Sei mesi dopo la presentazione del Patto sulla migrazione e l’asilo da parte della Commissione europea, i negoziati al Consiglio procedono a rilento, per gli stessi motivi che nel 2018 hanno portato al fallimento del precedente tentativo di riforma del sistema d’asilo. Dietro la retorica del “nuovo inizio”, il Patto non riesce a conciliare gli interessi divergenti degli stati membri. Intanto al Parlamento europeo c’è chi spera di creare un fronte comune contro una proposta che, se approvata, segnerebbe un grave arretramento del diritto individuale d’asilo.

“L’ultima volta che sono andato al valico di frontiera di Montgenèvre, sulle Alpi, facevano diciotto gradi sotto zero. Ho  visto arrivare delle famiglie che volevano chiedere l’asilo. La polizia francese le ha respinte dicendo che non avevano un test pcr”. Damien Carême, eurodeputato del gruppo Verdi/ALE, è fuori di sé. Per quasi vent’anni sindaco di Grande-Synthe, una cittadina portuale vicino a Dunkerque, nel nord della Francia, conosce bene la dura realtà di chi cerca rifugio nell’Unione europea. I respingimenti sulle Alpi da parte delle autorità francesi, come anche quelli eseguiti in mare dalle autorità greche o maltesi o i respingimenti a catena lungo la rotta balcanica, sono il frutto di un sistema di asilo e migrazione europeo vecchio di decenni, rigido, iniquo e incapace di riformarsi realmente.

Eletto al Parlamento europeo nel 2019, Carême si batte oggi senza riserve contro il Patto sulla migrazione e l’asilo presentato dalla Commissione il 23 settembre scorso. Presentato come “un nuovo inizio”, questo corposo pacchetto di proposte dovrebbe permettere di superare lo stallo della riforma del sistema di asilo europeo, creando un meccanismo “equo ed efficace” che protegga chi dev’essere protetto, allontani rapidamente chi non ha il diritto di restare nell’UE e rispetti le differenti esigenze degli stati membri proponendo vari modi di contribuire al sistema. “È una pessima proposta che non risolverà nulla. Secondo me, andrebbe tutta cestinata”, è il laconico giudizio di Carême, che per il suo gruppo politico seguirà da vicino le discussioni su una delle principali e più criticate proposte contenute nel Patto, il Regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione, per il quale è stato nominato relatore ombra (i relatori ombra sono eurodeputati che affiancano il relatore principale, rappresentando le posizioni degli altri gruppi politici.).

In questi ultimi sei mesi numerosi esperti – accademici ma anche membri di ONG attive sul campo – hanno analizzato a fondo le proposte della Commissione, giungendo all’unanime conclusione che il Patto rappresenta tutto fuorché un nuovo inizio. Si tratta piuttosto di un colpo di acceleratore dato a tendenze e procedure già presenti e molto problematiche. Se approvato, il Patto generalizzerebbe l’approccio hotspot collaudato in Grecia e in Italia, creando zone in cui verrebbero trattenute le persone arrivate irregolarmente sul territorio dell’Unione europea (principalmente chi si presenta alle frontiere, ma anche chi è fermato all’interno dell’Ue). Il trattenimento durerebbe il tempo necessario a procedere a una serie di accertamenti, già previsti dalle norme attuali ma che verrebbero disciplinati da un nuovo testo di legge. Questi controlli determinerebbero di fatto la tappa successiva: rimpatrio, procedura accelerata di asilo alla frontiera o accesso a una procedura di asilo regolare. Durante gli accertamenti, la procedura di asilo alla frontiera e i preparativi del rimpatrio, le persone non sarebbero “autorizzate a entrare nel territorio di uno Stato membro”, in base a un controverso concetto noto come “finzione di non ingresso”.

Una proposta pericolosa e ambigua

L’eurodeputata olandese Tineke Strik, relatrice ombra dei Verdi/ALE per la proposta che riguarda gli accertamenti, la definisce “pericolosa e ambigua”: “Lascia agli stati membri molta libertà, per esempio nel definire le condizioni di accoglienza durante gli accertamenti e nel decidere il ricorso o meno alla detenzione. La stessa Commissione precisa che gli standard legati al diritto comunitario in materia di asilo non si applicheranno in queste zone, nessuna direttiva o regolamento tranne la Carta dei diritti fondamentali”.

Altro punto preoccupante, secondo Strik, è l’assenza di indicazioni sulle qualifiche richieste alle persone che effettueranno gli accertamenti, raccogliendo dati personali, i motivi “dell’arrivo non autorizzato” e informazioni “sugli itinerari percorsi”. Il modulo redatto alla fine degli accertamenti avrà un impatto sul seguito della procedura, ma non potrà essere contestato, denuncia Strik, aggiungendo che “in quelle zone non è prevista assistenza legale né la presenza di ONG che possano informare le persone sulle conseguenze delle loro dichiarazioni”.

La Commissione chiede agli stati membri di “istituire un meccanismo di monitoraggio indipendente, che dovrebbe vigilare specialmente sul rispetto dei diritti fondamentali in ogni fase degli accertamenti e sul rispetto delle norme nazionali che disciplinano il trattenimento”. “A quanto ne so”, commenta Strik, “gli stati membri sono fortemente contrari a questa disposizione”. Non sorprende, considerata la scarsa diligenza con cui effettuano monitoraggi di questo tipo, già previsti in altri contesti (per esempio durante i rimpatri forzati).

La Croazia è in questo senso un “banco di prova” per il Patto, osserva Milena Zajovic del Border Violence Reporting Network, intervistata di recente dal giornalista Apostolis Fotiadis. Il governo croato, invitato nel novembre del 2020 a creare un meccanismo indipendente di monitoraggio alle sue frontiere, si è mostrato finora molto riluttante. Zajovic solleva due punti importanti alla luce del Patto. Il primo è che le ONG croate sono scettiche riguardo all’indipendenza di un futuro sistema di monitoraggio (“temono di essere usate”), il secondo è che “i respingimenti non avvengono ai posti di frontiera” (dove si svolgerebbero i controlli previsti dal governo croato). “Sappiamo che i respingimenti e altre violazioni non avvengono ai valichi ufficiali, ma in altre zone di frontiera come i boschi o il mare, dove c’è ancora meno controllo  sull’operato delle guardie di frontiera”, concorda Tineke Strik. “Per questo cercherò di far ampliare la portata del meccanismo di monitoraggio, insistendo non solo sulla sua indipendenza ma anche sulle risorse e sul mandato”.

Se escludiamo l’ostilità verso i monitoraggi indipendenti, l’ossessione per i rimpatri, la volontà di raccogliere quante più informazioni su chiunque provi a entrare nell’UE, non c’è molto altro che metta d’accordo gli stati membri, impegnati, come gli eurodeputati, a discutere i vari documenti che compongono il Patto. Lo scoglio principale, quello che ha fatto naufragare il precedente tentativo di riforma del sistema di asilo e che potrebbe riservare la stessa sorte al Patto, è la questione della spartizione delle responsabilità nell’accoglienza dei richiedenti asilo e nella gestione delle loro domande di protezione. Nel Patto, il tanto criticato regolamento di Dublino è abolito sulla carta ma non viene in realtà intaccato, poiché il principale criterio per determinare lo stato membro responsabile dell’esame di una richiesta di asilo rimane in sostanza quello del paese di primo ingresso. La Commissione propone di correggere questo squilibrio imponendo una scelta tra diverse opzioni di “solidarietà”: gli stati dove arrivano meno richiedenti asilo potranno accettarne il ricollocamento sul loro territorio, “sponsorizzare” il rimpatrio di persone presenti in un altro stato membro o scegliere altre “forme di sostegno operativo”. Il problema è che gli stati di frontiera vorrebbero un sistema molto più vincolante, che garantisca realmente una minore pressione sui loro sistemi di accoglienza, mentre diversi stati dell’Europa centro-orientale lo considerano già un’inaccettabile imposizione.

Un grande déjà-vu

Quando le chiedo se non le sembra di vivere un grande déjà-vu, l’eurodeputata tedesca Cornelia Ernst annuisce. Al suo terzo mandato con il gruppo Sinistra Unitaria Europea/Sinistra Verde Nordica (GUE/NGL), sa che i tentativi di riformare il sistema di asilo europeo, quando non si inceppano, possono solo peggiorare la situazione. Ernst ricorda che durante l’ultima legislatura il Parlamento era riuscito a trovare una posizione comune sulla riforma del Regolamento di Dublino. Dopo mesi di consultazioni, nel 2017 l’eurodeputata svedese Cecilia Wikström aveva presentato una proposta ambiziosa, che prevedeva un reale meccanismo di solidarietà tra gli stati. Approvata a larga maggioranza dal Parlamento, la proposta è stata poi scartata dal Consiglio. “Rispetto ad allora il Parlamento è meno progressista”, osserva Ernst. “Ci sono partiti di destra che rifiutano di accogliere anche un solo richiedente asilo. Ma dobbiamo unire tutte le voci critiche contro il Patto, compresi gli eurodeputati di paesi come Italia, Grecia, Malta e Spagna, che capiranno che questa proposta non è nel loro interesse. Dobbiamo mobilitare tutte le forze, mostrando la realtà e basandoci sui fatti, perché il Patto rappresenta un nuovo livello di pericolo per il diritto individuale all’asilo”.

Come denuncia l’eurodeputato tedesco Erik Marquardt (Verdi/ALE), la Commissione sembra aver deliberatamente ignorato i fatti nell’elaborare la sua proposta, in particolare per quanto riguarda le procedure alla frontiera. Nonostante avesse l’obbligo di presentare entro il 2017 uno studio d’impatto su queste procedure, la Commissione non l’ha fatto. È stato il Parlamento europeo a svolgere lo studio, che ha permesso a Marquardt di presentare una risoluzione (ovvero una dichiarazione politica) approvata a febbraio con 505 voti a favore, 124 contrari e 55 astensioni.

“Abbiamo potuto mostrare che il ricorso alle procedure di asilo alla frontiera ha importanti conseguenze sul piano giuridico. La Commissione può anche sostenere che con il Patto le procedure alla frontiera funzioneranno bene, le decisioni saranno prese rapidamente, ci saranno alternative alla detenzione, i minori non saranno mai detenuti. Ma se guardiamo come si svolgono concretamente queste procedure ora, non c’è nessuna ragione di credere che le cose andranno meglio solo perché lo dice la Commissione”, osserva Marquardt. “Non c’è sufficiente sostegno per le persone vulnerabili, nessun vero accesso all’assistenza legale, in molti paesi la procedura alla frontiera è associata alla detenzione e i motivi della detenzione non sono giustificati. Attualmente gli stati membri se ne infischiano delle garanzie giuridiche. Aumentare le procedure alla frontiera non farà che portare a situazioni problematiche come quelle che già conosciamo, per esempio sulle isole greche”.

Marquardt si augura che il voto sulla risoluzione sia rivelatore di una sintonia del Parlamento europeo sui dossiers da esaminare nei prossimi mesi. Riconosce che i gruppi hanno opinioni diverse sulle procedure alla frontiera: se parte di Renew e del PPE sono piuttosto a favore, i Verdi non le considerano necessarie per avere un sistema di asilo equo ed efficace: “Bisognerebbe invece concentrarsi su come migliorare le procedure normali e sui ricollocamenti”. Ci sono poi divisioni di natura geografica: gli eurodeputati dei paesi di frontiera vogliono che il ricorso alle procedure accelerate sia lasciato alla discrezione dello stato membro per evitare “ingorghi” in centri sovraffollati, mentre altri vedono di buon occhio una procedura che permette di fermare i richiedenti asilo prima ancora che mettano ufficialmente piede sul territorio dell’Unione. Tuttavia, conclude Marquardt, “il Parlamento ha dimostrato che in una democrazia i politici, pur avendo opinioni diverse, hanno il compito di trovare risposte comuni alle sfide, in questo caso accelerare le procedure di asilo assicurando però il rispetto dei diritti fondamentali e le garanzie giuridiche”.

Un altro voto incoraggiante è stato quello, a dicembre del 2020, su una risoluzione che portava sull’attuazione del Regolamento di Dublino. Anche in questo caso la Commissione non aveva mai effettuato uno studio d’impatto. Con 448 voti a favore, 98 contrari e 149 astensioni, il Parlamento ha affermato che il sistema di Dublino non può funzionare.

Fatti contro ideologia

Per rimediare all’assenza di dati forniti dalla Commissione, il Parlamento europeo ha ora commissionato “una valutazione d’impatto su una serie di questioni presenti trasversalmente in ogni dossier del Patto”, spiega Tineke Strik, citando per esempio l’accesso all’assistenza legale o il diritto a un ricorso effettivo. “Nella precedente legislatura il Parlamento si era mostrato unito sulla questione dei ricollocamenti obbligatori dei richiedenti asilo”, aggiunge. “Non sono certa che avremo ancora una maggioranza, ma ho la sensazione che in gran parte dei gruppi ci sia una forte resistenza contro il carattere permissivo delle proposte contenute nel Patto”.

Permissive verso gli stati membri, non fondate su dati concreti, queste proposte, secondo Cornelia Ernst, rivelano l’approccio ideologico della Commissione e del Consiglio alle questioni della migrazione e dell’asilo. Un approccio che non ha nulla di nuovo. “Fino al 2009, anno in cui sono entrata al Parlamento europeo, i cosiddetti Balcani occidentali non erano considerati sicuri per le comunità rom, presenti in Germania e in altri paesi dell’UE. Poi quell’anno, di punto in bianco, il Kosovo, la Bosnia e via dicendo sono improvvisamente diventati sicuri per la Commissione e gli stati membri. Fu una decisione ideologica”. In modo altrettanto arbitrario, denuncia Ernst, il Patto propone che una persona proveniente da un paese per il quale “la percentuale di decisioni di riconoscimento della protezione internazionale è inferiore al 20 %” sia indirizzata verso una procedura accelerata, in cui i diritti di ricorso sono limitati (è previsto infatti un solo ricorso senza effetto sospensivo automatico). “Una violazione del diritto d’asilo”, commenta Ernst.

Questo approccio ideologico, oltre a ridurre i diritti dei richiedenti asilo e delle persone migranti in generale, ha portato alla creazione e all’incessante rafforzamento di un’agenzia come Frontex, il cui bilancio annuale è in crescita costante (544 milioni nel 2021). Il Patto insiste sulla centralità di Frontex nel controllo delle frontiere europee e nei rimpatri, centralità ribadita con forza dal vicepresidente della Commissione Margaritis Schinas in un’intervista rilasciata al quotidiano spagnolo El País all’inizio del 2021. “Dobbiamo riuscire a stabilire un controllo ferreo delle frontiere europee, come fanno gli Stati Uniti”, ha dichiarato Schinas, arrivando a citare la “presenza massiccia di Frontex nel mar Egeo” come modello di gestione degli arrivi irregolari di persone migranti.

Creata per “combattere un nemico che non esiste” (per riprendere lo slogan delle campagna Frontexit, lanciata nel 2013), l’agenzia è da tempo criticata per la sua opacità e per la sua mancanza di responsabilità nel campo del rispetto dei diritti fondamentali. Dopo le recenti inchieste sul suo ruolo nei respingimenti illegali e sui suoi rapporti con l’industria delle armi, Frontex sarà ora esaminata da vicino dal Parlamento europeo, che a gennaio ha istituito un gruppo di lavoro incaricato di indagare sul suo operato.

Damien Carême è soddisfatto della creazione di questo gruppo, ma lo considera solo un primo passo: “Da più di un anno chiedo una commissione parlamentare con una missione più ampia, che indaghi sul rispetto dello stato di diritto alle frontiere e all’interno dell’Unione europea. Il problema non è solo Frontex, ci sono vari stati membri che operano dei respingimenti, ed è tutto documentato da associazioni di giornalisti e ONG. Lo dico sempre: la Francia, oggi, non rispetta lo stato di diritto”. Per questo Carême, insieme ad altri parlamentari Verdi – europei e nazionali – ha lanciato un‘iniziativa di solidarietà, affiancando ogni fine settimana i volontari attivi a Montgenèvre.

In un editoriale pubblicato il 19 febbraio, la direttrice del European Council on Refugees and Exiles (ECRE) Catherine Woollard invita a non abbassare la guardia sul Patto: anche se ora se ne parla meno, i negoziati procedono, e non è da escludere che Consiglio e Parlamento raggiungano un accordo su alcuni dossiers, abbandonando l’idea di approvare l’intero pacchetto di proposte. In effetti, nelle dichiarazioni rilasciate dopo la videoconferenza informale dei ministri dell’interno europei del 12 marzo, la Commissione e la Presidenza portoghese del Consiglio dell’UE hanno sottolineato che su due proposte più tecniche (e meno controverse), gli stati membri hanno quasi raggiunto un accordo, e che esiste una volontà comune di concentrarsi ora sulla dimensione esterna delle politiche migratorie (in altre parole, su come convincere gli stati terzi, in particolare del Nord Africa, a collaborare alle riammissioni).

Erik Marquardt è convinto che la società civile abbia un ruolo importante da svolgere durante le discussioni sul Patto: “Le ong non passano il tempo a Bruxelles a fare lobbying, sono presenti sul campo, sanno cosa succede e possono aiutarci a fondare le nostre politiche su dati concreti”. Per questo, aggiunge, è essenziale garantire il loro accesso alle zone di frontiera: “Se vogliamo un sistema di asilo che funzioni davvero, dobbiamo permettere alla società civile di contribuirvi e di sostenere i richiedenti asilo”.

Comunque vada a finire questo nuovo tentativo di riforma, il Patto è chiaramente lo specchio di un’Unione europea che, pur di non rimettere in discussione le basi del suo sistema di accoglienza, preferisce aggrapparsi a una visione della migrazione dettata dall’estrema destra. Come scriveva di recente Leila Hadj Abdou, ricercatrice presso il European University Institute, le origini dell’attuale status quo risalgono agli ottanta, quando si è messa in moto una pericolosa spirale: “Le prime riforme in senso restrittivo delle politiche di  migrazione e asilo, tanto negli stati membri quanto a livello europeo, dovevano servire a contenere i sentimenti antisistema e la crescita dei partiti ostili all’immigrazione. Ma, così facendo, si è contribuito ad aumentare la rilevanza e la visibilità del tema della migrazione, e quindi anche della sua contestazione. In altre parole, quest’evoluzione politica ha rafforzato l’idea che serva un maggiore controllo dell’immigrazione, prescindendo in parte dai numeri o dagli effetti di questa immigrazione”.

Nel 2018 l’Unione europea, abbandonando il progetto di riforma del Regolamento di Dublino approvato dagli eurodeputati, ha sprecato un’occasione per cominciare a invertire la rotta. I prossimi mesi ci diranno quanto sarà ripida la corsa al ribasso rilanciata dal Patto.