Mettere gli ambientalisti contro i rappresentanti dei lavoratori è una vecchia tattica che serve mantenere gli interessi di chi non vorrebbe intralci da nessuno dei due. Si trascura il fatto che le vittime dei pericoli ambientali provengono molto spesso dalle stesse comunità della classe operaia che i sindacati rappresentano. E si oscura la lunga storia comune delle lotte ambientali e del lavoro, una storia fatta di battaglie e vittorie comuni. Nella seconda di una serie di due interviste sul tema, Lorenzo Marsili dialoga con la ricercatrice Stefania Barca su come il movimento per il clima e le forze sindacali possano agire al meglio come alleati.

Lorenzo Marsili: Dovrebbe apparire ovvio che le disuguaglianze sociali ed ambientale dovrebbero essere trattate come un unico problema. Perché spesso non avviene?

Stefania Barca: È così da molto tempo, ma non sempre e non completamente. Il movimento mondiale per il clima sta rendendo sempre più chiaro che questa lotta è una lotta per la giustizia globale. In un mondo in cui le persone e i territori sono entrambi difesi, i rischi industriali non possono essere scaricati sui lavoratori e sulle comunità operaie, sulle persone appartenenti a minoranze o indigene, o sugli ecosistemi.

La questione del lavoro è al centro della contraddizione ecologica ed evitare di affrontarla può solo ostacolare i migliori sforzi dei movimenti ambientalisti. Questo fatto è sempre più riconosciuto da entrambe le parti. Assistiamo a un cambiamento epocale in termini di consapevolezza ecologica. Fino a qualche anno fa, la risposta principale era quella di rendere l’economia più verde attraverso soluzioni tecnologiche e di mercato. Venticinque anni di inconcludenti riunioni COP e rapporti scientifici allarmanti hanno messo in chiaro che questo modello è fallito, e lo stesso vale per il dilemma tra posti di lavoro e ambiente. I mercati e le tecnologie non stanno risolvendo la crisi ecologica, ma stanno fallendo sia i lavoratori che l’ambiente. Dopo decenni di propaganda neoliberale che ha convinto tutti – destra e sinistra – che “non c’è alternativa”, la gente sta finalmente riconoscendo che le alternative sono proprio ciò di cui abbiamo bisogno.

Cosa possiamo imparare dalle lotte del passato che hanno visto uniti il mondo del lavoro e dell’ambientalismo?

A livello globale, la regolamentazione più severa dei rischi industriali che il movimento sindacale internazionale è riuscito a imporre nel corso dell’ultimo secolo rappresenta un importante risultato. L’epoca d’oro dell’ambientalismo del lavoro è stata quella degli anni ’60 e ’70. Nello Statuto dei lavoratori del 1970, i sindacati italiani hanno imposto il controllo diretto dei lavoratori su vari fattori di rischio in officina, tra cui i rischi fisici, chimici e radioattivi. I sindacati hanno poi lottato per estendere il diritto alla salute alla popolazione italiana in generale. Il Servizio Sanitario Nazionale è stato istituito nel 1978 ed è stato anche responsabile del monitoraggio dei rischi industriali. Nello stesso periodo, il più potente sindacato degli Stati Uniti, lo Oil, Chemical and Atomic Workers International Union, ha fatto pressione sul Congresso per far approvare alcuni dei primi e più importanti provvedimenti legislativi statunitensi contro l’inquinamento: il Clean Air Act del 1963, il Clean Water Act del 1972 e l’istituzione dell’Environmental Protection Agency nel 1970. La nuova agenzia pubblica aveva il compito di far rispettare il diritto a un ambiente sicuro e sano per tutti i cittadini americani. Tuttavia, i diritti occupazionali e ambientali sono spesso rimasti astratti. A causa delle resistenze sia dei governi che delle imprese, l’attuazione è stata debole e richiede una costante mobilitazione da parte dei sindacati. Ma purtroppo, i sindacati non hanno mantenuto la loro promessa ambientalista e tale mobilitazione è diminuita negli ultimi due o tre decenni. È giunto il momento di una riflessione critica e di una profonda riconsiderazione delle loro priorità.

Guardare alla crisi climatica in termini di classe significa ridisegnare il conflitto in termini di capitale contro vita.

E quindi quali sono i meccanismi per garantire un maggiore coinvolgimento dei lavoratori e dei loro rappresentanti nella trasformazione ecologica?

Molti sindacati e confederazioni internazionali stanno discutendo la questione. La “giusta transizione”, la strategia del movimento sindacale per la crisi climatica, è stata proposta all’inizio degli anni 2000. L’idea è bella nella sua semplicità: il costo di una transizione oltre i combustibili fossili non deve essere pagato dai lavoratori. Questo è anche in linea con i principi di giustizia ambientale che il movimento per il clima segue, quindi la convergenza sta già avvenendo sul terreno in molti luoghi. Non dappertutto, però. Basta pensare a Taranto o tanti altri posti in Italia. Per quanto riguarda lo stabilimento ILVA, i sindacati a livello locale e nazionale hanno ampiamente accettato il compromesso tra lavoro e ambiente. I risultati sono un numero impressionante di infortuni, malattie sul lavoro e un disastro sanitario nella comunità. Ed è tutto documentato dalle più alte autorità scientifiche. Purtroppo, l’ambientalismo sindacale ha fallito a Taranto e molte altre comunità. E in più ha anche sacrificato l’interesse generale attraverso il perseguimento di un modello di sviluppo che sacrifica l’ambiente e la salute pubblica per la produzione industriale e la crescita del PIL.

L’economia politica in senso lato è ovviamente importante. Le élite governative italiane sono state molto riluttanti a regolamentare l’industria e persino ad avere un piano industriale. Ma non riusciremo mai a progredire se i sindacati non riconoscono la loro complicità culturale. Hanno accettato il racconto tossico che vede la produzione industriale come il più importante motore del benessere sociale. Solo se una nuova generazione di rappresentanti sindacali si sentirà incoraggiata e spinta a raccogliere questa sfida epocale – la giustizia ambientale – e a farne la propria lotta, una lotta che ha tutto a che fare con il benessere dei lavoratori e della classe operaia, potremo vedere la possibilità di un vero cambiamento.

Subiamo anche gli effetti di una biopolitica che ha prodotto l’idea di homo economicus e sviluppato una complicità collettiva in un modello di crescita attraverso l’iperconsumo. Come possiamo rompere questo meccanismo?

Mettere i diritti dei lavoratori al centro delle campagne ambientali è fondamentale. Se i diritti dei lavoratori – dalla sicurezza al diritto a un salario degno – non potessero essere sistematicamente violati, i prodotti a basso costo non esisterebbero. In un’economia globalizzata, questo potrebbe essere efficace solo se applicato su scala globale. Tuttavia, le imprese transnazionali e l’Organizzazione Mondiale del Commercio non sono onnipotenti e il vero internazionalismo e la solidarietà del lavoro potrebbero ottenere molto, come ci dimostra la storia. Prima del contraccolpo neoliberale il lavoro è stato un potente attore economico globale, e questo è il momento storico per riconquistare quel ruolo. Il mondo non è diviso tra lavoratori e ambientalisti, come ci volevano far credere. Ma quello che ci dice il movimento climatico globale di oggi è che il mondo non è nemmeno semplicemente diviso tra capitale e lavoro. Il lavoro salariato è solo una frazione del proletariato mondiale e il lavoro industriale è solo una piccola frazione al suo interno. Guardare alla crisi climatica in termini di classe significa ridisegnare il conflitto in termini di capitale contro vita. I movimenti sindacali potrebbero essere dalla parte giusta della storia, come ha affermato il funzionario della Confederazione Internazionale dei Sindacati Anabella Rosenberg, ma solo se si liberano dal realismo capitalista – l’idea che non ci sono alternative – e cominciano ad agire secondo una coscienza di classe ecologica globale.

Leggi la prima intervista in questa serie in due parti, “Marciare uniti: La rivoluzione industriale e verde in italia“. Questa intervista fa parte della nostra ultima edizione, “A World Alive: Green Politics in Europe and Beyond”.