione da altri, come i funzionari delle Nazioni Unite. Eppure non esiste una definizione largamente accettata. Cosa intendiamo quando parliamo di rifugiati climatici? Nel contesto tossico delle politiche migratorie in Europa, quali sono le implicazioni dell’utilizzo crescente di questa espressione? La ricercatrice Lydia Ayame Hiraide prova ad analizzare questa definizione estremamente carica di significato che molti hanno utilizzato per dare sfogo alle loro paure rispetto al clima e a un “altro” razzializzato, e cerca di proporre un modo per liberarci da questi timori.

Negli ultimi anni il fantasma del rifugiato climatico ha cominciato a perseguitare la politica europea. Dai dibattiti tra attivisti agli interventi dell’ex Presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, la figura del rifugiato climatico è sempre più al centro dell’attenzione

In un contesto ancora segnato dal negazionismo climatico e dall’ostilità nei confronti dei migranti, le politiche, interconnesse tra loro, del cambiamento climatico e della migrazione sono sempre più cariche di tensione. Ma quali sono gli aspetti positivi legati all’utilizzo dell’espressione “rifugiato climatico”? E quali sono i potenziali problemi a essa legati? Esiste un termine alternativo?

L’espressione “rifugiato climatico” sottolinea efficacemente le ripercussioni sull’uomo del cambiamento climatico antropogenico. Tuttavia una lettura razzializzata strumentalizza questo termine e penalizza una popolazione già emarginata. In Europa il concetto di rifugiato è stato abusato, deformato e stigmatizzato al punto tale che oggi sembra estremamente difficile cambiarne la percezione. L’accademico Ben Wisner sottolinea che le persone costrette a spostarsi a causa del surriscaldamento climatico sono state identificate con espressioni “che alimentano la xenofobia e il razzismo”. Davanti all’estrema e irresponsabile strumentalizzazione politica del vocabolario legato alla migrazione, potrebbe essere arrivato il momento di orientarci verso un linguaggio nuovo e più espansivo, prestando attenzione al modo in cui lo utilizziamo.

In cerca di un significato

All’interno della Convenzione delle Nazioni Unite del 1951 sullo status dei rifugiati, un rifugiato viene definito come una persona che “nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o non vuole, per tale timore, domandare la protezione di detto Stato…”. La definizione di rifugiato si basa sul concetto di dislocamento forzato, con un’attenzione particolare alla paura delle persecuzioni come causa della fuga. Questa definizione ufficiale è legata alla struttura degli stati-nazione, e indica i confini nazionali come il luogo in cui un rifugiato diventa tale.

Nonostante non esista una definizione universalmente accettata, il rifugiato climatico può essere considerato dunque come una persona costretta a lasciare la propria casa o il proprio paese a causa dei cambiamenti negativi nell’ambiente dovuti al surriscaldamento del pianeta.

In questo concetto estremamente carico di significati non c’è nulla di ovvio, ma è in qualche modo evidente che il problema del cambiamento climatico antropogenico sia al centro delle riflessioni sul rifiutato climatico. Il termine è stato utilizzato dalle testate giornalistiche tradizionali per indicare i rifugiati che fuggono dalla Siria, citando la siccità come causa scatenante. In effetti le persone costrette a lasciare la Siria per questo motivo sono state sicuramente influenzate dal fatto che l’ambiente circostante è diventato sempre più inabitabile, ma il contesto della violenza politica ha sicuramente reso questo scenario ancora più complicato.

La definizione di rifugiato comporta un peso reale, perché impone al paese ospite di assistere e proteggere il rifugiato, non come atto di generosità, ma come obbligo legale.

Ne deriva che la definizione di rifugiato climatico sia legata a un compito piuttosto complesso: individuare la ragione iniziale del degrado ecologico che causa lo spostamento fisico di comunità umane e individui. Si tratta di una difficoltà concettuale che all’atto pratico appare impossibile da sormontare. Come si fa a distinguere tra il cambiamento climatico e la violenza politica come cause di fuga quando i due fenomeni sono evidentemente interconnessi?  Con ogni probabilità il cambiamento climatico agisce come uno dei molti fattori concomitanti che contribuiscono al dislocamento forzato delle persone. È difficile limitare la definizione di rifugiato climatico alle persone il cui dislocamento è dovuto esclusivamente a un cambiamento nel clima. Questo è uno dei motivi per cui molti chiedono di accantonare il termine.

Dove le parole prendono vita

Il concetto di rifugiato climatico è tutt’altro che inutile. L’utilizzo del termine attinge in parte a un vocabolario basato sui diritti e con ramificazioni legali. In base alle norme internazionali i rifugiati hanno diritto a un asilo sicuro e i governi “non possono riportare con la forza i rifugiati (respingere) in un territorio in cui sono esposti a un pericolo, né fare discriminazione tra gruppi di rifugiati”. Questa definizione illustra il concetto secondo cui i diritti generano doveri. La definizione di rifugiato comporta un peso reale, perché impone al paese ospite di assistere e proteggere il rifugiato, non come atto di generosità, ma come obbligo legale. Tuttavia la Convenzione di Ginevra del 1951 non contiene disposizioni per i rifugiati il cui dislocamento è causato da fattori ambientali. L’espressione “rifugiato climatico” potrebbe essere più efficace se comprendesse un peso legale, ma allo stato attuale del diritto non è così.

I lobbisti che si oppongono all’accoglienza dei rifugiati nel Nord del mondo hanno approfittato di questo “buco” nel diritto intenzionale per sostenere che “la maggior parte dei richiedenti asilo sono ‘rifugiati ambientali’ e come tali non hanno diritto all’asilo in base alla Convenzione di Ginevra del 1951”. Inoltre la retorica anti-asilo e anti-immigrazione si traduce in Europa in politiche migratorie ostili che hanno conseguenze gravi per le persone che cercano di fuggire da ambienti inabitabili. Ai confini dell’Europa si stanno moltiplicando campi di detenzione in cui le condizioni sono estremamente pericolose e il futuro è incerto. In paesi come il Regno Unito sono state proposte strutture legali che sostanzialmente criminalizzano chi fugge in Europa. C’è dunque una necessità impellente di creare una struttura legale completa che inquadri il dislocamento climatico e si allontani dal razzismo e dalla xenofobia che stanno corrodendo la politica europea.

In altri contesti il concetto di rifugiato climatico può essere considerato un catalizzatore dell’azione politica per rivolgersi a chi vive in aree del mondo non tra le più esposte all’emergenza climatica. Abbiamo notato questo utilizzo del concetto di rifugiato da parte di diversi politici, come Juncker. Gli avvertimenti di Juncker a proposito dei flussi ingestibili di rifugiati climatici in Europa servivano a spingere i cittadini europei a riflettere sul modo in cui in futuro verranno colpiti dal cambiamento climatico. Questo approccio è coerente e cerca di favorire l’azione politica tra le masse, uno sviluppo indispensabile per arrivare a soluzioni più efficaci per l’emergenza climatica. Tuttavia questa strategia è anche un’arma a doppio taglio.

Approcci di questo tipo possono essere infatti sfruttati dalla narrativa xenofoba che alimenta la paura dei rifugiati climatici. Questi processi stanno già mettendo radici nel panorama mediatico britannico, dove le descrizioni di una possibile ondata di rifugiati climatici hanno un evidente effetto di alimentare l’ostilità nei confronti dell’”altro”. È interessante notare che un rapporto commissionato da UNHCR ha legato la narrazione negativa nei mezzi di comunicazione su “migranti” e ai “rifugiati” climatici a un’ascesa della politica di estrema destra. In realtà oggi questa retorica può essere notata anche in giornali di sinistra come il Guardian, e questo mostra chiaramente una crescita della normalizzazione e dell’accettazione del discorso esclusorio.

Mettendo da parte queste difficoltà legate alla definizione, la tendenza a considerare il rifugiato climatico come un “altro” razzializzato lascia che questa espressione non goda di sostegno da parte degli attivisti anti-razzisti. Le loro preoccupazioni sono comprensibili considerando il contesto sempre più ostile.

Il geografo Andrew Baldwin ritiene che la figura del rifugiato climatico sottintenda una “serie di ansie da parte dei bianchi” legate a “un’incombente disordine e perdita di controllo”. I numeri impressionanti proposti per descrivere la futura “ondata” di rifugiati climatici (si parla di un numero compreso tra 50 e 250 milioni di persone) si collegano a un preoccupato desiderio di “riprendere il controllo”, una frase utilizzata spesso in modo divisivo nel contesto britannico.

La paura dell’immigrazione, strumentalizzata per incitare all’azione contro il cambiamento climatico segue il “nesso natura-nazione-purezza” in Europa, un desiderio di mantenere una “purezza” insulare e chiusa del panorama europeo e delle sue comunità, codificate come bianche.

Il dibattito sui rifugiati in Europa è inserito nel pesante contesto storico del colonialismo europeo, dell’eurocentrismo e delle pratiche diffuse di orientalismo. L’idea del rifugiato climatico favorisce il concetto di “Europa come rifugio”, come spiega il filosofo francese Bruno Latour [trovate qualcosa in più sul suo pensiero leggendo queste interviste]. Anche se il Partito laburista britannico sostiene una politica ospitale rispetto alla migrazione climatica in Europa, si tratta di un approccio concettuale che rischia di alimentare una costruzione orientalizzata di terre lontane e pericolose che ospitano una singola e oscura massa di rifugiati che minacciano un’Europa idealizzata.

La definizione di rifugiato comporta un peso reale, perché impone al paese ospite di assistere e proteggere il rifugiato, non come atto di generosità, ma come obbligo legale.

L’inquadramento dell’Europa come paradiso per i rifugiati climatici porta con sé una distinta mancanza di enfasi sulla vulnerabilità delle persone sfollate o sulla causa della loro necessità di partire, concentrandosi invece sulle minacce per l’Europa, che tra l’altro ha contribuito in modo sproporzionato a creare ambienti naturali, politici e sociali invivibili nel Sud del mondo. Con tutte le migliori intenzioni, queste valutazioni della situazione cadono nella trappola del rifugiato climatico de-storicizzato, mettendo in evidenza l’incapacità di affrontare la giustizia climatica nel contesto delle disuguaglianze storiche globali.

Liberarsi del pregiudizio

Non possiamo negare che esistano argomentazioni forti in favore dell’utilizzo ufficiale e dell’adozione dell’espressione “rifugiato climatico”. Tuttavia, volendo dipingere un quadro completo delle sfide che gli sfollati sono costretti ad affrontare, l’espressione “rifugiato climatico” non permette di svolgere il compito concettuale e politico richiesto. Le espressioni “dislocamento ecologico” o “persona sfollata per cause ecologiche” superano questi inconvenienti.

Il passaggio a un linguaggio basato sull’idea di dislocamento ecologico rispecchia l’utilizzo da parte dell’Organizzazione Internazionale per la migrazione del termine “persona sfollata per cause ecologiche”, che si riferisce a “persone che sono costrette a spostarsi nel loro paese di residenza, o ad attraversare un confine nazionale, e per cui il degrado, il deterioramento o la distruzione dell’ambiente costituiscono una delle cause principali della decisione di partire, anche se non necessariamente l’unica”.

Il cambiamento climatico antropogenico è una minaccia reale per la sopravvivenza degli umani (tra le altre specie), ma non è l’unica causa ambientale del dislocamento. Utilizzando il termine “ecologia” introduciamo una descrizione che comprende altre potenziali cause di dislocamento oltre al cambiamento climatico, come le eruzioni vulcaniche, le frane e l’inquinamento dell’aria o dell’acqua. Il termine “ecologia”, inteso in un senso più ampio, crea inoltre lo spazio per la potenziale combinazione di diversi aspetti che provocano il dislocamento delle persone (per esempio la violenza politica) i cui effetti possono essere esacerbati dalla carenza di risorse o dall’infertilità della terra.

Il termine dislocamento ecologico può comprendere per esempio il dislocamento delle popolazioni colpite dalle inondazioni che dalla costa dell’Inghilterra si spostano verso l’entroterra. Questa categoria allargata, diversamente da quella dei rifugiati climatici, può contribuire alla de-razzializzazione del concetto di dislocamento legato al clima. Nell’ultimo anno l’Europa è stata colpita da una serie di crisi ambientali, dalle alluvioni in Regno Unito, Belgio, Germania e Olanda agli incendi che hanno stravolto la Grecia. Diversamente da quanto accaduto con i rifugiati climatici, la stampa britannica ha descritto il dislocamento provocato nei paesi europei in termini che affrontano in modo molto più esplicito l’origine del problema: il cambiamento climatico. Anziché alimentare la paura di una presunta “ondata” invasiva di strani rifugiati che si affollano sulle coste dell’Europa, le cause climatiche del dislocamento interno sono state sottolineate senza il peso della razzializzazione, della xenofobia e della divisione. Questi dibattiti incentrati sull’Europa permettono al pubblico di provare compassione, empatia e simpatia per le vittime attuali e potenziali del cambiamento ecologico, sentimenti che sono assenti in maniera preoccupante dal dibattito razzializzato sui rifugiati climatici.

Più in generale, ci stiamo avvicinando a un dibattito incentrato sul modo in cui le problematiche ecologiche stanno colpendo l’Europa, con molti giornali e testate che si occupano di questo argomento. Media tradizionali come la BBC, il London Evening Standard e il Guardian stanno parlando dell’urgenza di reagire al cambiamento climatico come di un tema rilevante nel contesto europeo attuale. Partecipando al dibattito sul modo in cui le persone vengono colpite e costrette dal cambiamento climatico a trasferirsi in Europa è possibile sviluppare un atteggiamento più comprensivo nei confronti degli sfollati che arrivano dall’esterno. Inquadrare questi dibattiti attraverso un’esperienza e un vocabolario condivisi può frenare il tentativo di trasformare le persone sfollate per cause ecologiche in “altri” minacciosi. Questo approccio può generare conversazioni positive che permettano alla gente di reagire al cambiamento climatico sulla base della solidarietà e non della paura divisiva.

Diversamente dall’utilizzo storico del termine “rifugiato” , la nozione di dislocamento ecologico riconosce pienamente il fatto che gli elementi ambientali possano contribuire alla migrazione e al dislocamento, cosa che la Convenzione delle Nazioni Unite non fa. Al contempo dobbiamo riconoscere che il concetto di “dislocamento” non contiene la piena forza legale del termine “rifugiato”. Ripensare la forza legale e lo status di persona sfollata permetterà di garantire maggiori diritti a chi è costretto a fuggire dalla propria casa, a prescindere dal fatto che attraversi o meno un confine nazionale. Come vocabolario alternativo, il concetto di dislocamento ecologico serve a liberarsi del bagaglio razzializzato del concetto di rifugiato climatico, ed è applicabile alle popolazioni di sfollati interni a causa del cambiamento climatico o di altri cambiamenti biofisici che potrebbero essere abbinati ad altre cause.

Decodificare il concetto di rifugiato climatico non è un compito facile. Anche se l’idea di rifugiato normalmente porta con sé una serie di obblighi legali e internazionali, dovremmo ricordare che il linguaggio è sempre legato a contesti storici e politici importanti, con conseguenze per le persone contro cui viene utilizzato.

Non esiste una categoria legale per il rifugiato climatico, ma anche se ci fosse non sarebbe sufficiente per proteggere le persone sfollate per motivi ecologici. Il riferimento al “clima” non tiene in debita considerazione l’ecologia nei territori in cui le persone si ritrovano, mentre la categoria di “rifugiato” è stata strumentalizzata dalla retorica politica divisiva in Europa.

Nemmeno il concetto di dislocamento ecologico può essere considerato perfetto, ma in qualche modo si sposta verso un’idea meglio equipaggiata per affrontare con sensibilità le sfide del dislocamento. Adottando un approccio più espansivo, questo concetto cerca di costruire una cornice alternativa che comprenda la complessità stratificata delle cause del dislocamento, cercando al contempo di allontanarsi dal razzismo e dalla razzializzazione che stanno mostrando il loro deprecabile volto in Europa.