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La crisi energetica che colpisce in questo momento l’Europa è probabilmente destinata a durare ancora a lungo, e sono le fasce più povere della popolazione a pagarne il prezzo più alto. Per quanto ci provino, i governi degli Stati membri non riusciranno a risolvere il problema contando su combustibili fossili, energia nucleare e centrali a carbone. Al contrario, bisognerà fare in modo che le nostre società utilizzino meno energia. In questo articolo, Swen Ore analizza il concetto di “sobrietà energetica” ed illustra il razionamento e la tariffazione progressiva dell’energia, misure che potrebbero permettere di gestire il calo di disponibilità energetica in maniera equa.

Si è tornati a parlare di razionamento dell’energia, a causa dell’interruzione delle forniture di gas da parte della Russia e dell’imminente crisi energetica. Razionamento presentato però sotto mentite spoglie: per non andare contro i pilastri ideologici della società dell’abbondanza in cui viviamo, si preferisce utilizzare espressioni come “riduzione del consumo”, “gestione della domanda”, “autosufficienza” o ancora “sobrietà energetica”.

Ma che cos’è esattamente la sobrietà energetica? Il principio di razionamento, pur restando ancora un concetto tabù, potrebbe rappresentare un’alternativa alla situazione attuale di povertà energetica crescente e di crisi ecologica generalizzata?

Il termine “sobrietà” risuona in maniera particolare tra gli ecologisti. Secondo il filosofo Ivan Illich, un pensatore radicale le cui opere hanno ispirato il movimento politico ecologista attuale, la sobrietà incarna una concezione di tipo anti-produttivista della società, basata su di un’etica della “convivialità” che incoraggia le persone a mantenere relazioni autonome e creative tra loro e con l’ambiente. Come dichiara Illich ne La convivialità (1974), “Le persone riscopriranno il valore della decrescita felice e dell’austerità liberatrice solo se reimpareranno a fare affidamento su loro stessi piuttosto che sugli schiavi energetici”.[1]

Se applicata all’energia, la sobrietà rappresenta una visione politica a lungo termine volta a creare una società che sia in grado di sfuggire al ciclo di crisi consecutive, diventando meno dipendente dall’energia. Non è dicendo semplicemente che “noi tutti” dobbiamo consumare meno, come se le diseguaglianze sociali non esistessero, che risolveremo il problema; al contrario, occorrono cambiamenti strutturali nel nostro modo di utilizzare l’energia, che lo rendano al contempo democratico e socialmente equo.

Sobrietà o autosufficienza?

Ad un primo sguardo, l’uso del termine sobrietà potrebbe essere confuso con la lotta all’alcolismo, come sperimentato in prima persona dall’ecologista francese Luc Semal, uno degli autori del monumentale Sobriété énergétique (Sobrietà energetica), durante i suoi primi incontri con le organizzazioni della società civile. Una volta dissolto il malinteso, però, la metafora rimane pertinente: la nostra civiltà ha sete di energia così come ha sete di alcol, ed entrambi dovrebbero essere prodotti in maniera adeguata, scelti con accuratezza e consumati con moderazione. Proprio come l’abuso di alcol, l’abuso di energia può diventare deleterio, sia da un punto di vista sia fisico che sociale.

Nel mondo anglofono, il termine “autosufficienza” energetica è usato più spesso, rispetto a  “sobrietà”. In questo articolo ho scelto di considerarli come equivalenti. Entrambi i concetti comportano la necessità di dirsi “quando è troppo è troppo” e di creare un’alternativa all’uso smodato (e allo spreco) di energia da parte della nostra società.

La produzione e il consumo di energia in Francia, inclusa quella di importazione, sono cresciuti senza sosta dal 1945. Fin dagli anni Novanta si è tentato in diversi modi di gestire il consumo energetico (anche prima, se si considerano le campagne contro gli sprechi degli anni Settanta), ma ognuna di queste misure aveva il limite di focalizzarsi sull’efficienza energetica o di essere soltanto un gesto politico di facciata.

Lo stesso discorso vale per le politiche energetiche dell’Unione europea. Nel 2012, la ricercatrice Maria Edvardsson ha dichiarato di non essere riuscita a trovare un solo testo pubblicato dalla Commissione europea che tratti in maniera diretta i concetti di sobrietà energetica o di autosufficienza[2]. La situazione odierna non è cambiata: quando questi termini appaiono, il loro utilizzo rivela un approccio confuso alla nozione di efficienza energetica.

Il discorso dominante riguardo il risparmio energetico rimane ancorato al paradigma della crescita, in cui le innovazioni tecniche hanno un ruolo cruciale; un concetto ben espresso dalle ricerche del teorico della società americano Jeremy Rifkin sulla “terza rivoluzione industriale”. Secondo Rifkin, le tecnologie informatiche e le energie rinnovabili permetteranno a centinaia di milioni di persone di produrre la propria energia sostenibile. Tali strutture decentralizzate sostituiranno i sempre più obsoleti sistemi basati sul nucleare, sul gas e sul carbone. Un nuovo mondo di tecnologie altamente collegate tra loro creerebbe milioni di posti di lavoro e “un numero infinito di nuovi beni e servizi”, contribuendo alla crescita economica.

In quest’ottica, il risparmio energetico si pone come una possibilità offerta dall’avanzamento della tecnica per tagliare i costi di produzione e accelerare la creazione di nuove tecnologie al fine di passare ad un’economia decarbonizzata. L’efficienza energetica sposta in avanti i confini della crescita, portando così ad un maggiore consumo globale di energia. Seguendo questo approccio, il Presidente francese Emmanuel Macron ha dichiarato nel febbraio 2022 che, al fine di ridurre del 40 per cento il proprio consumo di energia, la Francia dovrebbe optare per una “crescita sobria”, aggiungendo che quest’obiettivo può essere raggiunto “senza privazioni” e tramite “l’innovazione [e la] trasformazione dei nostri processi industriali”.

Per gli ecologisti come Luc Semal, questa visione non è indice dell’emergere della società a cui aspirano: l’autosufficienza energetica da loro auspicata è prima di tutto politica, e si basa sulla distribuzione equa degli sforzi da compiere per ridurre il consumo energetico, non sullo sviluppo di nuove tecnologie. Per Semal e per chi condivide il suo pensiero, “autosufficienza” significa ripensare il fabbisogno globale di energia, il che implica anche una ridefinizione delle basi economiche delle nostre democrazie.

Un “contratto naturale” per migliorare il contratto sociale

Nelle democrazie capitaliste, l’accesso all’energia si esprime nei termini di un diritto per i più poveri o di una libertà per i più ricchi. Per questo, gli sforzi di rendere tali democrazie più sostenibili (e quindi le politiche volte a ridurre il consumo energetico globale) genera paure e insicurezze in alcuni di noi e, in altri, la sensazione che la propria libertà e il proprio stile di vita siano sotto attacco. Per raggiungere la sobrietà energetica è dunque necessario ridefinire il contratto sociale, tenendo finalmente in conto i limiti delle risorse e ristabilendo il significato di “abbastanza”. Il filosofo Michel Serres definisce questo accordo “contratto naturale”.

L’obiettivo del contratto naturale è di ridurre le disuguaglianze attraverso la creazione di nuovi meccanismi di solidarietà che si basino sulla penuria, piuttosto che sull’abbondanza, di risorse. Il concetto di autosufficienza è una sfida a rendere il dibattito sull’energia più concreto, e richiede una ridefinizione dell’uguaglianza e della giustizia attraverso il prisma del consumo energetico.

Scopo di questo tipo di politiche è di anticipare, in maniera democratica, ciò che l’economista Christian Arnsperger e il filosofo Dominique Bourg definiscono “un ritorno forzato all’autosufficienza che, tramite violenze e disuguaglianze, distrugge l’autentica dignità umana”. Anticipare, in altre parole, l’aumento della povertà energetica durante la crisi attuale.

Razionamento e autosufficienza collettiva

La storia europea pullula di esempi di politiche di razionamento introdotte in periodi di guerre o crisi petrolifere. Mathilde Szuba [3], qui riassunta e parafrasata dall’autore, descrive le politiche di razionamento in Francia nelle due guerre mondiali e nei Paesi Bassi durante la crisi petrolifera del 1973. I governi si dimostrano in effetti capaci di intervenire sul mercato in maniera drastica e giusta quando necessario. Tuttavia, la società civile è pronta ad accettare queste misure solo nel momento in cui apportino equità ai più poveri e sicurezza ai più ricchi.

In Francia, le misure di razionamento rimangono tutt’ora associate all’occupazione tedesca durante la Seconda Guerra mondiale, in cui veniva usato come strumento di privazione. Venticinque anni prima, però, durante la Prima Guerra mondiale, lo stesso sistema venne usato per contrastare il consumo eccessivo e le ingiustizie sociali. [4] [5]

Nel 1915, la guerra causò un aumento dell’inflazione sui generi alimentari e sul carbone. Il primo provvedimento preso dal governo fu quello di obbligare i rivenditori ad esporre, nelle proprie vetrine, il prezzo medio degli alimenti accanto al proprio. Malgrado ciò, i prezzi continuarono a salire e le tensioni crebbero in seno alla popolazione. In risposta, nel 1916 il governo decise di definire un tetto massimo dei prezzi, prima sullo zucchero e sul carbone, poi gradualmente su altri beni di consumo. Anche questa misura, però, non riuscì a frenare la crescita delle disuguaglianze.

La “sobrietà energetica” rappresenta una visione politica a lungo termine volta a creare una società che sia in grado di sfuggire al ciclo di crisi consecutive

Nel 1917, i parigini chiesero al governo di spingersi più in là razionando il carbone. Nonostante l’iniziale resistenza della maggioranza parlamentare, il governo prese la decisione di limitare l’acquisto di carbone da parte delle classi privilegiate, assicurandone così l’accesso a tutta la popolazione. Questa decisione fu accolta positivamente dai cittadini, che erano al punto di non poter più permettersi una risorsa divenuta rara e troppo costosa. È interessante notare il fatto che la regolazione di prezzi e quantità da parte del governo fu attuata solo come ultima risorsa.

Il razionamento del carbone richiese una riorganizzazione amministrativa considerevole: il Ministro degli armamenti ordinò la distribuzione sul territorio della risorsa attraverso l’ente nazionale del carbone, che organizzò successivamente la distribuzione a livello provinciale. Il principio chiave di questa politica fu “un focolare per ogni famiglia”, che mise i più ricchi in posizione di svantaggio. La razione diaria di carbone poteva essere leggermente accresciuta per le famiglie numerose, il che andava a vantaggio delle classi popolari.

La discussione politica che ebbe luogo in Parlamento e al Senato riguardo l’introduzione del razionamento del carbone mise in evidenza la differenza di interessi tra i produttori (in maggioranza rurali) e i lavoratori e consumatori di carbone (prevalentemente urbani). In fin dei conti, l’intervento pubblico sul mercato e sulla sfera privata riuscì ad appianare le tensioni e a salvaguardare la coesione sociale fino alla fine della guerra.

Anche durante le crisi del petrolio degli anni Settanta si è assistito a fenomeni di razionamento: per esempio, allo scoppio della guerra del Kippur nel 1973, l’OPEC impose un embargo sul petrolio per i Paesi che supportavano Israele, tra cui l’Olanda. Di conseguenza, i prezzi del carburante furono quadruplicati e le autorità olandesi si videro costrette ad agire, e in fretta. A partire da novembre 1973, fu vietato di circolare su automobili private la domenica; nel gennaio 1974, questo divieto fu sostituito dal razionamento del carburante attraverso un sistema di voucher. L’obiettivo di questa misura, sostenuta dalle compagnie petrolifere e dal governo di den Uyl, era di ridurre la domanda in linea con la diminuzione delle importazioni, ossia del 30 per cento. Un mese dopo, tuttavia, le importazioni ripresero e il razionamento fu revocato. Il governo olandese ha in seguito continuato a portare avanti il suo programma di riduzione energetica abbassando i limiti di velocità sulle strade.

Nel contesto attuale, è ragionevole pensare che il razionamento dell’energia potrebbe anticipare positivamente l’esaurimento del carburante, ridurre le emissioni di gas a effetto serra e limitare le attività umane che nuocciono alla biodiversità; ma quanto sarebbe possibile attuare un razionamento dell’energia al di fuori di situazioni di guerra o di crisi severa? Gli esempi storici esposti in precedenza si differenziano dalla realtà in cui viviamo sotto almeno due aspetti. In primo luogo, la crisi ecologica non è temporanea; lo scopo primario delle politiche di autosufficienza dovrebbe quindi essere di instaurare una “nuova normalità”. In secondo luogo, la nostra dipendenza energetica è oggi più forte che mai. Il petrolio, in particolare, appare impossibile da sostituire nel settore dei trasporti senza innescare profondi cambiamenti nelle infrastrutture e nella mobilità.

Dalla crisi energetica alla “nuova normalità”

Tornando al presente, le interruzioni della fornitura russa di gas all’Europa hanno causato un drastico aumento dei prezzi, che ha colpito in particolar modo gli strati più vulnerabili della società e ha obbligato i governi dell’Ue ad attuare una serie di discusse misure di emergenza: calmieri sui prezzi dell’energia, tassi d’imposta ridotti, tasse sui profitti più alti e sui guadagni per le grandi aziende energetiche, estensione delle tariffe sociali sovvenzionate alle famiglie a reddito medio e basso, agevolazioni per aziende e famiglie.

Il comune denominatore di queste misure è che tutte si concentrano unicamente sui prezzi; la quantità e l’uso non entrano mai nell’equazione. Non viene fatta alcuna distinzione tra lo scaldare l’acqua per una doccia e per una piscina privata, o tra i chilometri percorsi per andare a lavorare o per andare in vacanza. Questi fattori sono tuttavia alla base del problema: come possiamo giustificare le sovvenzioni per dei kilowattora utilizzati in modo inutile o frivolo? Come possiamo accettare di finanziare collettivamente pratiche incompatibili con gli impegni presi in termini di ecologia?

Proprio come l’abuso di alcol, l’abuso di energia può diventare deleterio, sia da un punto di vista sia fisico che sociale.

Una soluzione al problema potrebbe essere una tariffazione progressiva dell’energia, che può aiutare a distinguere tra i diversi utilizzi. Secondo questo sistema, i primi kilowattora consumati sarebbero gratuiti, per poi salire di prezzo gradualmente. La tariffazione progressiva garantisce di soddisfare i bisogni primari e di far pagare cifre più elevate a chi consuma di più. Un approccio riassunto in maniera efficace dalla ben nota formula dello scienziato politico e giornalista Paul Ariès: “uso gratuito, abuso costoso”.

Non è un mistero che il consumo di energia (insieme alle relative emissioni di Co2 e altre conseguenze sull’ambiente) cresca di pari passo con il reddito; una tariffazione progressiva è quindi anche una tariffazione sociale. Il medesimo principio può essere applicato anche alle aziende e alle industrie sulla base del loro impatto ecologico, sociale ed economico, per mantenere ed aumentare la facoltà collettiva di vivere con dignità.

Dialogando con le persone che praticano l’autosufficienza forzata nella loro vita di tutti i giorni, Luc Semal ha rilevato che la spiegazione del concetto porta talvolta queste persone a riconsiderare lo stigma sociale ad esso legato: “Se il consumo eccessivo è appannaggio dei ricchi, l’autosufficienza può essere la virtù dei più poveri. Ne emerge una concezione più politica delle disuguaglianze ecologiche, che va di pari passo con la critica delle disuguaglianze economiche”.

Un modo più radicale di distribuire l’energia in maniera equa sarebbe attraverso l’introduzione di quote personali. Un sistema di quote nazionali trattabili fu proposto per la prima volta dall’analista politico David Fleming nel 1996. Secondo la sua proposta, andrebbe definito a livello nazionale un budget per il carbone, da dividersi in seguito in diritti alle emissioni individuali. Ogni membro della società avrebbe diritto, tramite pagamento, all’acquisto di carburante o elettricità. La compravendita dei diritti alle emissioni sarebbe autorizzata, ma ci sarebbe un limite alla creazione di nuove quote, il che avrebbe l’effetto di distribuirle in maniera più equa.

Negli anni, diverse varianti di questo concetto sono state sviluppate, incluso il commercio e le quote individuali di carbone e il commercio delle quote per le emissioni. Proposte come questa sono state accolte con un certo interesse dal governo britannico nei primi anni Duemila, ma durante i tumulti della crisi economica del 2008 lo stesso governo ha abbandonato il progetto definendolo “un’idea in anticipo sul tempo”.

Energia in caduta libera

Paradossalmente, sembra che più una società consumi energia, meno i suoi membri sono coscienti della natura materiale di quest’ultima. Se è vero che l’abbondanza di energia relega la gestione di quest’ultima alla sfera privata e a quella filosofico-morale, dove la sobrietà è una scelta, la penuria di energia ne ricolloca la gestione nelle mani della politica. In un gioco a somma zero, il consumo degli uni potrebbe avvenire alle spese di altri. Riconoscere questa interdipendenza è il primo passo verso la politicizzazione.

La stipula di un contratto sociale non sarà tuttavia sufficiente: la diminuzione graduale del quantitativo di energia richiede una sorta di “contratto naturale”. Dato che, purtroppo, la natura non è in grado di parlare per sé stessa, i limiti dovranno essere definiti piuttosto che imposti dall’esterno. Il vero scopo delle istituzioni politiche è in effetti quello di organizzare e amministrare la distribuzione, gestire i bisogni e assegnare le priorità sull’uso.

Le drastiche limitazioni agli spostamenti presenti durante la pandemia di Covid-19 hanno dimostrato che è possibile mettere in atto politiche in maniera rapida, ma anche che questo tipo di misure evidenziano le disuguaglianze e mettono in pericolo l’applicazione delle misure stesse. Una politica di razionamento efficace può essere attuata sul lungo termine solo se tiene in conto le esperienze di quei gruppi per cui la penuria di energia è la realtà di tutti i giorni. La mancata costruzione di meccanismi di organizzazione del razionamento dell’energia equi e universali (come la tariffazione progressiva) potrebbe portare a conflitti sociali su larga scala nei periodi di scarsità energetica.

Al momento della redazione di questo articolo, la guerra in Ucraina sta causando una grave crisi energetica. Mentre gli Stati adottano misure per sostenere le persone a basso reddito, appare chiaro che non è solo una questione legata ai prezzi, ma anche di uso e di distribuzione, portando gli attori politici a considerare il razionamento come potenziale soluzione. In Francia, il termine “sobrietà” non è più una parolaccia. Lo stesso presidente Emmanuel Macron ha annunciato nel luglio 2022 un “piano di sobrietà energetica” per poter fare a meno del gas russo.

In risposta alla crisi, sono implementate, ancora una volta, politiche di autosufficienza. Gli autori di “Sobriété energétique” si domandano se le nostre democrazie siano capaci di scegliere in maniera proattiva l’autosufficienza energetica come modo per costruire una società davvero ecologica. Non si può negare, però, che il tema dell’energia sia parte integrante del dibattito democratico. Le preoccupazioni odierne per il prezzo dell’energia non dovrebbero mettere in ombra la doppia crisi in arrivo verso di noi: da una parte, la fragilità del nostro sistema di approvvigionamento, e dall’altra la necessità di organizzare una rivoluzione energetica su larga scala, che potrà compiersi solo tramite l’autosufficienza. Essendo l’energia una risorsa limitata, il suo uso dovrebbe contribuire al benessere comune. Costruire un sistema di distribuzione energetica che distingua i diversi utilizzi è il modo migliore per affrontare sia il problema dell’aumento dei prezzi, sia il consumo eccessivo. Come scrisse la sociologa Mathilde Szuba, “Impensabile? Irrealizzabile? Non proprio. Del resto, l’abbiamo già fatto”.

Si ringraziano Peter Sims, Sien Hasker, Jonathan Essex, Luc Semal, Mathilde Szuba per i loro utili commenti e le preziose revisioni.

[1] Il termine “schiavi energetici” si riferisce alla quantità di energia necessaria a sostituire il lavoro umano. Ivan Illich, La convivialità (1974). Milano: Mondadori.

[2] Maria Edvardsson (2012). La Sobriété énergétique dans la politique de l’énergie de l’Union européenne. L’inexistence au niveau européen d’un concept important dans l’atteinte des objectifs énergétiques et climatiques, Science Po Lille.

[3] Mathilde Szuba, in Bruno Villalba and Luc Semal (eds) (2018). Sobriété énergétique: contraintes matérielles, équité sociale et perspectives institutionnelles. Versailles: Editions Quae.

[4] Thierry Bonzon (1996), « La société, l’État et le pouvoir local : l’approvisionnement à Paris, 1914-1918 », Guerres mondiales et conflits contemporains, 183 : 11-28.

[5] Thierry Bonzon (2006), « Consumption and total warfare in Paris (1914-1918) », in Frank Trentmann and Flemming Just (eds), Food and Conflict in Europe in the Age of the Two World Wars. London: Palgrave Macmillan

Traduzione Elena Pioli – Voxeurop

Tradotto in collaborazione con la Heinrich Böll Stiftung Parigi, Francia