Da quando Giorgia Meloni è Presidente del Consiglio, la sua metamorfosi in una leader più moderata e filo-occidentale le ha assicurato credibilità sul palcoscenico internazionale. Ma come conciliare questa immagine con il profilo identitario del suo governo, la linea dura sull’immigrazione e la repressione dei diritti civili? Risponde l’esperta di comunicazione politica Giorgia Bulli. 

Antonio Contini: Quando si è insediata a ottobre 2022, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha delineato un programma molto conservatore. Sta mantenendo la promessa? 

Giorgia Bulli: I primi mesi di un governo sono simbolicamente molto importanti per valutarne l’operato. Il primo elemento da osservare è quanto l’esecutivo sta perseguendo di tutto ciò che i partiti di governo avevano inserito in campagna elettorale.  

Un altro elemento a cui guardare è il gradimento dell’opinione pubblica rispetto ai temi che il governo ha messo al centro della propria azione e comunicazione politica. Nei primi mesi, i temi più caldi sono stati l’immigrazione, la sicurezza e le politiche sul lavoro. Sin da subito, Meloni ha voluto segnare una netta discontinuità con le politiche sociali dei governi Conte. Lo si è visto, ad esempio, con la sospensione e poi l’abbandono del reddito di cittadinanza. 

Quanto all’immigrazione, il tema rappresenta un cavallo di battaglia e un elemento che unisce il centrodestra, in particolare Fratelli d’Italia e la Lega. La strage di Cutro e la sua gestione comunicativa (non essere andati sul luogo della tragedia, aver poi organizzato in chiave simbolica un Consiglio dei Ministri a Cutro) ha rappresentato un momento di difficoltà per il governo. Dall’altra parte però, con  il successivo “Decreto Cutro”, il governo ha ribadito la sua posizione di fermezza,  facendo leva sugli elementi di intransigenza che hanno sempre caratterizzato le campagne politiche ed elettorali dei partiti di centrodestra sui temi migratori.  

Sia sull’immigrazione che sul tema del lavoro c’è stata quindi continuità con le promesse elettorali. 

Di recente, Meloni si è spesa in prima persona per un controverso patto UE con la Tunisia per fermare i flussi migratori. Anche questa mossa è coerente con la sua narrazione? 

L’accordo concluso con la Tunisia, in un momento nel quale le coste di questo paese sono diventate punti di partenza di flussi sempre più ingenti, è stato presentato dal governo e da Giorgia Meloni come simbolo del doppio binario sulle politiche migratorie: chiusura verso le migrazioni irregolari e apertura, attraverso il nuovo decreto flussi triennale, verso i canali regolari di ingresso dei migranti. Il mancato rispetto dei diritti umani in Tunisia, così come in Libia, nei confronti dei migranti che da quei paesi tentano il pericolosissimo attraversamento del Mediterraneo, è taciuto o ricondotto nella narrazione del governo alla necessità di porre un freno alla disponibilità di canali illegali per le migrazioni, al mercato degli scafisti, all’azione incontrollata delle ONG che operano nel Mediterraneo.  

Quali altri temi hanno tenuto banco nei primi mesi del governo Meloni?  

Su altri elementi è più difficile fare una valutazione, perché hanno una minor esposizione simbolica. Uno di questi è la gestione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr). I media stanno mettendo in luce le difficoltà incontrate nel gestire questi fondi, e se il governo dovesse rivelarsi non in grado di farlo in maniera virtuosa, si troverebbe in difficoltà con l’elettorato e con la politica locale. 

La giustizia è un altro tema che ha tenuto banco sin dai primi mesi. Sulla questione del 41-bis, per esempio, si è visto nell’approccio “law and order” rivendicato dal governo. 

Un tema più significativo a livello simbolico è quello dei diritti civili. Le decisioni sul blocco dei riconoscimenti dei figli di genitori dello stesso sesso, o che hanno fatto uso della maternità surrogata, così come il dibattito sull’utero in affitto, mettono in mostra la continuità fra le promesse della campagna elettorale, il profilo identitario dei partiti di centrodestra, e le azioni del governo Meloni. La proposta di legge che definisce la maternità surrogata come reato universale va esattamente in questa direzione.  

In questa valutazione complessiva c’è anche da chiedersi quanto la coesistenza tra i tre partiti che danno vita a questa coalizione di centrodestra – l’esecutivo più spostato a destra degli ultimi decenni – possa generare delle competizioni interne. Meloni ovviamente non gradisce che queste tensioni vengano a galla, preferirebbe mantenerle sotto traccia, ma non sempre le riesce. 

Nel 2013 Fratelli d’Italia si presenta alle elezioni per la prima volta, e prende il 2 per cento. Nove anni dopo, vince le elezioni con il 30 per cento. Come si spiega questa rapida ascesa?  

Diversi elementi hanno contribuito. Alcuni riguardano la posizione che Fratelli d’Italia ha assunto nello sviluppo recente del sistema partitico italiano: l’essere sempre stato all’opposizione; la critica al governo di aver bypassato il Parlamento durante la crisi pandemica; il richiamo alla necessità di andare alle urne durante le tante crisi di governo; l’esser stato l’unico partito a non entrare nel governo Draghi.  

Un secondo fattore è stata la capacità di Giorgia Meloni di raccogliere la protesta e veicolarla in una dimensione sovranista. Anche il rapporto cordiale con Draghi ha fatto sì che l’ingresso di Meloni nel consesso europeo sia stato visto in maniera meno severa. 

Altre questioni sono più legate a Giorgia Meloni in quanto politica capace di richiamarsi ai valori tradizionali, presentandosi con la sua identità di donna, di politica, di madre (come nel video diventato virale). Agli occhi del suo elettorato, è stata importante la lotta al politically correct fatta non solo dalla destra radicale italiana, ma anche dalla destra, populista o no, in molti altri paesi. 

Anche l’usura della leadership di Salvini e la debolezza della campagna elettorale del centrosinistra hanno contribuito all’ascesa di Meloni. 

Nella crescita di Fratelli d’Italia hanno avuto un ruolo anche la destra movimentista più estrema come Casapound e i movimenti che hanno sfruttato la rabbia dei cittadini contro le politiche pandemiche e vaccinali? 

C’è un’intera galassia di movimenti e gruppi di destra e di estrema destra attivi nel mondo politico italiano, e le critiche a Giorgia Meloni sull’indisponibilità a ad utilizzare il termine “antifascismo” mostrano che ancora oggi c’è una cultura politica alla quale deve parlare. Questo non perché il bacino di elettori di Fratelli d’Italia si riconosca tutto nella cultura della destra estrema, ma perché quella cultura serve a mantenere un profilo identitario forte. 

Fratelli d’Italia vuole evitare di essere percepito come un partito dall’identità liquida che ha perso i richiami dell’origine, ma allo stesso tempo non vuole citare esplicitamente quei richiami.  

Nel corso degli anni, il profilo identitario della Lega si è sfumato e ha subito una trasformazione netta, dal localismo al nazionalismo. Meloni vuole evitare che questo accada a Fratelli d’Italia, anche a costo di mantenere posizioni  ambigue sul 25 Aprile, rimarcando invece l’attaccamento ai valori cari ai militanti della destra radicale, come si è visto in occasione del cinquantesimo anniversario del rogo di Primavalle. 

Eppure durante la campagna elettorale Meloni ha moderato i toni rispetto al passato, per esempio cambiando i suoi riferimenti culturali e citando spesso Margaret Thatcher, quasi a tendere verso una grande destra conservatrice sul modello inglese. 

È vero che in campagna elettorale Meloni ha ammorbidito i toni per non allarmare l’elettorato sulla prospettiva di un governo di estrema destra alle porte. Ma Meloni sa perfettamente che imbarcarsi in operazioni come quella della costituzione di un partito unico conservatore non sarebbe una strategia percorribile. Le fusioni a freddo, come la nascita del Partito Democratico o il Popolo della Libertà di Berlusconi (nato dal tentativo di creare una nuova casa comune per Forza Italia e Alleanza Nazionale) hanno faticato ad affermarsi o sono naufragate. Nel profilo identitario che Giorgia Meloni vuole mantenere si deve sempre poter distinguere cosa è Fratelli d’Italia, cosa Lega e cosa Forza Italia.  

Dopo la vittoria elettorale, Fratelli d’Italia ha saputo interpretare abilmente il ruolo di partito-guida all’interno della coalizione di centrodestra, dimostrando capacità di concedere agli alleati la loro parte ma mantenendo per sé il ruolo di partito alla guida del governo. 

A livello istituzionale, invece, come sta gestendo la comunicazione Giorgia Meloni? L’impressione è che in Europa stia cercando di incarnare un conservatorismo presentabile e atlantista, mantenendo una linea dura contro la Russia, diversamente da altri leader europei che strizzano l’occhio a Putin. 

Meloni è stata capace di gestire la comunicazione politica in maniera da soddisfare le aspettative del consesso europeo e, come si è visto recentemente, anche di quello statunitense.  La presidente del consiglio ha avuto le sue fasi antieuropeiste e anti-atlantiste, ma non si è mai esposta quanto Salvini alla vicinanza con Putin e non ha fatto ricorso a slogan radicali come “No all’Unione Europea” o “fuori dall’Euro”. Questo le ha permesso di recuperare il tema della fedeltà atlantica in maniera più credibile di quanto sia riuscito a fare il leader della Lega, ed oggi è percepita come una leader comunque europeista. 

A livello nazionale, però, Meloni cerca di soddisfare le esigenze dell’elettorato e dell’opinione pubblica interna, cavalcando i temi più facilmente comunicabili in chiave identitaria, spettacolarizzata e personalizzata. 

Tutti i video social in cui la Presidente del Consiglio parla in prima persona sono realizzati con la stessa modalità, con un’enfasi sull’incisività dell’azione politica e il suo metterci la faccia. Questa forte personalizzazione a volte rischia di mescolarsi con la gestione della comunicazione a livello di governo. 

Forse solo nei prossimi anni sapremo quanto può durare questa duplice strategia comunicativa. 

Questa comunicazione al contempo identitaria e rassicurante a livello istituzionale può contribuire a spezzare il tabù dell’alleanza tra le destre moderate e quelle più radicali a livello europeo? 

Qui le considerazioni legate alla leadership di Meloni non bastano, perché i diversi Paesi europei hanno reagito all’avanzata della destra radicale in maniera diversa. Se da un lato in Austria la FPÖ ha collaborato più volte con i partiti di destra più mainstream, dall’altro in Germania esiste ancora un cordone sanitario nei confronti dell’AfD, così come in Francia nei confronti del Rassemblement National. La non disponibilità a creare patti elettorali non significa che non vi sia un’appropriazione dei temi dell’estrema destra da parte dei partiti più moderati, i quali in questo modo sperano di guadagnare voti. In altri casi ancora, come in Danimarca, questi partiti di destra radicale hanno fornito ai governi supporto esterno, influenzandone le politiche ma senza entrare in coalizione. 

In ogni Paese, queste dinamiche dipendono sia dalla cultura politica che dalle decisioni dei partiti. 

Per questo motivo, non vedo all’orizzonte una rottura del tabù generalizzato a livello europeo. L’Italia è sempre stata un laboratorio da questo punto di vista. Già Silvio Berlusconi nel 1994 aveva sperimentato la convivenza con Alleanza Nazionale e con la Lega Nord, due partiti molto difficili da far coesistere. Alleanza Nazionale ha così avuto accesso al governo immediatamente dopo la sua evoluzione dal MSI.  

L’Italia è stata un laboratorio anche quando, nel 2018, ha visto la prima collaborazione fra due partiti populisti completamente diversi, la Lega e il Movimento 5 Stelle. Visti questi trascorsi, quello che succede in Italia non deve essere per forza paragonato a quello che accade negli altri paesi europei. 

Anche se il suo partito si è ridimensionato nel tempo, Berlusconi ha avuto fino alla fine un’influenza enorme sulla destra e sulla politica italiana in generale. Ora che non c’è più, cosa può cambiare?  

È presto per dire quali effetti la scomparsa di Berlusconi avrà sul centro destra. Per una valutazione, occorre procedere per tappe evolutive. Molto dipenderà dalle performance del governo nel corso dei prossimi mesi, almeno fino al momento delle prossime elezioni europee. In quell’occasione sarà possibile comprendere quanto Forza Italia goda ancora di un appoggio liberale, e quanto la trazione di destra dell’attuale governo sia apprezzata.  

Su quali aspetti dovrebbe lavorare la sinistra, in Italia e in Europa, per fermare l’avanzata e il successo delle destre? 

In Italia, il Governo Meloni potrebbe fare degli errori. Il dibattito sulle riforme istituzionali è pericoloso per la coalizione, quindi non è detto che Giorgia Meloni voglia veramente investire su questo nei primi anni del governo. Ma anche su altre questioni può scivolare, come gli indicatori economici e la gestione del Pnrr. 

C’è poi il tema del mantenimento della coalizione. Salvini sta rischiando molto nella competizione con Giorgia Meloni. Inoltre, la Lega ha tante realtà politiche al proprio interno: una è ancora profondamente legata alla dimensione produttiva e culturale del Nord, un’altra alla comunicazione personalizzata di Salvini. 

 A livello europeo, la questione è legata ai temi centrali nei prossimi anni. Uno di questi è la transizione verde e la lotta al cambiamento climatico, su cui la sinistra deve spendersi in maniera chiara. E deve soprattutto impegnarsi nel conciliare i temi ambientali con la crescita economica. Questa è una delle sfide più grandi per quanto riguarda il profilo identitario della sinistra, che non può contare solamente sui temi legati ai diritti civili.  

La sinistra deve essere capace di interpretare le preoccupazioni di quella parte di elettorato che le ha voltato le spalle perché a destra ha trovato delle risposte sul mantenimento di alti livelli di welfare, anche qualora questo preveda una delimitazione dei diritti di welfare ai soli autoctoni. Una parte dell’elettorato di sinistra prende in considerazione ricette di destra nel momento in cui vede diminuire la propria tranquillità economica.  

Anche l’immigrazione diventa quindi un discorso delicato per la sinistra, che deve sfuggire alla dicotomia tra la chiusura netta da parte della destra e il frame dell’utilità dei flussi migratori per il Paese, che in questo momento non sta funzionando. Occorre quindi che le sinistre richiamino a una gestione più europea dell’immigrazione, trovando il modo giusto, anche a livello comunicativo, per sfidare le destre.