I cambiamenti climatici provocati dalle attività umane stanno aggravando la povertà e l’instabilità politica, intensificando i conflitti per le risorse fondamentali come l’acqua, e spingendo sempre più persone a migrare. Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), il 90 per cento dei rifugiati nel mondo oggi proviene dagli stati più esposti all’emergenza climatica. I disastri naturali costringono ogni anno 21,5 milioni di persone in tutto il mondo a lasciare le proprie case, spostandosi sia all’interno che all’esterno del proprio Paese. 

Sebbene i Paesi occidentali siano responsabili della maggior parte delle emissioni mondiali di CO2, sono gli stati in via di sviluppo a pagare il costo maggiore del cambiamento climatico; le diseguaglianze globali si riflettono anche sulla crisi climatica. 

Legambiente riferisce che dal 2017 al 2020 almeno il 76 per cento dei flussi migratori verso l’Italia erano dovuti a “cause o concause ambientali”. Ma l’Italia, oltre che terra d’approdo, è anche un hotspot del cambiamento climatico come tutta l’area mediterranea. Secondo l’Associazione italiana del Patto per il Clima (Euclipa), dal 2010 al 2018 sono stati 198 i comuni italiani colpiti da eventi climatici disastrosi, e 340 i fenomeni meteorologici estremi; 157 persone sono morte e oltre 45.000 sono state sfollate. Dalla siccità alle recenti alluvioni che hanno colpito l’Emilia Romagna, le situazioni estreme sono sempre piu all’ordine del giorno. In Italia, il fenomeno della migrazione climatica interna è già una realtà. Nel giro di qualche anno, alcune zone del Paese potrebbero diventare inabitabili. 

Eppure, sia in Italia che a livello internazionale, al sempre più diffuso fenomeno della migrazione climatica viene data ben poca importanza: a chi si sposta per motivi ambientali, nessun Paese concede lo status di rifugiato.  

Migrazione invisibile 

Il termine “rifugiato ambientale” compare ufficialmente per la prima volta nel 1985 in un rapporto dell’UNEP (Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente). Da quel momento, si è fatto ricorso a vari termini per identificare chi si sposta per motivi ambientali: migrante climatico, sfollato ambientale, eco-migrante, rifugiato climatico. 

Nella definizione della Convenzione di Ginevra (1951) sui rifugiati, non vengono prese in considerazione le persone che lasciano il proprio Paese a causa di eventi ambientali estremi, ma solo coloro che migrano a causa di persecuzioni “per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale o opinione politica”. 

Anche per via della mancanza di una definizione condivisa a livello internazionale, fare delle stime precise sul numero dei profughi ambientali non è semplice. Nei prossimi 30 anni, secondo la Banca Mondiale, 143 milioni di persone saranno costrette a lasciare le loro case a causa di catastrofi climatiche. Destinate a subire l’impatto maggiore sono le aree più soggette alla siccità, come gli stati africani del Sahel, e quelle minacciate dall’innalzamento degli oceani. Insieme alle isole del Pacifico, a quest’ultima categoria appartiene anche il Bangladesh, l’ottavo stato più popoloso al mondo, il cui territorio è in media pochi metri sopra il livello del mare. 

Adil (nome di fantasia) è un ragazzo bengalese migrato in Italia a seguito delle alluvioni che hanno colpito l’India e il Bangladesh nella primavera del 2022. Il villaggio dove abitava è stato completamente sommerso, la sua casa distrutta e il bestiame decimato. Eppure, Adil non ha lasciato il Bangladesh a causa del disastro ambientale. “È molto raro che le persone si spostino in un Paese straniero per effetto diretto della crisi climatica”, spiega Eugenio Alfano, avvocato specializzato in diritto dell’immigrazione e protezione internazionale che collabora con il progetto “Le rotte del clima”. I disastri dovuti al cambiamento climatico infatti creano, in prima istanza, sfollati interni. Nel 2021, l’Internal Displacement Monitoring Centre ha registrato 59 milioni di migranti forzati, di cui 38 milioni di sfollati interni. Di questi, solo 14,4 milioni sono stati costretti a migrare per sfuggire a violenza e persecuzione; i restanti 23,7 milioni lo hanno fatto per questioni ambientali. 

Il motivo della migrazione di Adil, racconta Alfano, è di natura sia economica che ambientale. Tutto è cominciato da un prestito chiesto a una rete di usurai-criminali. La casa di Adil, che doveva essere garanzia del pagamento, è andata distrutta dalle alluvioni. Temendo ripercussioni, Adil ha lasciato il Bangladesh. “Dato che le inondazioni sono fenomeni strutturali del Bangladesh, molti migranti bengalesi non si considerano rifugiati climatici,” spiega Alfano.  

I disastri naturali costringono ogni anno 21,5 milioni di persone in tutto il mondo a lasciare le proprie case, spostandosi sia all’interno che all’esterno del proprio Paese.

Se i migranti stessi non associano i loro spostamenti alla crisi climatica è anche per via dell’assenza di riconoscimento e tutela giuridica. La questione terminologica ha una ricaduta pratica: una volta che i migranti climatici vengono formalmente riconosciuti come una categoria specifica, si possono mettere in atto delle forme di tutela che ad oggi non esistono. Secondo  Veronica Dini, presidente dell’istituto di ricerca Systasis che ha avviato “Le rotte del clima”, la migrazione climatica passa spesso inosservata anche ai professionisti che forniscono assistenza legale ai migranti. “Gli avvocati non sono tenuti a chiedere informazioni ai propri clienti a tema ambientale, anche perché nessuno fa ricorso ad argomentazioni legali connesse all’emergenza climatica in assenza di normativa,” spiega Dini. 

Senza basi legali 

In Italia, fino al 2018, la protezione umanitaria tutelava i diritti dei migranti – inclusi quelli che si spostavano per motivi climatici – che non potevano ottenere lo status di rifugiati. Questo era possibile grazie a una clausola che salvaguardava i diritti sanciti dalla Costituzione. Nel 2020, il “decreto sicurezza” voluto dall’allora ministro degli interni Matteo Salvini ha introdotto il permesso di soggiorno per calamità naturali della durata di sei mesi, il cui rinnovo è possibile solo se la calamità continua a sussistere.  

Le catastrofi ambientali possono essere a rapida insorgenza (terremoto, alluvione) o a lenta insorgenza (deforestazione, siccità, salinizzazione delle acque). Il permesso di sei mesi tutela solo i disastri a rapida insorgenza, escludendo quindi gran parte dei migranti climatici dalla tutela giuridica. Specialmente le persone migranti che provengono da Paesi colpiti da conflitti per la scarsità delle risorse naturali, come quelli dell’area del Sahel, il Sud Sudan e la Siria, sono escluse da questo tipo di protezione ambientale, che ad oggi è l’unica esistente in Italia.  

Prendendo le mosse da questionari e interviste anonime che esplorano il tema della migrazione climatica attraverso le esperienze dirette dei migranti, il progetto “Le rotte del clima” ha come obiettivo ultimo quello di individuare dei casi studio da portare a giudizio. I migranti senza permesso di soggiorno che possono dimostrare di essere rifugiati climatici potrebbero creare dei precedenti utili al riconoscimento di uno status legale. Il progetto vuole fare da apripista ad altre ricerche simili anche a livello europeo. 

Vuoto politico  

Con il loro approccio giuridico, progetti come “Le rotte del clima” possono contribuire al riconoscimento formale della migrazione climatica. Ma i precedenti giuridici non possono, da soli, rimpiazzare la mancanza di visione politica a livello italiano ed europeo. Secondo Angelica De Vito, consulente climatica delle Nazioni Unite, la riluttanza nel riconoscere uno status legale ai migranti climatici potrebbe discendere anche da un calcolo politico di Paesi come l’Italia, dove i governi guardano con ostilità al fenomeno migratorio. 

La propaganda sull’“invasione” dei migranti  è una costante nel dibattito pubblico italiano degli ultimi anni, e i partiti di destra l’hanno sfruttata abilmente per accrescere il loro consenso. Lo scorso aprile, hanno fatto scandalo le parole del ministro dell’agricoltura Francesco Lollobrigida, che ha parlato di “sostituzione etnica” causata dai flussi migratori verso l’Italia e dal contemporaneo declino delle nascite.  

Con il “decreto Cutro” (che prende nome dal paese calabrese luogo di un naufragio in cui hanno perso la vita 94 persone lo scorso 26 febbraio) il governo di destra guidato da Giorgia Meloni ha inasprito le pene per chi tenta di arrivare in Italia irregolarmente via mare, e ha reso più difficile rimanere in territorio italiano.  

Anche a livello europeo, le politiche migratorie mancano di una visione di medio e lungo termine. L’accordo recentemente raggiunto dal Consiglio per riformare il sistema di asilo dimostra che gli obiettivi principali sono scoraggiare gli arrivi, consentire rapidi rimpatri e ridurre i cosiddetti movimenti secondari all’interno dell’UE, mentre gli standard di protezione saranno ulteriormente ridotti. 

Sebbene, secondo Frontex, gli attraversamenti non autorizzati dell’Europa siano aumentati di oltre il 60 per cento tra il 2021 e il 2022, l’UE non ha ancora riformato il suo sistema di asilo, mentre il fenomeno della migrazione climatica resta appannaggio delle conferenze internazionali come la COP27. A novembre 2022 a Sharm el-Sheikh, i governi hanno concordato che i Paesi in via di sviluppo più colpiti dai disastri climatici riceveranno fondi per le “perdite e i danni” per facilitare la ricostruzione dopo eventi meteorologici estremi. Ma i dettagli sul funzionamento del nuovo fondo globale devono ancora essere definiti.