Personaggi pubblici come politici e giornalisti non sono estranei a discorsi d’odio e molestie online. Anche se non è un fenomeno nuovo, l’epoca globalizzata di oggi ha visto internet diventare un nuovo terreno dove dibattiti al vetriolo prosperano e si diffondono. Con un focus sull’Italia, Sofia Cherici traccia le radici dell’odio che permea il mondo online e offline rafforzando le strutture di esclusione e mettendo a tacere le voci delle donne e delle minoranze. Con l’odio cibernetico a livelli preoccupanti, la democrazia stessa è in gioco.

Il 30 ottobre 2019, Liliana Segre diventava prima firmataria in aula al senato italiano di una mozione da lei stessa presentata sull’istituzione di una commissione monocamerale contro l’incitamento all’odio (o hate speech), dentro e fuori la rete. Così il dibattito sull’odio online prese un’inaspettata piega storica.

La mozione, che nello specifico si prefigge di combattere forme di hate speech quali intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza, è stata poi approvata al senato, tra il plauso generale, con 151 sì; una conquista solo parzialmente oscurata dalla preoccupante zona d’ombra lasciata dai 98 astenuti del centro-destra che hanno fatto indignare l’opinione pubblica. Che Liliana Segre – senatrice a vita dal 2018 e figura pubblica di rilievo nel panorama italiano perché sopravvissuta della Shoah fosse la portavoce di un’istanza parlamentare contro l’hate speech, colloca l’intera vicenda all’interno di una fenomenologia dei discorsi d’odio ben più ampia. Questo perché Segre, per l’ironia della ciclicità storica, è stata vittima due volte delle dinamiche d’incitamento all’odio, benché in epoche e forme diverse: la prima, in quanto sopravvissuta alle ideologie d’odio che l’hanno vista deportata, all’età di 14 anni, nel campo di sterminio nazista di Auschwitz-Birkenau; la seconda, quando un’escalation di insulti e minacce online l’hanno costretta a vivere sotto scorta dal Novembre 2019.

Così Liliana Segre smaschera l’anello invisibile che mette in relazione diverse tappe della storia contemporanea: ci ricorda che i discorsi d’odio non sono un fenomeno da ascriversi prettamente all’era dei social media, quanto piuttosto manifestazioni storiche di respiro globale, dilatate dalle moderne tecnologie di comunicazione online.

Marinella Belluati, professoressa associata all’Università di Torino e sociologia dei processi culturali e comunicativi, mette in relazione gli episodi di totalitarismo che hanno caratterizzato il XX secolo con una logica dell’odio che identifica e costruisce un nemico all’interno di gruppi sociali cosiddetti marginali. Questo perché l’hate speech è radicato nella dialettica democratica: “il fenomeno va ricondotto a un’abitudine insita in un tipo di argomentazione che è tipico delle forme di potere e interazione ai più alti livelli della società”.

Se l’incitamento all’odio è un’inclinazione umana piuttosto comune nella nostro sistema di interconnessione sociale, i social media, in quanto incubatori e amplificatori della cultura contemporanea, riproducono ed esaltano questo modello d’interazione. Per la fame di sensazionalismo e drammatizzazione che alimenta il funzionamento dei media, i social network mostrano una tendenza a radicalizzare le diverse forme di estremismo che si manifestano online. Così anche la cultura dell’odio viene esaltata dalle strutture reticolari delle piattaforme di comunicazione web.

Tale tendenza si estremizza quando i discorsi d’odio affollano il palcoscenico politico. Per la visibilità mediatica tipicamente associata alle figure pubbliche, i leader politici sono particolarmente esposti a episodi d’incitamento all’odio in rete. La probabilità sale quando sono le donne a ricoprire cariche pubbliche: studi recenti condotti su base globale hanno rilevato una sostanziale casistica di attacchi online direzionati a donne e minoranze attive in politica. Il rischio è che le voragini sociali causate dall’incitamento all’odio si rafforzino nelle camere d’eco dei social media: ora che il campo di battaglia della politica si realizza online, lo spazio digitale pone nuove sfide ai principi d’inclusività e rappresentanza che sono alla base dei sistemi democratici.

Fenomenologia dell’odio

Gli attacchi online alle leader politiche sono un fenomeno di portata globale. Dagli Stati Uniti all’India alla Finlandia, i casi di violenza psicologica sulle parlamentari di tutto il mondo si manifestano nelle forme più disparate: commenti sessisti, attacchi misogini, minacce di stupro, intimidazioni e voyeurismo digitale, ma anche uso di immagini e foto a scopo umiliante. Eppure, questi attacchi ci mostrano solo la parzialità di una problematica socioculturale ben più estesa per la quale circa tre quarti delle utenti di internet hanno subito violenza online; una statistica che ci racconta di come i social media siano la nuova frontiera della violenza di genere.

Secondo uno studio del 2018 commissionato dal Parlamento Europeo, l’Europa non fa eccezione. Tra i fattori che innescano l’hate speech online nella regione, spiccano i casi di donne con un profilo pubblico, quali attiviste, politiche, artiste e giornaliste. In effetti, in Italia sono tantissime le donne nel settore dei media e della comunicazione a ricevere intimidazioni online in relazione al loro lavoro: in un’indagine dell’International Women’s Media Foundation del 2013, è emerso che su un campione di 149 giornaliste, circa due terzi risultano essere state esposte al fenomeno. Anche in un’indagine su Twitter e Facebook condotta da Amnesty International Italia tra novembre e dicembre 2019 emerge che, nell’insieme, le donne prese in studio con un profilo pubblico attirano un terzo in più di attacchi personali rispetto agli uomini, e 1 su 3 è di natura sessista.

I rischi aumentano per le donne con un profilo identitario eterogeneo, come l’appartenenza a contesti etnici e religiosi minoritari. In Inghilterra, una ricerca del 2017 di Amnesty Global Insights ha esposto la gravità degli attacchi online contro deputate nere e asiatiche del Parlamento di Westminster, calcolando che in media ricevono il 35% di tweet offensivi in più rispetto alle loro colleghe bianche.

Anche l’analisi fornita da alcuni ricercatori sulle pratiche di violenza a sfondo sessuale nel mondo digitale conferma una maggiore incidenza per donne e persone LGBT+, al contrario dei più generici casi di cyber-violenza in cui non c’è una netta distinzione di genere tra chi subisce e chi perpetra l’abuso. In tal senso, è evidente come la conformazione del fenomeno dell’hate speechonline riproponga sul web i paradigmi con cui le differenti forme di discriminazione, violenza e molestie si configurano offline.

È il caso della sfera pubblica, dove l’esclusione politica della donna è stata strutturale per secoli per la stereotipizzazione dei generi che associa la figura femminile alla sfera privata. Studi recenti guardano ai pregiudizi strutturali nei confronti delle donne che ricoprono cariche pubbliche e, distinguendo il fenomeno da altre forme di violenza politica, parlano di violenza culturale come mezzo d’esclusione: l’aderenza a talune norme culturali arriva a tollerare alcuni tipi di maltrattamento quando perpetrati nei confronti di determinati gruppi sociali, come certe forme di sessualizzazione che hanno la responsabilità di spostare il discorso da un discussione sulle competenze a una valutazione su moralità e apparenza.

La corsa all’odio delle istituzioni

In Italia, l’hate speech online è uno strumento ormai asservito al dibattito istituzionale. In uno studio sull’ uso del linguaggio d’offesa nelle discussioni politiche, Belluati identifica una connessione tra l’utilizzo di retoriche d’odio come mezzo di propaganda e la crisi dell’argomentazione razionale in politica; così il cementarsi della pratica sta mettendo in crisi l’eco-sistema democratico.

Secondo la ricerca, a fare un uso particolarmente massiccio di forme verbali conflittuali contro “la casta” politica, in particolare nei confronti di colleghe di rilievo come l’ex Presidente della Camera Laura Boldrini e l’ex ministra Boschi, sono stati il Movimento 5 Stelle e la Lega Nord: partiti anti-sistemici e populisti che, strumentalizzando e direzionando i discorsi d’odio a loro piacimento, alimentano una certa narrativa conflittuale nei confronti dell’altro, guadagnandone in termini di visibilità pubblica.

Destabilizzatori sociali quali crisi economiche e variazioni nei profili migratori sembrano modificare la direzione delle correnti di hate speechonline. Se negli anni ’90 erano i gruppi provenienti da Albania, Romania, Marocco e Cina a portare lo stigma sociale, oggi la retorica d’odio ombreggia sulla popolazione musulmana. Negli ultimi anni, le reazioni socioculturali innescate dal discordo d’odio, soprattutto in materia di immigrazione, vengono spesso asservite a una logica populista manovrata da esponenti politici di destra con il solo scopo di infervorare il proprio seguito e le campagne politiche.

Nonostante tale pratica favorisca soprattutto le frange anti-sistemiche e le retoriche sovraniste, il fenomeno non sembra fare distinzioni tra colore e orientamento politico. Nel rapporto di Amnesty International Italia, il profilo di Giorgia Meloni, politica italiana e presidente del partito d’estrema destra Fratelli d’Italia, emerge sia come vittima che sobillatrice: proprio nel febbraio del 2021, Meloni è stata al centro di un dibattito che la vedeva bersaglio di offese sessiste online.

Quando le impalcature istituzionali trasudano odio, il morbo dell’hate speech si è ormai endemizzato. A tal proposito, Belluati chiarisce il ruolo fondamentale ricoperto dai ‘soggetti intermedi’ che operano tra opinione pubblica e vertici del paese, quali i media tradizionali e i social network. “In Italia, quello della comunicazione mediatica è un settore ancora poco capace di auto-riflessività e di valutare l’efficacia delle proprie pratiche culturali quali la riproduzione di un certo tipo di pensiero non egualitario”. In effetti, molti studi hanno confermato che i miti e gli stereotipi di genere proposti nei media tradizionali si riproducono nelle piattaforme di comunicazione online: è all’interno di quelle terrae nulliusche sono nelle mani dei potenti del Big Tech che si realizza il vero potenziale d’espansione dell’hate speech. Belluati spiega che le grandi piattaforme come Facebook e Twitter, mosse da una logica di profitto condizionata dai livelli di traffico, hanno poco interesse nella semantica che vi circola, purché produca valore di mercato. “Questa situazione poteva andare bene nella fase del ‘far west’ dei social media; ora è arrivato il momento di regolamentare”.

Odio online: la spada di Damocle sulla testa della democrazia

L’hate speech online contro figure pubbliche istituzionali è spesso percepito come inevitabile. Per quanto l’impatto della retorica d’odio sia di difficile misurazione, l’osservazione della pratica ha confermato la sua capacità di sopravvivere anche in ambienti diversi da quelli di incubazione: proprio come un virus, il messaggio d’odio resiste anche al di fuori del contesto originale, modificando gli intenti con i quali era stato generato. Accade così che i suoi effetti penetrino anche nel mondo offline; i buchi neri che ne derivano ci raccontano molto della complessità di un fenomeno che fatichiamo ancora a comprendere.

Dopo che l’auto della giornalista maltese Daphne Caruana Galizia è esplosa nel 2017, le indagini sulla sua morte hanno mostrato sotto un’altra luce i 30 anni di intimidazioni e minacce online. Storie simili sono quelle della deputata inglese Jo Cox, della corrispondente filippina naturalizzata statunitense della CNN Maria Ressa e della giornalista indiana Gauri Lankesh. Crimini d’odio dalla diversa narrativa ma con lo stesso, preoccupante leitmotiv: le vittime erano bersagli di incessanti attacchi online. Nonostante sia impossibile tracciare una linea sicura tra cyberhate e crimini d’odio, sono tanti i casi di uccisioni di giornaliste e politiche che suonano l’allarme su un possibile nesso.

Sugli squilibri dell’eco-sistema democratico innescati dall’incitamento all’odio online, la discussione si aggroviglia quando si parla degli effetti sulla partecipazione politica dei gruppi sociali più esposti. Molti attivisti e ricercatori sostengono l’esistenza di un rapporto più o meno evidente tra la cronica sottorappresentazione di donne in politica e la maggiore probabilità a essere prese di mira da forme d’odio online. Uno studio finlandese riporta che il 28% dei funzionari comunali intervistati che sono stati bersaglio di incitamento all’odio hanno dichiarato una minore predisposizione a prendere parte al processo decisionale; perciò, il rischio concreto di essere investiti da ondate di attacchi online sembra agire come deterrente. In Inghilterra, alcuni sindacati hanno evidenziato i tanti casi di donne che rinunciano a candidarsi in politica per l’insostenibilità dello stigma online. Anche nel settore della comunicazione, alcune ricerche sottolineano come l’implacabilità della violenza virtuale stia portando molte giornaliste a modificare metodo di lavoro e presenza online, a volte portando addirittura a un cambio di carriera.

Secondo Belluati, però, c’è la necessità di complessificare la questione. “È vero che le donne, soprattutto se ai vertici, sono facile bersaglio di questo schema di violenza; eppure, che le donne si sottraggano per paura di essere maggiormente esposte è una risposta troppo facile alla questione della loro scarsa rappresentazione in politica. Di fatto, che le donne partecipino sempre di meno, è un dato ben antecedente all’esplosione del web”.

Belluati spiega che la questione della partecipazione femminile alla vita pubblica ha a che fare con un meccanismo più sistemico. In Italia, lo scenario politico ha sofferto per decenni di una presenza di donne e minoranze al parlamento cronicamente più bassa rispetto alla media europea. Se nel governo Conte I (2018-2019) la presenza di donne elette al parlamento raggiunse il numero record di 334 (35.8% del totale di deputati eletti), permettendo così all’Italia di superare finalmente la media europea dopo decenni di stallo, fu soprattutto grazie all’applicazione di specifiche leggi elettorali per la parità di genere. “Dopo la stagione ruggente degli anni ‘70 in cui l’attivismo femminile si realizzava a tutti i livelli, ci si chiede perché nel 2021, se non ci sono dei meccanismi regolativi come le quote, l’accesso di donne in politica rimanga bloccato.”

Il problema è la conciliazione, spiega Belluati: “certe carriere sono onerose e obbligano a scelte e percorsi non ancora codificati per le donne. Poi c’è il dato adattivo; un tipo di resistenza culturale che, nel tempo, ha prodotto una disaffezione, soprattutto nel guardare ai posti alti. Così la massa critica che dovrebbe salire, a un certo punto si ferma autonomamente”.

Belluati chiarisce come questi meccanismi siano evidenti osservando i numeri di donne che partecipano alla politica locale in Italia, soprattutto se messi a confronto con quelli ai piani alti: in effetti, è palese la partecipazione femminile sul territorio di prossimità, mentre lo scarto più grande rimane quello ai vertici del paese, dove nessuna donna ha mai ricoperto il ruolo di Capo di Stato o Presidente del Consiglio. “Il sistema di blocco ha prodotto nel tempo un disinteresse nel femminile a concorrere per quelli che sono i vertici – anche se con qualche eccezione. Insomma, il costo dell’essere attive è un costo che le donne non sono sempre disposte a pagare”.

Un vaccino per l’hate speech online

Certi fenomeni possono diventare virali, spiega Belluati. “La stessa pandemia ci fa capire quali sono gli effetti perversi della viralità. L’hate speech online, proprio come un virus, può essere contrattaccato da forme di difesa; la società sta costruendo una serie di anticorpi in risposta, come strumenti di identificazione, debunking e contrasto proattivo”. La miglior cura, secondo Belluati, resta però la creazione di un sistema di rilevamento dell’abuso, da affiancare a strutture di protezione per i gruppi esposti.

In Italia, sono molte le iniziative nate da attori sociali: Amnesty International Italia porta avanti da tempo un lavoro estensivo di pattugliamento dei social media; l’associazione Carta di Roma è diventato un punto di riferimento importante per l’hate speech legato al tema della migrazione; la startup sociale Chi Odia Paga (COP) ha sviluppato la prima piattaforma legal tech in Italia con lo scopo di facilitare l’accesso ai principali strumenti di protezione legale per vittime di illeciti online.

Per Belluati, queste iniziative offrono evidenze su cui formulare politiche efficaci, costruiscono buone pratiche e forniscono risposte innovative in campo tecnologico; ma “il problema emerge quando ai piani alti non c’è risposta”. In effetti, in ambito istituzionale, solo negli ultimi anni si è iniziato a parlare concretamente di hate speech online. Le prime iniziative sono nate dalle proposte di alcune parlamentari molto attive nella campagna di sensibilizzazione nei confronti del fenomeno; è il caso della deputata del Partito Democratico (PD) e ex-Presidente della camera dei deputati Laura Boldrini e della già citata senatrice a vita Liliana Segre.

Date le dibattute tematiche sociali di cui si fa spesso portavoce, la deputata Laura Boldrini è stata spesso bersaglio di feroci attacchi online per le sue posizioni in ambito di politiche di immigrazione e parità di genere. Fece scalpore la sua decisione, dopo anni di abusi in rete, di denunciare i suoi aggressori virtuali. Nel 2018, era a fianco di Segre nell’istituire la commissione monocamerale contro l’incitamento all’odio, anche se già nel 2016 aveva tentato di portare la questione in Parlamento con la Commissione Jo Cox sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio. Più recentemente, il 10 marzo 2021, Boldrini ha presentato alla Camera una proposta di legge che si propone di stabilire pesanti sanzioni contro i gestori di siti che non rimuovono contenuti d’odio dalle loro pagine web. Con i soldi delle sanzioni, si prevede di finanziare un fondo per le scuole e attivare iniziative di prevenzione e educazione digitale.

Ma la componente sociale, cosi come quella istituzionale, da sole non bastano. “Data la complessità e capillarità del fenomeno, le forme di resistenza devono esistere in ambito educativo, culturale e normativo, cooptando le diverse parti del sistema, compresi politici, media e grandi società dei social media”, conclude Belluati. “La responsabilizzazione deve avvenire in tutti i pezzi del sistema pubblico, a livello locale, nazionale e sovranazionale. Se questo incastro non avviene, tutti gli sforzi rischiano di essere depotenziati. Tutti siamo parte in commedia: noi ricercatori che studiamo questi fenomeni, il mondo dell’informazione che dà visibilità, il sapere sociotecnico che costruisce infrastrutture e quello istituzionale che deve regolamentare.”

Rimane la questione della sensibilizzazione culturale al fenomeno: come fare, quindi, a produrre una cultura che contrasti l’odio invece che generarlo. Potenzialmente, i grandi movimenti sociali che sono in prima linea nella lotta alle discriminazioni sulla base di sesso, razza e orientamento sessuale avrebbero la capacità di stimolare una campagna di sensibilizzazione dal basso capace di generare la trasformazione culturale necessaria a contrastare le diverse forme di hate speech online. Ma in Italia manca un movimento intersezionale capace di prendere in carico le istanze dei diversi gruppi minoritari e riunirle sotto un’unica voce: finché le lotte femministe, antirazziali e LGBT+ rimarranno separate, anche la campagna di contrasto all’hate speech online resterà incagliata. 

Eppure, la complessità dei fenomeni di hate speech e il ruolo che hanno giocato nel dipanarsi degli eventi storici raccontano di un fenomeno di ampie dimensioni che rischia di produrre voragini dentro i nostri sistemi societari: un’emergenza che non ci è più concesso di ignorare. Una democrazia i cui sistemi di partecipazione sono inibiti da fenomeni sistemici di discriminazione rischia di diventare l’ombra di sé stessa. Così l’incitamento all’odio e la diffusione di stereotipi e disinformazione in nome di falsi dei di libertà, rischiano di trasformare i social media in campi di coltivazione demagogici pronti a sfamare l’ombra distorta della democrazia per darla in pasto a partiti e gruppi politici che sfruttano retoriche populiste per radicalizzare l’elettorato.