Mettere gli ambientalisti contro i rappresentanti dei lavoratori è una vecchia tattica che serve mantenere gli interessi di chi non vorrebbe intralci da nessuno dei due. Si trascura il fatto che le vittime dei pericoli ambientali provengono molto spesso dalle stesse comunità della classe operaia che i sindacati rappresentano. E si oscura la lunga storia comune delle lotte ambientali e del lavoro, una storia fatta di battaglie e vittorie comuni. Nella prima di una serie di due interviste, Lorenzo Marsili dialoga con il segretario generale della FIOM per chiedere cosa rappresenti la crisi climatica per i sindacati e l’industria nel XXI secolo.

Lorenzo Marsili: Lei rappresenta i lavoratori di alcune delle industrie più inquinanti, dall’industria automobilistica a quella siderurgica. Considera la necessità di una trasformazione ecologica e industriale una minaccia o un’opportunità?

Francesca Re David: Il rapporto tra industria e ambiente è stato a lungo ignorato. Durante il boom economico degli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, era completamente assente. Le partecipazioni statali erano fondamentali per l’industria pesante italiana, quindi, in teoria, le aziende non avrebbero dovuto guardare solo ai loro margini di profitto, ma non è stata prestata alcuna attenzione all’impatto della produzione sull’ambiente.

Il tema della trasformazione ecologica e sociale è la chiave del lavoro dei sindacati oggi. Gli aspetti sociali ed ecologici devono essere tenuti insieme. Il fatto che questo legame sia spesso perso ci parla della sconfitta della sinistra negli ultimi decenni. Sono le aziende ad inquinare, non i lavoratori, e ciò che viene prodotto è determinato da chi detiene le leve del potere e controlla la distribuzione della produzione. Una trasformazione ecologica socialmente attenta è una grande opportunità per far avanzare i diritti sul posto di lavoro, iniziando a dare più voce in capitolo ai lavoratori e andando oltre l’aumento del profitto come unico obiettivo.

Mi lasci fare l’avvocato del diavolo: si potrebbe accusare il sindacato di dipendere da consumismo e distruzione del pianeta. Più la gente consuma, più c’è bisogno di produrre, migliore è la posizione negoziale dei lavoratori. Come si rompe questo legame?

I sindacati sono associazioni di persone il cui sostentamento dipende dal lavoro, in contrapposizione alla rendita. I diritti dei lavoratori sono composti dal salario, dalla sicurezza, dalla salute e dalla possibilità di avere voce in capitolo sul posto di lavoro. E avere voce in capitolo significa determinare cosa viene prodotto e come, nonché con quali effetti sulle persone che lavorano o vivono nei pressi del luogo di produzione. È evidente che ogni fase di trasformazione e di sviluppo tecnologico porta con se effetti diversi e trasforma il modo di lavorare e di produrre.

Il mondo non è diviso tra ecologisti e lavoratori che amano inquinare. Il mondo è diviso tra sfruttatori e sfruttati, tra capitale e lavoro.

Ma il tema non è smettere di produrre. Piuttosto, dovremmo produrre beni in un modo diverso, per esempio concentrandoci sul riciclo e sul riutilizzo. La globalizzazione ha ampliato i mercati e le opportunità. È giusto, ad esempio, che tutti posseggano un frigorifero: non possiamo pensare che una parte del mondo abbia diritto agli elettrodomestici e un’altra parte no.

Il compromesso del dopoguerra ha visto un’alleanza tra crescita industriale e protezione sociale. Colto nell’immagine dei lavoratori che si recano in fabbrica con la propria auto. Quel compromesso è imploso dopo anni di capitalismo finanziario. C’è il rischio di cercare di salvare ciò che ne rimane piuttosto che immaginare un nuovo approccio alla produzione di ricchezza e alla politica industriale?

L’Italia non ha avuto una politica industriale da quando è entrata nell’Eurozona. L’Unione Europea, con la sua enfasi sulle privatizzazioni, ha contribuito a cancellare ogni idea di politica industriale. E l’Italia, forse più che altrove, ha subito una totale conversione all’idea che il mercato si dovesse autoregolamentare. Da allora le disuguaglianze sono cresciute e gli asset strategici sono andati persi. L’industria siderurgica, ad esempio, è nata dall’intervento dello stato, ma oggi è controllata da multinazionali che fanno quello che vogliono senza alcun impegno sul territorio, e spesso riescono a pagare le loro tasse altrove. L’altro esempio lampante è quello dell’informatica e delle tecnologie digitali. La Olivetti, un’azienda italiana, ha inventato il personal computer ma ora tutto quel settore non c’è più.

C’è anche l’esempio di Telecom Italia. Negli anni ’90, quando era ancora statale, ha inventato il sistema di SMS e stava per acquistare Vodafone…

Mentre ora l’Italia si limita a trasformare i prodotti degli altri. L’Italia ha ancora il secondo settore manifatturiero in Europa, ma le multinazionali sono imperanti. Decidono dove operare e con quale impatto sulle condizioni sociali e sulle politiche ambientali.

La mobilità del capitale è un’arma potente per sconfiggere le richieste sociali e ambientali e alimenta anche la destra nazionalista. Quale può essere un approccio progressista alla questione della delocalizzazioni e del dumping?

Dobbiamo imparare a lavorare a livello europeo. È paradossale che i fondi dell’UE destinati a sostenere i paesi più poveri spesso producano delocalizzazioni industriali che impoveriscono i lavoratori dei paesi contribuenti. La crisi che viviamo in questi anni non è una vera e propria crisi industriale, perché le aziende crescono spostando la produzione. È una crisi del lavoro e della concorrenza. Il movimento sindacale europeo non è stato all’altezza di questa situazione negli ultimi anni. Dall’inizio del nuovo millennio la FIOM ha tenuto colloqui per incoraggiare i nostri partner a formare un comune sindacato europeo, ma non se ne è ancora fatto nulla. I singoli sindacati nazionali rimangono a capo di tutti i processi.

I sindacati e i nuovi movimenti ecologisti hanno bisogno di uno scambio onesto per trovare elementi di sinergia e di crescita reciproca.

Milioni di persone sono scese in strada chiedendo di affrontare l’emergenza climatica. Ma queste istanze spesso sembrano distaccate dalle tradizionali preoccupazioni del mondo lavoro. Il mondo dei sindacati e i nuovi movimenti ecologisti possono marciare uniti?

Questo movimento è una grande opportunità, qualunque siano le contraddizioni che lo attraversano. Un movimento ecologista indifferente o in opposizione all’industria non riuscirebbe ad arrivare al cuore della questione. Ho incontrato rappresentanti di movimenti ambientalisti che mi hanno chiesto di chiudere gli stabilimenti automobilistici. Ma se io rappresento i lavoratori, la questione non può essere la chiusura, ma la trasformazione delle linee di produzione. I sindacati e i nuovi movimenti ecologisti hanno bisogno di uno scambio onesto per trovare elementi di sinergia e di crescita reciproca. Solo restituendo dignità al lavoro possiamo costruire nuovi rapporti di forza che possano quindi cambiare le condizioni di produzione. Se non ci riusciamo, il capitale continuerà a vincere e a perseguire la massimizzazione del profitto a tutti i costi. Il mondo non è diviso tra ecologisti e lavoratori che amano inquinare. Il mondo è diviso tra sfruttatori e sfruttati, tra capitale e lavoro. Su alcune cose, dobbiamo tornare alle basi.

L’estrema destra sta sorgendo ovunque, mentre i governi appaiono privi di una visione di cambiamento. I sindacati potrebbero contribuire a tale visione? Forse è il momento di riprendere in mano richieste come la piena occupazione e la riduzione dell’orario di lavoro?

La gente si sta rivolgendo a destra perché l’abbandono e la povertà alimentano la rabbia. La priorità è ripristinare il valore e la dignità del lavoro, in qualsiasi settore. L’ultimo film di Ken Loach, Sorry We Missed You, ci dà la misura di quanto possa essere solitario il lavoro nella gig economy. Quindi sì, dobbiamo parlare di piena occupazione e, soprattutto con la tecnologia di oggi, di riduzione dell’orario di lavoro. I benefici dell’innovazione non possono essere tutti lasciati nelle mani di chi controlla il capitale e le macchine. I salari dei metalmeccanici italiani sono rimasti stagnanti dal 2008, mentre i profitti delle aziende sono raddoppiati. Questi profitti non sono andati a contribuire a maggiori investimenti nella trasformazione ambientale, oppure nell’aumento degli stipendi o nella riduzione dell’orario di lavoro. Sono andati ad aumentare rendita e dividendi.

Leggi la prima intervista in questa serie in due parti, “Marciare uniti: L’Ambientalismo del lavoro e il movimento per il clima“. Questa intervista fa parte della nostra ultima edizione, “A World Alive: Green Politics in Europe and Beyond”.

A World Alive: Green Politics in Europe and Beyond
A World Alive: Green Politics in Europe and Beyond

This edition explores the different worlds of green politics today. From concepts such as ecofeminism and the Green New Deal to questions of narrative and institutional change, it maps the forces, strategies, and ideas that will power political ecology, across Europe as around the world.

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