Il femminismo e le questioni di genere vivono una fase di grande fervore, culturale e politico, imponendosi nelle piazze e nelle discussioni. Al punto da venire recuperati e adattati dalla destra neoliberale, oppure radicalmente contestati dall’estrema destra. Intervista alla sociologa polacca Elżbieta Korolczuk, autrice di “Anti-Gender Politics in the Populist Moment” per tracciare la storia di questo dibattito.

Krystyna Boczkowska: Cosa intende quando parla di “genere” e “studi di genere”?

Elżbieta Korolczuk: La categoria “genere” è quella che permette di capire che il nostro corpo e la nostra biologia non definiscono completamente la nostra esistenza. Gli studi di genere mostrano che la mascolinità o la femminilità sono categorie socialmente costruite e negoziate. Una cosa era essere una donna ai tempi di mia nonna, per esempio, e un’altra cosa è essere una donna oggi. Una cosa è essere donna o uomo in Polonia e un’altra in Iran, come stiamo vedendo con le recenti proteste. Detto in un altro modo: le idee su ciò che le donne dovrebbero fare, su come dovrebbero sentirsi e apparire, sono molto diverse e mutevoli nel tempo. Come sostiene la filosofa Judith Butler, l’essere donna o uomo si costruisce ripetendo determinati gesti, comportamenti e reazioni emotive o, come ha detto Simone de Beauvoir, donna si diventa donna, non si nasce. Il genere non è una categoria binaria, ma lineare: ci si può sentire donna, ma si può anche essere una persona non binaria, una persona trans o queer.

A partire dagli anni Novanta, il concetto di genere e l’idea che si tratti di costruzioni sociali, sono stati contestati dal Vaticano e dai movimenti religiosi, ma il concetto in sé non faceva parte della lotta politica. In Polonia, la parola “genere”, come ridefinita dalla destra, è apparsa nel dibattito pubblico intorno al 2012, durante le discussioni sulla ratifica della Convenzione di Istanbul. La destra si è appropriata della parola “genere” e ne ha fatto uno spauracchio.

La destra utilizza il termine “gender” per promuovere principalmente una sorta di panico moralizzante su questioni legate alla sessualità, alla riproduzione e all’identità di genere. La destra definisce il “genderismo” come un’ideologia pericolosa che contribuisce alla sessualizzazione dei bambini, alla disgregazione delle famiglie (eterosessuali, ovviamente), all’introduzione di leggi che privilegiano le donne a scapito degli uomini, ecc.

La parola “gender” è diventata sinonimo di decadenza morale, corruzione e di una certa  “follia di sinistra”. In Polonia, l'”ideologia del gender” è descritta come una perversione che arriva dall’Occidente come domanda di presunte lobby di gruppi femministi e LGBT formati dalle “élite”. Cosi, genere, sessualità e riproduzione sono diventati un campo di battaglia politico.

Perché il femminismo, nonostante decenni di conquiste sui diritti all’aborto, sull’educazione sessuale, sul matrimonio omosessuale e con la firma dei trattati internazionali sulla violenza di genere, è stato brutalmente attaccato dal movimento globale contro il “gender”?

È un processo lungo. La maggior parte di questo tipo di narrativa sul femminismo e sui suoi presunti pericoli arriva dalle guerre culturali americane. Le affermazioni secondo cui il femminismo è un male per le donne perché le priva della gioia della maternità, oppure che visto i gay non hanno figli, allora devono reclutare, cioè sessualizzare i bambini, sono state propagate da attivisti conservatori americani come Phyllis Schlafly e Anita Bryant già negli anni Settanta.

Un secondo momento chiave sono gli anni Novanta, quando le organizzazioni femminili e femministe, e i politici hanno esercitato con successo un’azione di lobbying nella sfera politica, arrivando alle conferenze delle Nazioni Unite in Messico e a Pechino, e rendendo possibile l’esistenza di atti giuridici che riconoscevano la discriminazione contro le donne e le ragazze.

In secondo luogo, le nostre idee su cosa sia il “gender” sono  fonte di discriminazione verso le donne nella vita professionale e privata. In terzo luogo, i diritti delle donne sono diritti umani e, in quanto tali, devono essere protetti dagli Stati e dalle agenzie internazionali.

Ed è stato qui che il Vaticano si è sentito minacciato, non solo come istituzione religiosa, ma politica. Dopo tutto, il Vaticano è un attore politico che ha lo status di osservatore alle Nazioni Unite e blocca attivamente le attività legate alle questioni di parità, specialmente quelle relative ai diritti riproduttivi e delle minoranze. La Chiesa cattolica ha capito che la sua posizione di attore nelle sfere del genere, della sessualità e della riproduzione veniva messa in discussione e ha risposto con la storia del gender (le “teorie del gender”) come minaccia dalla quale bisogna proteggere le donne.

Il fatto che la guerra contro il “gender” sia esplosa definitivamente nel secondo decennio del XXI secolo è dovuto a diversi fattori. Oggi la tendenza alla culturalizzazione della politica, che risale agli anni ’70-’80 negli Stati Uniti, è visibile anche in Europa. Di cosa si tratta? Di una configurazione nella quale le divisioni politiche e il sostegno a determinati partiti si formano soprattutto in realzione alle opinioni delle persone su questioni legate alla famiglia, all’aborto, alla sessualità, ecc.

Negli anni ’70 era ancora possibile essere repubblicani e sostenere il diritto all’aborto. Oggi non succede più, come descritto da Pipa Norris e Ronald Inglehart nel libro Cultural Backlash. L’asse sul quale si strutturano le divisioni politiche sta cambiando; se in passato gli elettori discutevano di questioni economiche o politiche, oggi il principale criterio di divisione è rappresentato dalle opinioni su famiglia, sessualità, globalizzazione, e sul sostegno a valori come l’individualismo rispetto alla comunità.

Lei sostiene che l’attrito intorno al tema del genere non è di secondo piano, ma una lotta per il futuro dell’economia?

A mio avviso, le discussioni su sessualità, famiglia,  definizione di genere e identità si stanno definendo come scoglio principale di divisione politica e come luogo maggiore di negoziazione. La cosa è particolarmente evidente nelle generazioni più giovani: si tratta di persone che costruiscono la propria identificazione politica in base alle opinioni sulla sessualità e sull’identità di genere.

Inoltre, è proprio  in questo campo che si giocano i conflitti relativi alle politiche economiche o sociali. Le questioni legate al genere sono essenziali per negoziare soluzioni per le politiche sociali, la ridistribuzione, l’assistenza e il lavoro. La prospettiva di genere è necessaria anche per l’edilizia abitativa, per i trasporti e la pianificazione urbana, tutti settori fondamentali per la società. Il grande problema, soprattutto per i liberali, è che la destra ha ben capito che il genere è diventato una questione fondamentale nei dibattiti politici.

In Paesi come la Polonia e l’Ungheria, la destra promette di migliorare la situazione economica di donne, famiglie e dei bambini, senza trovarsi di fronte alcuna controproposta forte. Il movimento populista, emerso nel contesto delle conseguenze  a lungo termine del crollo economico del 2008 e in assenza di una sinistra forte, è ancora in corso. Sono molto preoccupata per lo sviluppo di questa tendenza.

Gli anti-gender usano il concetto di “guerra culturale”, facendosi passare per un movimento pacifico contro il “genderismo”, ma hanno obiettivi diversi. Potrebbe spiegare i principi di questa ideologia e di questo “camouflage”?

Questa domanda contiene due punti importanti. Innanzitutto, la destra e la destra religiosa fanno lo stesso gioco della sinistra: vogliono essere visti come vittime. E questo si adatta perfettamente al quadro populista che sostiene che i liberali e la sinistra sono delle poteti élite che opprimono le persone buone, autentiche e radicate localmente; i populisti di destra sono lì proprio per difendere il popolo.

Gli anti-gender, inoltre, dicono di rappresentare la maggioranza della società, maggioranza che viene oppressa dalle élite, cosa che la rende quindi in una minoranza bisognosa di protezione.

Questa retorica è utilizzata, ad esempio, dall’Ordo Iuris in Polonia, Paese nel quale il cattolicesimo è la religione dominante, fortemente radicato a livello politico. Nonostante la posizione di potere della Chiesa cattolica, Ordu Iuris produce rapporti che mostrano come i cattolici siano perseguitati in Polonia e lo fa usando un linguaggio liberale: siamo discriminati, i nostri diritti sono attaccati e abbiamo bisogno di una protezione speciale in quanto gruppo minoritario.

In secondo luogo, gli anti-gender sono un movimento anti-modernista che crede in una comunità omogenea, che si situa al di sopra dei diritti individuali o delle minoranze. Quando gli ultraconservatori utilizzano il linguaggio della democrazia liberale, è soprattutto per guadagnare popolarità nella sfera pubblica. È estremamente importante verificare quali obiettivi politici perseguono i movimenti anti-gender. Di solito si scopre che dietro c’è la volontà di vietare l’aborto, parità per le persone LGBTQI+, l’educazione sessuale nelle scuole etc… e questi sono solo alcuni degli obiettivi della destra religiosa.

L’Europa dell’Est e la Russia giocano un ruolo significativo nella lotta contro il cosiddetto “nuovo ordine mondiale”. Dopo la caduta del Muro di Berlino, i Paesi dell’Est sono stati dipinti come avanguardie del conservatorismo e salvatori dell’Occidente. Che origine ha questo cambiamento?

Il cambiamento non è così inaspettato se consideriamo la “politica delle emozioni”. Alcuni Paesi, come la Polonia hanno sempre avuto un atteggiamento ambiguo nei confronti dell’Occidente. Da un lato, ci sentivamo parte dell’Occidente, ma dall’altro eravamo infastiditi dall’accusa di arretratezza, che dovevamo “recuperare” dal punto di vista economico. Credo che appellarsi al nostro ruolo di leader del mondo conservatore scateni un misto di orgoglio e vergogna, caratteristico dei Paesi che hanno uno status di secondo piano nell’Europa moderna. Facendo leva su queste emozioni, gli anti-gender sostengono che così come la Polonia ha salvato l’Europa dall’Impero Ottomano sotto Sobieski, salverà l’Occidente dalla decadenza e, naturalmente, dalla presunta invasione islamica da parte dei migranti provenienti dai Paesi musulmani.

Holms e Krastev scrivono di questa diffusa disillusione nei confronti dell’Occidente nel loro libro The Light that Failed: qui gli autori  fanno notare che alla base della disillusione degli europei dell’Est nei confronti della democrazia liberale c’è la convinzione che l’Occidente li metta costantemente in secondo piano, che debbano ancora dimostrare di essere degni di entrare nel salotto europeo.

E non si tratta solo di emozioni: Holmes e Krastev dimenticano l’economia, ma il periodo di trasformazione —soprattutto per le persone più anziane e religiose dei piccoli centri — non è stato un momento di cambiamento verso il meglio in senso socio-economico, ma piuttosto una fase di emarginazione. Non c’è da stupirsi che queste persone, deluse dal periodo di trasformazione e guardate dall’alto in basso, aspirino a diventare dei vincitori morali.

Il ruolo speciale di “salvatore dell’Occidente”, almeno fino allo scoppio della guerra in Ucraina nel 2022, è stato attribuito alla Russia. Nel caso della Russia, è chiaro che si tratta di una combinazione di influenze finanziarie, politiche e ideologiche. La Russia fornisce un potente sostegno ai movimenti anti-gender in Europa, come scrive Klementyna Sukhanov. L’ultraconservatorismo è una sorta di soft power russo che Putin utilizza per destabilizzare altri Paesi e che ha usato, almeno fino a poco tempo fa, per costruire alleanze internazionali.

Perché è così importante per le femministe comprendere che opposizione al “gender” come concetto e pratica politica è diventata un elemento importante della resistenza conservatrice al neoliberismo?

Senza capire che gli anti-gender rispondono a bisogni, emozioni, paure, e speranze reali, non saremo in grado di trovare una risposta adeguata a questa domanda.

La situazione in cui spieghiamo alle persone cos’è il gender e diciamo che non sono abbastanza istruite e che dovrebbero imparare per capire, è ingenua. E non funziona. Dobbiamo capire che tipo di esperienze ed emozioni portano le persone a credere nella versione conservatrice della storia del mondo, e a sentire che questa storia appartiene loro.

Vale anche la pena di notare che  esiste un certo parallelismo tra ciò che dice il femminismo di sinistra e ciò che dice la destra, cioè che abbiamo un problema con l’individualismo estremo, che abbiamo un problema con la scomparsa delle comunità locali, che abbiamo un problema con la l’impegno in senso lato.

Il neoliberismo non riguarda solo i principi economici del libero mercato, ma un regime emotivo che trasforma le relazioni sociali in un valore economico ed esclude le persone che, per vari motivi, non riescono a trovare la strada del successo.

Le persone sentono molto chiaramente la pressione dell’individualismo estremo, temono che nessuno le aiuti in un momento di crisi, vedono che il sostegno agli altri e la cura non sono considerati un valore. Questa tendenza colpisce soprattutto le donne, che svolgono la maggior parte del lavoro di cura e devono gestire le proprie emozioni e quelle degli altri.

Ebbene, secondo la narrazione degli anti-gender, viviamo in un mondo di consumismo, individualismo estremo, ricerca malata del profitto, di avidità delle aziende globali: ma per i conservatori le fonti di questi mali sono da cercare nel liberalismo, nel femminismo e nelle “teorie del gender”.

La fonte del male è, ad esempio, il femminismo, che ha cacciato le donne dalle loro case e ha detto loro che non dovevano essere madri; o l’omosessualità, che ha fatto sì che le persone rinunciassero ai valori della famiglia e si dedicassero all’edonismo e al consumo.

Si tratta di una diagnosi accurata che constata che qualcosa non va nella nostra vita collettiva, ma basata su un’ipotesi che attribuisce la responsabilità a gruppi che hanno avuto un’influenza piuttosto trascurabile sulla situazione. Gli attori del movimento anti-gender e di destra promettono che i problemi spariranno se torneremo ai “veri” valori della famiglia, se le donne torneranno a essere madri e se le persone torneranno alla religione.

C’è un”quadro anticoloniale” che permette agli anti-gender di combinare senza soluzione di continuità ultraconservatorismo con la critica al neoliberismo?

Il quadro anticoloniale funziona in modo diverso a seconda dei contesti geografici. In Russia, Polonia e nei Paesi post-comunisti è un modo per raccontare la trasformazione politica degli anni ’90 come un processo di colonizzazione culturale secondo il quale le femministe e i gay sono semplicemente élite sostenute dall’Occidente che colonizzano gli altri gruppi. Anche i rifugiati fanno parte di questa narrazione: in Polonia il quadro anticoloniale è combinato con un discorso apertamente islamofobico e antirifugiati.

La destra promuove una narrativa che vede femministe, gay e cosidetti “ideologi del gender”come nemici della nazione polacca, persone che vogliono distruggere le comunità locali in modo che l’Ue possa installare sul territorio “orde di rifugiati” e trasformarci cosi in una colonia in senso culturale ed economico.

In Paesi come la Germania, la Svezia o la Francia, questa retorica è leggermente diversa. Lì la destra utilizza alcuni elementi del discorso femminista o  i temi dell’uguaglianza e li organizza in modo tale da poter attaccare i gruppi minoritari. Seguendo Jasbir Puar e Sara Farris chiamiamo questa retorica “omonazionalista” e “femminonazionalista”. In Germania, ad esempio, la destra promuove la narrativa secondo cui “se lasciamo entrare gli immigrati, questi violenteranno le nostre donne e uccideranno i nostri gay”.

Secondo questa visione del mondo l’Europa occidentale, sviluppata e democratica, è sotto attacco da parte di orde di rifugiati, barbari, culturalmente diversi e pericolosi. In primo luogo, le potenziali differenze culturali tra “noi” e “loro” sono enfatizzate, e in secondo luogo entrambi i gruppi sono dipinti come omogenei. La destra dice sostanzialmente “dobbiamo difendere la nostra democrazia egualitaria dai barbari”. In questo modo, l’estrema destra si innalza a difensore delle donne e delle minoranze.

All’interno di questa ideologia c’è la teoria cospirativa della “Grande Sostituzione”, popolare nei circoli neofascisti di entrambe le sponde dell’Atlantico. Quali sono i principi di questa teoria?

La teoria della Grande Sostituzione, dal francese “Grand remplacement” è importante perché sia in Francia che negli Stati Uniti è piuttosto popolare negli ambienti di estrema destra. Questa narrazione sostiene che dobbiamo preoccuparci della riproduzione biologica degli occidentali bianchi perché presto saremo sostituiti da persone che rappresentano altre razze e altre culture, viste come “meno sviluppate” e inferiori. In questo processo, le donne diventano una risorsa essenziale perché sono loro che dovrebbero riprodurre la razza bianca sia biologicamente che culturalmente. Di conseguenza chiunque sostenga la loro emancipazione, compreso il controllo sulla loro fertilità, mina il radioso futuro delle popolazioni di bianchi.

Lei ha parlato delle proteste polacche come “femminismo popolare”. Cosa intende?

Il femminismo popolare, come lo intendo, mobilita le donne, indipendentemente dalle loro esperienze, in un atto di disobbedienza politica che richiede influenza e partecipazione alla democrazia. Il femminismo liberale, invece, chiede alle donne di aspirare al successo individuale. Le donne che sono scese in piazza in Polonia nel 2016-2017 o 2020 hanno detto ai chi è al potere: “Voi siete le élite che ci tolgono il diritto alla vita, alla felicità e all’autodeterminazione, e noi siamo le cittadine che dovrebbero avere il diritto di avere voce e influenza in questa democrazia”.

Rappresentavano “donne comuni”, il che non solo scredita la pretesa populista di rappresentare il popolo, ma rompe anche con l’idea di un’élite femminista all’interno del femminismo liberale. Si tratta di un femminismo inclusivo, di base, basato sulla solidarietà radicale.

L’emergere del femminismo populista non significa la fine del femminismo liberale ed è probabile che queste correnti coesistano. Mi pare però che la giovane generazione rifiuti il femminismo come progetto di successo individuale, che non mette in discussione il sistema esistente.  Il femminismo popolare chiede un nuovo contratto sociale che non prevede solo la partecipazione alla democrazia. Come questo si traduca in politica di partito è più difficile da misurare.

Nel suo libro lei sostiene che la questione del genere oggi non può essere ignorata quando si pensa seriamente alla democrazia e alla politica sia a sinistra, che nella nuova destra populista.

Questa è una notizia sia buona che cattiva. La buona notizia è che finalmente si parla di genere e sempre più persone si rendono conto di quanto il genere determini le nostre possibilità sul mercato del lavoro, nella vita di tutti i giorni e di cosa significhi davvero essere una donna o una persona non binaria in un Paese come la Polonia.

Con il cambiamento della società cambia anche la politica, e questo è un altro vantaggio. Ad esempio, Donald Tusk, che per molti anni ha evitato di includere le questioni relative all’uguaglianza di genere nella sua agenda, ora sostiene i diritti riproduttivi perché può vedere che il 95 per cento del suo elettorato è a favore della legalizzazione dell’aborto. Deve prendere posizione anche se non la capisce o preferisce evitarla.

La cattiva notizia è che questi temi sono ampiamente utilizzati per aumentare la polarizzazione. Temi come l’aborto, l’identità di genere, ma anche la diagnosi prenatale o la fecondazione in vitro (IVF) sono questioni potenzialmente divisive e i politici ne approfittano. Si tratta di una tendenza molto pericolosa e l’esperienza di polarizzazione degli Stati Uniti negli ultimi 30 anni lo illustra bene.

Oggi dobbiamo rispondere non solo alla domanda su come vincere, ma anche a quella su come parlare con le persone con cui non siamo d’accordo. Non con i politici, ma con i nostri vicini, genitori o colleghi. Non convinceremo tutti, ma dobbiamo essere in grado di vivere insieme in un unico Paese. Siamo in grado di evitare forme estreme di polarizzazione nelle discussioni sull’aborto, ad esempio? Come iniziare una conversazione di questo tipo? Forse in Polonia si potrebbe parlare di come salvare le donne dalla morte nel caso di una gravidanza desiderata ma a rischio. La legge sull’aborto in Polonia oggi implica che le donne in queste situazioni sono a rischio di morte e che sono costrette a partorire anche nei casi in cui si sa che i bambini moriranno alla  la nascita. Credo che la maggior parte delle persone che, ad esempio, per motivi religiosi sostengono il divieto di aborto, siano persone che hanno una coscienza.

Mi piacerebbe molto se fossimo in grado di iniziare queste discussioni con persone con cui non siamo d’accordo e trovare un terreno comune. Non soccombere alle dinamiche della polarizzazione è un compito estremamente difficile e rimarrà un problema anche se il PIS sarà rimosso dal potere.

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