La pandemia di Covid-19 ha messo sotto i riflettori gli operatori sanitari e i lavorati dell’assistenza alla persona. Gli applausi e le lodi verso questi “eroi” sono svaniti con l’affievolirsi della crisi, sostituiti dal brusio del ritorno alla normalità. Dove lasciamo coloro che hanno permesso alle nostre società di attraversare la crisi, spesso a enormi costi personali? La sociologa Sara Farris spiega che la “riproduzione sociale” offre un buon punto di osservazione per comprendere la sottovalutazione strutturale del lavoro che mantiene in piedi la società. È necessario uno spostamento delle priorità — passare dal profitto alla vita — per garantire un sistema che metta la qualità delle cure — per le persone, ma anche per il pianeta — al primo posto. 

Green European Journal: Cos’è la teoria della riproduzione sociale e come può aiutarci a capire quello a cui abbiamo assistito durante la pandemia? 

Sara Farris: La teoria della riproduzione sociale è un insieme di idee che cercano di capire il ruolo di quelle che alcuni studiosi e attivisti chiamano “le attività che riproducono la vita” all’interno del nostro sistema economico e sociale: attività come la cura dei bambini, l’assistenza agli anziani, la pulizia, la fornitura di cibo e alloggio, l’istruzione e la sanità. Chiamiamo queste attività “creatrici di vita” proprio perché si occupano di  vita e permettono la riproduzione dell’esistenza umana. Molte di queste attività sono state al centro dell’attenzione durante la pandemia. Lavori come l’assistenza agli anziani, la cura dei bambini e l’assistenza sanitaria sono stati considerati essenziali proprio perché si tratta di mestieri che mantengono le persone in vita, promuovono il benessere e permettono alle persone di riprodurre la loro esistenza. 

Le teorie della riproduzione sociale possono essere molto utili per comprendere la pandemia. Da molto tempo queste teorie evidenziano l’importanza sociale delle attività di creazione della vita in un contesto in cui sono solitamente stigmatizzate o sottovalutate. Viviamo in un sistema capitalista che tende ad enfatizzare l’importanza di altri tipi di lavoro, generalmente quelli associati al profitto. In un certo senso, la pandemia ha completamente ribaltato questa gerarchia del lavoro, mostrando che molti lavori ben pagati non erano realmente necessari durante una crisi sanitaria ed economica globale. Al contrario, i lavori mal pagati, socialmente stigmatizzati e considerati non qualificati sono emersi proprio come quelli di cui abbiamo bisogno per sopravvivere. 

I lavoratori migranti, le minoranze etniche e/o le donne sono sovrarappresentati in questi tipi di lavoro, quelli di “riproduzione sociale”. Come operano le dinamiche di razza, genere e classe nel sistema di assistenza così come è strutturato oggi? 

In Europa, come in altre parti del mondo, gran parte di questo “lavoro di riproduzione sociale” è svolto da migranti o da minoranze razzializate, e questo proprio perché storicamente c’è stata una forte tendenza ad assegnare i lavori poco qualificati e poco pagati a persone che fanno parte di minoranze etniche. Le attività di riproduzione sociale forniscono un’opportunità unica per capire le intersezioni tra genere, razza e classe, perché si tratta di un settore economico in cui c’è una sovrarappresentazione di donne razzializate e della classe operaia. 

Tradizionalmente le donne sono state relegate alla sfera domestica, dove lavoravano perlopiù gratis; negli ultimi trent’anni un numero crescente di donne è entrato nel mercato del lavoro retribuito al di fuori della casa, pur continuando a farsi carico della maggior parte dei lavori domestici. Allo stesso tempo si è creato un vuoto dovuto dalla partecipazione di molte donne alla cosiddetta sfera produttiva, che è stato riempito da donne migranti e appartenenti a minoranze etniche che hanno assunto quelle attività che prima venivano svolte in gran parte gratuitamente. Naturalmente, le donne che fanno parte delle minoranze etniche e le donne di colore sono sempre state attive nel mercato del lavoro, molte di loro lavoravano nella “riproduzione sociale”. La novità del neoliberalismo (inteso qui come il sistema economico e sociale in cui abbiamo vissuto negli ultimi trenta o quarant’anni) è la portata del fenomeno: i migranti internazionali, in particolare le donne, si sono spostati per occupare queste posizioni nelle parti più ricche del mondo. 

La riduzione della mobilità transfrontaliera durante la pandemia ha anche evidenziato la dipendenza dei sistemi di assistenza occidentali dai lavoratori migranti. 

Assolutamente, ed è stato davvero interessante vedere come in tutta Europa la retorica anti-immigrazione abbia dovuto essere messa in pausa, proprio perché tutti quei lavoratori che venivano applauditi e descritti come “eroi”, “essenziali”, “lavoratori chiave”, erano anche — in molti casi — proprio quei lavoratori migranti che alcune forze politiche vogliono espellere. Quegli stessi lavoratori si sono dimostrati essenziali per le nostre società e per la nostra sopravvivenza. 

Alcuni sondaggi realizzati durante la pandemia hanno dimostrato che la percezione pubblica del fenomeno migratorio è cambiata rispetto ai tempi del referendum sulla Brexit nel 2016. Molte persone che hanno votato per la Brexit sono diventate più aperte ai migranti, a quelli che lavorano nel settore sanitario in particolare, perché riconoscono il lavoro essenziale che esercitano questi lavoratori. 

Non sappiamo quanto durerà questo atteggiamento: l’immigrazione è sempre un tema molto sensibile che cambia e viene strumentalizzato a seconda della congiuntura politica. Ma allo stesso tempo è interessante vedere come un periodo di crisi come quello del Covid abbia anche significato lo spostamento, almeno temporaneo, di posizioni xenofobe piuttosto forti nei confronti di alcune popolazioni migranti (lo stesso non si può dire nel caso dei migranti cinesi, o dei cittadini che hanno visto aumentare gli atteggiamenti razzisti nei loro confronti dall’inizio della pandemia). 

Oggi il settore dell’assistenza è sempre più mercificato e commercializzato. Cosa guida questi processi e quali sono le implicazioni, sia per i lavoratori del settore che per le persone che vengono assistite? 

Dall’inizio degli anni Novanta (anche se dipende dal paese), le attività di cura che una volta erano per lo più svolte in casa gratuitamente, vengono trasferite verso persone che lo fanno in cambio di un salario, o sotto forma di assunzione di un lavoratore a domicilio, o attraverso la creazione di un asili privati a scopo di lucro per i bambini o case di cura per gli anziani. Questa spinta alla mercificazione è concepita secondo una logica neoliberale, ed è stata sostenuta da due processi in particolare.  

Il primo, come ho detto prima, è la crescente partecipazione delle donne al mercato del lavoro, il che significa che non sono più così disponibili a svolgere il lavoro che prima facevano gratuitamente a casa. Il secondo processo è l’invecchiamento demografico. Poiché le persone vivono più a lungo, il bisogno di sistemi di assistenza per prendersene cura aumenta. 

Ci sono diversi modi per rispondere a questi fenomeni. Uno di questi è che lo Stato fornisca servizi pubblici di assistenza come asili pubblici o case di cura. Questa è stata la strada intrapresa nei paesi nordici, in particolare in Finlandia, Danimarca e, in una certa misura, in Svezia (va detto che le cose stanno cambiando anche in questi paesi). In altri paesi c’è stata una tendenza a mantenere l’assistenza all’infanzia, almeno a partire dai tre anni, pubblica, gratuita e accessibile. 

Tuttavia, dagli anni Novanta queste soluzioni pubbliche sono diventate rare, e le grandi aziende stanno investendo sempre più nella cura dei bambini e degli anziani. Oggi nel Regno Unito, più dell’80% degli asili sono privati, e molti di questi sono a scopo di lucro. Ugualmente, la maggior parte delle case di cura per anziani sono a scopo di lucro, e molte sono gestite da multinazionali (e la tendenza va aumentando). Il Regno Unito è l’esempio più avanzato di come l’assistenza si stia trasformando in un’industria, ma anche in altri Paesi oggi (come la Francia o la Germania) osserviamo una tendenza ad andare verso la commercializzazione e il “for-profit”. Molte delle forze politiche che sono state al governo in diversi paesi europei dagli anni Novanta hanno applicato un dogma neoliberale di libera scelta e privatizzazione. 

Questi processi sono stati sostenuti da due idee principali. Il primo, che dice che i servizi privatizzati sono più efficienti, più convenienti e meglio organizzati. Secondo: che le persone dovrebbero essere in grado di scegliere tra una gamma di opzioni quando si tratta di assistenza, e che l’assistenza pubblica non offriva questa scelta. Oggi sappiamo che questi due assunti non sono veritieri. Il “for-profit” non significa migliore organizzazione dell’assistenza, al contrario. 

In che modo? Ci può fare qualche esempio? 

Nel Regno Unito alcune delle grandi società che si occupavano di assistenza agli anziani hanno fallito negli anni passati (Southern Cross e Four Seasons sono i due maggiori esempi), lasciando centinaia di lavoratori disoccupati e centinaia di assistiti senza assistenza. Queste case di cura hanno dovuto chiudere o andare in amministrazione controllata proprio perché erano state gestite male dal punto di vista finanziario.  

Durante la pandemia nel Regno Unito, gli studi hanno dimostrato che le maggiori case di cura, quelle parte di catene, sono quelle che hanno avuto i più alti tassi di contagio e di mortalità. Perché? A causa della pressione costante a risparmiare sui costi, in particolare quando si tratta di salari per gli operatori sanitari, ma anche di salute e sicurezza generali. Soprattutto all’inizio della pandemia molti operatori sanitari non avevano i dispositivi di protezione individuale (DPI). A questo si aggiunge il fatto che un operatore veniva spesso mandato a lavorare in più di una struttura, aumentando così il rischio di diffusione del virus. La pandemia ha mostrato molto chiaramente che le case di cura private e a scopo di lucro non sono ben gestite, la qualità delle cure non è alta e non offrono buone condizioni di lavoro. 

Un altro mito che la pandemia ha sfatato è l’idea che sia importante per gli individui essere in grado di scegliere tra una gamma di opzioni. In realtà questo principio ha portato a una “corsa al ribasso” e a una moltiplicazione delle disuguaglianze. Se c’è un mercato della cura e dell’assistenza nel quale diversi fornitori sono in competizione, i prezzi sono tendono a salire. Sembra controintuitivo, ma in linea generale le tariffe sono diventate molto più alte e le migliori strutture tendono ad essere così costose da essere assolutamente inaccessibili per la maggior parte delle persone. 

Dato l’invecchiamento della popolazione, come possiamo ripensare l’assistenza agli anziani in un mondo post-pandemico? 

Il paradosso della mercificazione dell’assistenza è che lo Stato non è realmente esente dal fornire assistenza, ma ridistribuisce le sue risorse ai fornitori privati. Invece di gestire le proprie strutture di assistenza, lo Stato ora sovvenziona fornitori privati per farlo. La prima cosa da fare sarebbe organizzare delle vere e proprie strutture di assistenza per gli anziani, che siano statali e finanziate dallo Stato. L’argomento dei costi non sta in piedi, perché ora lo stato continua a pagare per l’assistenza, ma con i fornitori privati, che presentano tutti i problemi che ho menzionato prima. Non esistono argomenti realmente forti per confutare l’idea che lo stato possa organizzare la propria assistenza in modo che sia pubblica, di alta qualità e gratuita per tutti. 

Nell’ultimo anno, il Governo britannico ha dato miliardi di sterline a compagnie private per organizzare alcuni dei servizi sanitari che erano necessari per affrontare la pandemia. I due principali servizi che sono stati esternalizzati a società private sono stati la fornitura di DPI e il cosiddetto “test and tracing” (test e tracciamento). Spesso le aziende private che hanno ricevuto i fondi erano gestite da persone vicine ai conservatori — a volte veramente “vicine” — per darvi un’idea del capitalismo clientelare all’opera. Risultato? È stato un disastro: il sistema di test e tracciamento è considerato un fallimento e ci sono indagini in corso su come sono stati spesi i soldi. 

Il programma di vaccinazione gestito dal Servizio Sanitario nazionale è, invece, in mano pubblica. Questo è l’unico servizio [nella gestione della pandemia di Covid-19] che allo stato attuale da’ risultati: funziona abbastanza bene e secondo il programma. Questo è un argomento molto forte contro il mito che la privatizzazione funziona meglio del pubblico. 

Ai discorsi di sui lavoratori chiave ed essenziali durante la pandemia non sono seguite misure per migliorarne sostanzialmente i salari e le condizioni di lavoro. Questo linguaggio è stato strumentalizzato: quali sono le prospettive per tradurre la retorica in cambiamento? 

L’uso di questo linguaggio era quasi inevitabile; era chiaro che tutto questo lavoro essenziale avrebbe dovuto essere riconosciuto per quello che è. I commentatori politici — a sinistra e a destra, anche se in modi diversi — hanno sottolineato la necessità di riconoscere pienamente questo tipo di lavoro e la sua importanza per la società, anche attraverso una retribuzione più alta. Ma alle parole non sono seguiti i fatti e, anzi, per molti versi le condizioni di lavoro in questi settori sono addirittura peggiorate. Nel Regno Unito, i lavoratori dell’assistenza sono stati uno dei gruppi più colpiti dal virus. Molti sono deceduti, proprio perché sono stati mandati al lavoro in condizioni non sicure. Il riconoscimento di questi lavoratori attraverso applausi, oppure chiamandoli “eroi” è una retorica di cui non hanno bisogno. Ciò di cui hanno bisogno è un adeguato riconoscimento del loro valore, che passa attraverso salari più alti e migliori condizioni di lavoro. 

È probabile che vedremo richieste comuni e organizzazione da parte dei lavoratori di questi settori, visto il deterioramento delle condizioni e l’enorme tensione a cui sono stati sottoposti? 

È difficile prevedere il futuro. Nei momenti di crisi può essere più difficile per alcuni lavoratori fare richieste proprio perché  sentono un’enorme pressione per fornire alcuni servizi. Inoltre, tanti si considerano fortunati ad avere un lavoro nella situazione attuale: c’è un alto tasso di disoccupazione, anche se non così tanto nei servizi essenziali. Ciononostante io resto abbastanza ottimista sul fatto che in futuro questi lavoratori si ricorderanno di questa situazione, e di come la pandemia ha dimostrato così chiaramente l’importanza del loro lavoro: penso che questo li incoraggerà a lottare per i loro diritti. 

Ci sono già alcuni segni di questo processo: i tassi di sindacalizzazione tra i lavoratori dell’assistenza sono aumentati, per esempio. Durante la pandemia, gli infermieri britannici che non accettavano le loro condizioni di lavoro hanno tentato di scioperare. Sono cautamente ottimista. Una cosa è certa, però: i lavoratori dell’assistenza nel Regno Unito non possono aspettarsi alcun riconoscimento dal Governo conservatore in carica. Qualsiasi cosa otterranno sarà attraverso la loro lotta. 

La pensatrice femminista Nancy Fraser ha descritto il capitalismo come un serpente che si mangia la coda, perché sta svalutando proprio il lavoro che è essenziale per la sua stessa sopravvivenza. Un tale sistema è chiaramente insostenibile. La teoria della riproduzione sociale è utile per pensare alla crisi climatica? 

È un sistema assurdo in cui le attività veramente necessarie per sopravvivere sono quelle che il capitalismo solitamente sottovaluta e stigmatizza. È un sistema in cui i profitti sono messi prima delle vite, con pochissime persone in grado di prosperare mentre la grande maggioranza è lasciata nella povertà e in cattiva salute. 

Il concetto di riproduzione sociale sottolinea la connessione tra riproduzione e produzione. Sottolinea che c’è un chiaro legame, un’interdipendenza, tra le attività produttive che forniscono beni e profitti, e le attività riproduttive che producono tutto ciò che è essenziale per la vita quotidiana. La riproduzione sociale ha molto da dire sull’ambiente e sulla catastrofe climatica, perché mostra come tutte quelle attività che vengono svalutate – o completamente non valorizzate – sono proprio quelle necessarie alla sopravvivenza del pianeta. 

Una società che dà la priorità alla riproduzione della vita piuttosto che al profitto è una società più sostenibile in cui la priorità assoluta è la qualità delle cure: si tratta di una società in cui alcune forme di distruzione ambientale non sono ammissibili. Enfatizzare la riproduzione sociale significa sottolineare la nostra interdipendenza non solo come persone – quando ci prendiamo cura gli uni degli altri, accettiamo la nostra interdipendenza come esseri umani – ma anche con la natura. Se capissimo appieno la nostra dipendenza dalla natura daremmo priorità a un modo diverso di vivere su questo pianeta. 

Tradotto in collaborazione con la Heinrich Böll Stiftung Parigi, Francia.