Nel baricentro della crisi climatica del Mediterraneo, Venezia potrebbe essere il primo insediamento umano a cadere. In una città la cui sopravvivenza dipende anche dalla salute della laguna, il rovesciamento del rapporto con l’acqua potrebbe significare il disfacimento di un ecosistema.

La sera che l’acqua iniziò a salire, Vittorio aspettava nei magazzini, al piano terra dell’abitazione dei nonni. Come tutti gli anni, era sceso nel basamento dell’antica dimora veneziana per alzare da terra mobili e vecchi dipinti impolverati; un automatismo che appartiene a molti abitanti di Venezia.

Ricavato da uno spazio antistante l’imponente androne di magazzini seicenteschi, c’è un ambiente arredato da un mobilio improvvisato, occupato da bottiglie vuote e posacenere stracolmi. Da lì, Vittorio fissa l’acqua farsi strada tra i corridoi del magazzino per accumularsi nella stanza, ma è già tardi quando si accorge dell’anormalità delle correnti.

Un giovane uomo con capelli ricci di media lunghezza e occhiali contro un muro multicolore
Vittorio Da Mosto, uno dei volontari dell’associazione Venice Calls, nel basamento della casa seicentesca della sua famiglia. Venezia, 30 Novembre 2021.

L’acqua alta del 12 novembre 2019 iniziò come un comune innalzamento delle maree. Le previsioni ufficiali stimarono 140 cm sullo zero mareografico, ma quando il vento di Scirocco intrappolò le correnti marine, la marea iniziò a salire di mezzo centimetro al minuto.

Per tre giorni Venezia affondò mentre suonavano le sirene. Con un picco di un metro e 89 si registrò la seconda Aqua granda nella storia contemporanea della città. Oggi, tra strette calli e fondamenta liquide, una linea incisa qua e là rammenta l’altezza delle correnti di quella notte.

L’acqua alta è un fenomeno tipicamente veneziano in cui i picchi di marea provocano il parziale allagamento del centro urbano. È la laguna che invade la città una quarantina di giorni l’anno. Ma con l’innalzamento delle temperature e dei livelli del mare, i casi d’acqua alta eccezionali sono in aumento.

Nel tempo, i veneziani si sono preparati all’innalzamento delle maree come potevano: dopo secoli di convivenza con l’imprevedibilità dell’ambiente lagunare, oggi mostrano un adattamento inconsueto alle difficili condizioni di vita della città. Con la consapevolezza di aver creato un impero sulle singolarità del bacino d’acqua che l’accoglie, Venezia è da sempre stata un luogo devoto al proprio ecosistema: alla sopravvivenza della laguna era legata anche quella della città. Un culto che ha reso Venezia un santuario sull’acqua per secoli. Ma quando quella sera continuarono a suonare le sirene, la città riscoprì nella laguna una minaccia alla conservazione antropica.  

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Storie analogiche in archivi digitali

Oggi la sovrapproduzione di memorie digitali permette di costruire una documentazione multiforme di quello che è successo durante quei giorni di Aqua granda del 2019: mentre in un segmento sonoro ci sono le correnti che si scontrano su Palazzo Ducale, delle immagini sgranate scoperchiano quello che rimane della violenza delle onde.

Per non perderne l’eredità, migliaia di testimonianze sono confluite in un’enorme archivio digitale open-source che racconta l’evento dal punto di vista di chi l’ha vissuto. Tra le pile interminabili di dati e codici, il progetto Aqua Granda scoperchia la storia di Venezia nel legame di sangue che c’è tra la città e la sua laguna.

“Più che un archivio è una memoria attiva”, spiega Massimo Warglien, ricercatore di Digital and Cultural Heritage dell’Università Ca’ Foscari di Venezia: “Abbiamo raccolto più di 7200 file multimediali tra fotografie, video e registrazioni, con l’idea di raccontare in linea diretta come un’intera città ha vissuto l’evento del 2019”.

Un uomo anziano con occhiali, capelli grigi corti e barba in piedi accanto a una finestra aperta
Massimo Warglien, professore e ricercatore di Digital and Cultural Heritage all’università Ca’Foscari di Venezia, in un aula della sede di Ca’Bottacin. Venezia, 30 Novembre 2021.

La prima Aqua granda della storia di Venezia risale al 4 novembre 1966. Al tempo le maree raggiunsero il picco storico di 194 cm e al ritrarsi delle onde si accumularono sfollati e detriti. In una riproduzione di un vecchio telegiornale di quegli anni, le immagini in bianco e nero diffuse dal tubo catodico sono la versione sbiadita delle riprese che abbiamo del 2019: sappiamo così che l’esperienza fisica dell’evento è stata la stessa di 50 anni fa. Ma oggi che le nostre memorie digitali sono a colori e possiamo sbirciare nel passato, abbiamo il privilegio di una comprensione degli eventi ben più profonda.

Nell’archivio digitale, la narrazione collettiva colma lo scarto tra gli eventi del ’66 e quelli del 2019: la visione d’insieme parla di come questi eventi eccezionali abbiano frantumato la percezione della Laguna agli occhi degli abitanti.

Barriere profane contro il mare

In una delle stanze di Palazzo Ducale c’è un olio su tela di Giambattista Tiepolo risalente al 1700 in cui il dio pagano delle acque e delle correnti Nettuno porge una cornucopia colma di monete e ricchezze in dono a una giovane figura signorile, la rappresentazione settecentesca della città di Venezia. Il dipinto suggella la sacralità del rapporto tra la città e la natura che la circonda.

“I doni di Nettuno oggi sono una minaccia”, racconta Warglien. “Nel tempo la percezione che l’uomo ha della Laguna è cambiata, e cambierà ancora. Oggi assistiamo a un rovesciamento storico nel ruolo della marea che segna un passaggio epocale, qualcosa che ha cambiato davvero il lungo legame della città con l’acqua. Un legame che ora va reinventato”.

Il ’66 crea un precedente che separa Venezia dalla sua laguna: ha inizio quella lenta inversione nel rapporto uomo-natura in cui la percezione collettiva dell’acqua passa da risorsa a minaccia. La massima espressione di questa narrazione è la costruzione del MOSE (Modulo Sperimentale Elettromeccanico), un sistema di paratoie mobili che aprono e chiudono il bacino d’acqua. Di fatto, una complessa struttura di difesa della città dalle maree.

I lavori per la costruzione del MOSE iniziano nel 2003, ma il completamento con la messa in funzione effettiva si realizza solo nell’ottobre 2020, un anno dopo l’Aqua granda del 2019. Per molti, non è una coincidenza: “Senza il disastro del 2019 staremmo ancora a discutere e tergiversare sul MOSE” commenta Umgiesser Georg, ricercatore dell’Istituto di Scienze Marine del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR-ISMAR).

Un canale che si allaga leggermente sopra il livello della strada nei ristoranti vicini a Venezia
Entrata di un ristorante che si affaccia su un canale della città di Venezia durante una mattinata di acqua alta. Venezia, 30 Novembre 2021.

In un certo senso, l’inasprimento delle condizioni ambientali dovute alla crisi climatica in ecosistemi già fragili ha infervorato una narrativa secessionista. Anche se non si possono ricondurre le cause dell’Aqua granda del 2019 solo al cambiamento climatico, i dati parlano chiaramente di un aumento nella frequenza dell’acqua alta negli ultimi anni: “Dal 1875 al 2017, abbiamo avuto 18 acque alte eccezionali – ossia superiori ai 140 cm. Ma dal 2018 a oggi, ne contiamo sette. Quindi il 25% delle maree eccezionali si sono verificate negli ultimi 3 anni. È perciò ovvio che siamo in una fase critica; si capisce che quello che vediamo è dovuto anche al cambiamento climatico” spiega Umgiesser.

“Dopo il panico del 2019, vedere il MOSE finalmente funzionare è stato un sollievo. Ma ora è inquietante vedere l’acqua che non si muove per ore” racconta Warglien. L’anno scorso, per tre giorni il MOSE ha impedito l’entrata delle correnti nella città, così l’acqua che riempie i canali, naturalmente soggetta a variazioni fisiche, si trasformò in una superficie piatta e senza vita.

La stasi dell’acqua lascia la città turbata, come se avvertisse di essere sull’orlo di un precipizio. È Venezia che entra nell’era dell’antropocene.

Anche se le cause dell’Aqua Granda 2019 non possono essere attribuite solo al cambiamento climatico, i dati mostrano chiaramente un aumento della frequenza dell’acqua alta negli ultimi anni.

Mutazioni antropogeniche

In Olanda, il passaggio delle maree è controllato da una serie di grossi blocchi di cemento regolati da un’intricata serie di meccaniche e portelloni. Nel Mare del Nord, le inondazioni sono già da tempo la principale minaccia climatica agli insediamenti umani. Dopo le violente mareggiate del 1953, vennero erette barriere di cemento. Per più di 50 anni, dei grossi blocchi grigi infilzati nel mare hanno difeso il Paese dalle aggressioni dell’acqua, ma oggi l’Olanda è costretta a ripensare il proprio rapporto con l’elemento naturale. La consistente perdita di biodiversità e l’effetto delle barriere sull’ecosistema spingono il paese a trovare soluzioni in simbiosi con la natura.

La parabola separatista dell’Olanda mostra i lati in ombra del futuro di Venezia murata: un ecosistema morente che cede il passo a ulteriori crisi ambientali.

“Cosa succederà quando dovremo alzare il MOSE tutti i giorni?” si chiede Warglien. “Anche considerando un certo livello di tolleranza della laguna, mi sembrano ovvie le conseguenze economiche sul traffico commerciale, la vita del porto e sull’equilibrio dei flussi delle maree e delle specie ittiche”.

Umgiesser chiarisce che il MOSE è, però, temporaneamente l’unica soluzione a disposizione della città: “Dobbiamo usarla perché è l’unica cosa che si può fare nell’immediato, ma siamo i primi a dire che il MOSE, con il cambiamento climatico e l’alzamento dei livelli d’acqua, non potrà più funzionare. A fine secolo potremmo già avere 50-70 cm di innalzamento del mare, e a quel punto la laguna sarà più chiusa che aperta”. 

Un tempo salvare Venezia significava salvare anche la laguna, ma oggi la città si trova davanti a una scelta difficile: “Con il cambiamento climatico, dobbiamo prendere una decisione: vogliamo salvare la laguna o la città di Venezia? Se salviamo la laguna, lasciamo aperto il MOSE e Venezia va sott’acqua. Se, invece, vogliamo salvare la città, siamo costretti a chiudere, chiudere sempre più spesso, finché a un certo punto si arriverà a dover staccare la laguna dal mare”.

La parabola separatista dell’Olanda mostra i lati in ombra del futuro di Venezia murata: un ecosistema morente che cede il passo a ulteriori crisi ambientali.

Strategie di conservazione

Eppure, Il MOSE potrebbe non dover essere un futuro già scritto per Venezia: “Ci sono altre soluzioni oltre al MOSE a cui dobbiamo pensare. Si discute, per esempio, della possibilità di pompare l’acqua nel sottosuolo della città, che potrebbe permetterci di guadagnare 30 cm, quei 30 cm che abbiamo perso in 150 anni”, spiega Umgiesser. Ma anche una maggiore accuratezza delle previsioni può aiutare nella gestione del MOSE e dei rischi dell’acqua alta.

Oggi sono ormai più di 50 anni che la Piattaforma Oceanografica Acqua Alta del C.N.R. raccoglie dati sul clima di onde, maree e vento, come di molte altre variabili. Istallata a largo del litorale di Venezia nel marzo del 1970, la piattaforma è tra le poche stazioni fisse di ricerca in mare aperto al mondo: una colonna di metallo che sprofonda nell’acqua per 16 metri. Dopo l’Aqua granda del ’66, era la speranza della città di salvare Venezia con la ricerca scientifica.

“Dopo tanto tempo di attività della piattaforma, è questo finalmente il momento in cui abbiamo una serie di dati misurati utili anche agli studi climatici” spiega Angela Pomaro, Ricercatrice del CNR-ISMAR. “La disponibilità di serie di misura omogenee per periodi di tempo superiori ai 30 anni sono rare e molto rilevanti per comprendere come il clima stia cambiando, oltre alle informazioni che ci forniscono i modelli. Oltre a questo, i dati misurati contribuiscono a sviluppare modelli sempre più accurati, fondamentali per la previsione dei livelli di acqua alta”.

Ma la precisione dei modelli non basta. Durante l’Aqua granda del 2019, fu evidente la mancata preparazione di Venezia alle maree eccezionali. Sebbene fosse impossibile prevedere scientificamente le condizioni che portarono alla mareggiata di quel giorno, la mancanza di piani di prevenzione e riduzione del rischio sulla terraferma si fecero sentire: “Nella valutazione di rischi climatici, la città di Venezia dimostra limitate capacità tecniche e amministrative”, spiega Julie Pellizzari, giovane ricercatrice in Water & Disaster Risk Governance. “Sebbene il Comune di Venezia abbia stretto collaborazioni proficue con i vari centri scientifici e di ricerca sul territorio, usufruendo anche di fondi europei per l’elaborazione di piani di adattamento, la città non dispone ancora di una valutazione dei rischi completa per tutto il territorio comunale. Basti pensare che il più recente studio del rischio è circoscritto alla zona urbana di Mestre e l’ultimo documento di base per la progettazione di un piano di adattamento risale ormai al 2014. I piani di adattamento sono azioni politiche volte a prendere delle misure per contrastare i rischi climatici: rischi che non si possono bloccare, ma che si possono mitigare riducendone l’impatto attraverso delle misure d’adattamento per salvaguardare popolazione e ambiente. Nel 2019 non c’era ancora un piano di questo tipo che fosse in grado di rispondere alle esigenze messe in moto dalla marea eccezionale”.

Un canale che si allaga leggermente sopra il livello della strada nei ristoranti vicini a Venezia
Julie Pellizzari, ricercatrice in Water and Disaster Risk Governance, davanti la sede di Venice Calls nell’isola della Giudecca. Venezia, 30 Novembre 2021.

Di quei giorni di acqua alta, molti ricordano una protezione civile assente o dall’intervento sporadico e scoordinato. Si racconta di volontari della protezione civile che vengono da fuori, non conoscono la città, chiedono ai veneziani indicazioni per raggiungere la Giudecca, ma non sanno neanche che è un’isola. Nel frattempo, la popolazione si organizza come può: alle 12.00 del 13 novembre a Rialto un gruppo di volontari si ritrova per far partire una staffetta di aiuti in tutta la laguna. La chiamata parte dai ragazzi dell’associazione Venice Calls e si moltiplica sui social; alla fine a Rialto si presentano in tantissimi.

Mentre i volontari girano per la città con la camminata incerta e l’acqua fin sopra le ginocchia, da una centrale operativa improvvisata, un gruppo ristretto di ragazzi – tra cui Sebastiano Cognolato, fondatore e presidente dell’associazione – coordinano le squadre di volontari. È una mobilitazione giovanile che si muove capillarmente per la città. Sono ovunque e fanno quello che possono. Al termine di quei giorni d’emergenza, le attività di Venice Calls continuano nel tentativo di tappare i buchi lasciati scoperti dall’amministrazione.

“Ci siamo accorti che non esiste un piano di protezione civile per l’acqua alta”, spiega Sebastiano. “Ci sono un paio di programmi che prevedono interventi per asciugare le chiese ma, ad esempio, non abbiamo dati delle persone che abitano al piano terra: ci sono delle ricerche di Insula che mappano le strade rispetto ai livelli del mare, ma non è stata fatta un’indagine dei bisogni sulla base della componente sociale”.

Consapevoli di alcune falle del sistema di protezione civile, Venice Calls ha cercato finanziamenti per completare un progetto di mappatura dei casi vulnerabili sull’area urbana di Venezia, in modo da essere preparati quando un’altra marea eccezionale colpirà la città: “In fase non emergenziale abbiamo fatto volantinaggio tra le abitazioni dei veneziani che vivono al piano terra – tipicamente le più colpite dall’acqua alta-, chiedendo alle persone se avessero bisogno di aiuto nell’eventualità di una seconda mareggiata. In generale, quelli che hanno risposto sono cittadini fragili, anziani e persone con disabilità”.

Coordinate della post-apocalisse climatica

Una sacca d’acqua lagunare dentro una sacca più grande, quella del bacino del Mediterraneo, rende l’ecosistema di Venezia un’isola con regole ed equilibri a sé, ma che racconta molto della crisi climatica nel Mediterraneo, dove i segnali di una degenerazione del clima sono già evidenti.

“Quello che possiamo vedere è che negli ultimi 20-30 anni la temperatura superficiale del Mediterraneo è aumentata di un grado e mezzo, con eventi di surriscaldamento della superficie marina in netto aumento. È così che nascono le bombe d’acqua: con un aumento nello scambio di calore con l’atmosfera” spiega Rosalia Santoleri, direttrice del CNR-ISMAR. “Sicuramente il nostro bacino mediterraneo è uno dei bacini che presenta eventi estremi di surriscaldamento più frequenti rispetto ad altre situazioni marine alla stessa latitudine. L’impatto è su tutte le attività costiere. Per questo le città sul mare, che sono anche quelle più popolate, riportano un impatto del cambiamento climatico più ampio”.

In Italia negli ultimi anni la situazione legata ai disastri ambientali è peggiorata. Mentre parte del Paese si perde nel ventre di incendi ingestibili, l’altra viene cancellata da alluvioni improvvise, piogge torrenziali o tempeste con velocità da uragano: “eventi che dal punto di vista idrologico mostrano come l’ecosistema stia diventando sempre più fragile” conclude Umgiesser. Cambiamenti nella bilancia della natura che anticipano scenari da un futuro non troppo lontano.

Eppure, la laguna ha storicamente subito profondi cambiamenti. “Secoli fa si dirottavano i fiumi affinché Venezia non si insabbiasse, perciò è evidente che la laguna ha dovuto affrontare cambiamenti ecologici indotti dall’uomo a più riprese”, racconta Warglien. “Ora sta per cominciare un altro di questi periodi di adattamento del sistema lagunare, e il problema è che l’adattamento è necessario, perché è difficile immaginare una città sommersa dall’acqua”.

iUna veduta generale della città di Venezia dalla laguna. In primo piano una “bricola” veneziana, che indica i tratti d’acqua navigabili. Sullo sfondo, le Dolomiti, complesso montuoso visibile dalla laguna soltanto in particolari giornate. Venezia, 30 Novembre 2021.

Se il cambiamento è inevitabile, quale configurazione assumerà la laguna in futuro rimane ancora da scrivere. “Ci sono tanti modelli possibili di laguna che possono emergere e che dipendono da fatti fisici ma anche culturali: come viene usata, da chi, per cosa. Diventa un’acqua park? o diventa un luogo vissuto, in equilibrio? Chi gestisce il modo in cui ci si adatta a questi cambiamenti è il problema”.

Un’amministrazione sorda alle richieste della popolazione e a un riadattamento incentrato sulla natura e il cittadino potrebbero definire il tracciato di Venezia verso l’autodistruzione. Ma per Warglien, è stato l’accento sulla conservazione della città a contribuire a ucciderla: “Una città morta non solo per definizione, ma per aspirazione. L’idea di patrimonio è una trappola: la città deve poter cambiare, o il risultato è che la popolazione sparisce perché diventa parte di un museo. Dobbiamo capire come dar vita alla città: ecco perché il vero tema è la governance di Venezia. Ma come gestiamo questo cambiamento a fianco di istituzioni che attualmente non sono aperte a cambiare rotta?”.

Con il cambiamento climatico, dobbiamo prendere una decisione: vogliamo salvare la laguna o la città di Venezia?