Tradotto qui False Flag, un racconto di Cory Doctorow scritto per illustrare qual è la posta in gioco qualora andasse in porto la proposta di direttiva sul copyright dell’Unione Europea di cui si discute tanto e che è osteggiata da grandi esperti come Vint Cerf, uno dei padri di Internet, e Tim Berners-Lee, co-creatore del Web, oltre che da quattro milioni di cittadini europei.

Agata aveva sempre dato per scontato che la parte difficile sarebbe stata la cattura delle immagini. Ma per come andarono le cose, l’infiltrazione e l’estrazione segreta di un drone nel Mare del Nord furono la parte facile.

Agata e la sua cellula avevano trascorso mesi a pianificare l’operazione nel Mare del Nord, lavorando con una fredda alacrità che bilanciava la possibilità che arrivassero troppo tardi contro la possibilità che sarebbero stati scoperti ed esposti. Ma quella mattina, mentre saltava le creste delle onde sul piccolo gommone capitanato da Oxana, che nel suo passamontagna pareva una Pussy Riot, Agata sapeva che sarebbe andata bene. Tirò fuori il suo Toughbook, attivò i droni, ciascuno grande come una lucciola, e li spedì ad effettuare una ricognizione del peschereccio usando radar e telecamere per catturare le reti sottomarine e seguirle in tutti i loro venticinque chilometri di estensione. Era incredibile da vedere, ed era terribile: una vasta malignità che avrebbe reso sterile il mare mentre veniva trascinata dietro il peschereccio, che batteva bandiera panamense.

I droni avevano energia appena sufficiente a fare una visita veloce alla nave, acquisendone i dati di registro navale e le bandiere e scattando immagini zoomate automaticamente dei volti dei marinai prima che si esaurissero le batterie. Agata aveva valutato l’idea di far cadere i droni in mare, ma l’ironia di gettare in mare dei rifiuti elettronici in un progetto concepito per lanciare l’allerta sulla pesca eccessiva illegale era davvero troppa. Aveva invece limato via accuratamente tutti i numeri di serie dei droni, in modo che potessero essere abbandonati anonimamente a bordo del peschereccio.

Incapparono in venti contrari sulla via del ritorno alla loro nave appoggio, che doveva riportarle a Thyborøn. Il gommone quasi si rovesciò due volte; alla seconda, Agata riuscì per un pelo ad agguantare il Toughbook che rimbalzava e saltellava verso i bordi dell’imbarcazione, rimanendo con una mano a tenerlo stretto e l’altra mano ad aggrapparsi alla barca, intanto che una foschia ghiacciata e pungente la martellava senza tregua. Erano fradicie ed esauste quando raggiunsero la nave appoggio. Le gambe di Agata tremavano mentre saliva a bordo, con le nocche bianche da quanto stringeva forte il Toughbook. Riuscì a collegare il telefono satellitare e a iniziare l’upload delle sue riprese prima di vomitare.

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Agata e la sua crew [si chiamano così in gergo i gruppi di hacker, N.d.T.] fecero l’upload sia delle riprese grezze, sia di un bel montaggio con voce narrante che spiegava in dettaglio le tante leggi violate dal peschereccio, usava fonti pubbliche e dati trafugati per decifrare una piccola parte della struttura dell’azienda che formalmente era proprietaria del peschereccio, scopriva quali grossisti compravano il pescato; un pacchetto completo. Era il loro mestiere: inquinatori, pescatori illegali, scaricatori abusivi di rifiuti, condizioni di lavoro insicure. Lavoravano senza un nome o un marchio, perché le organizzazioni che hanno un nome sono vulnerabili alle ritorsioni. La gente che era disposta a trascinare reti da pesca di venticinque chilometri o di mandare lavoratori migranti a togliere isolamenti d’amianto da un futuro loft industriale indossando solo una mascherina da verniciatore era, a volte, anche disposta a fare cose davvero deplorevoli e dolorose agli attivisti che li intralciavano. Agata e la crew preferivano restare invisibili a tutti: erano i video e gli archivi che li accompagnavano a raccontare la storia, loro erano soltanto le persone che facevano quella storia. Non facevano parte della storia.

Usarono dei bot per caricare le immagini ovunque e contemporaneamente, applicandovi hashtag esistenti (#fishpocalypse, #NorthSeaDieOff) e nuovi che avevano creato per quest’operazione: #NorthSeaKiller. Nessuno dei membri della crew avrebbe dato un like o un upvote a questa roba, ovviamente: essere i primi a mettere un like a qualcosa era praticamente come dire “Questo l’ho fatto io!”. Invece aspettarono che gli attivisti che seguivano i tag esistenti si accorgessero degli upload e iniziassero a spargere la voce. Seguirono i tag man mano che diventavano virali, guardarono i ministeri della pesca danesi e scozzesi mentre venivano bombardati di domande, videro gli inviti a boicottare il grossista del peschereccio che emergevano spontaneamente, e sorrisero all’idea di qualcuno, in una pescheria, che cercava affannosamente di capire che diavolo stesse succedendo, se doveva semplicemente smettere di comprare dal #NorthSeaKiller. Tutto stava andando bene — fino al momento in cui non andò più.

I grafici delle analytics per le mention e i like e le condivisioni e i download non avevano fatto altro che aumentare, e la curva era diventata sempre più ripida, quasi verticale, nelle ore da quando avevano iniziato la disseminazione. Ora era caduta di colpo a quasi zero.

Nella chat di gruppo, Agata vide la crew postare catture delle schermate dei loro sinottici delle analytics, poi passò ad altre schede del browser, entrando in una serie di social network e cercò di caricare i post iniziali per ricontrollarne le statistiche.

> POST NON DISPONIBILE

> QUESTO CONTENUTO È STATO RIMOSSO PER VIOLAZIONI DEL COPYRIGHT AI SENSI DELL’ARTICOLO 13 DELLA DIRETTIVA SUL COPYRIGHT NEL MERCATO UNICO (2019)

La crew ne aveva sentito parlare. Non erano l’unica crew, dopotutto, e avevano amici che avevano amici nelle altre crew, e circolavano mormorii su contromisure inarrestabili messe in campo da società di “gestione della reputazione” e di “comunicazione di crisi” che vendevano una suite di servizi molto esclusiva e molto costosa a clienti veramente disperati tipo, per esempio, una società di pesca illegale che stava per finire malissimo.

Funzionava così: in base all’Articolo 13, le piattaforme erano responsabili se consentivano, anche brevemente, la disponibilità senza permesso di qualunque opera protetta dal copyright. Ma naturalmente le piattaforme non erano in grado di sapere cosa era o non era un’opera vincolata dal copyright, e così, in un compromesso che solo un eurocrate avrebbe potuto amare, l’UE disse che i detentori dei diritti erano obbligati a registrare i propri copyright presso le piattaforme, caricandoli su questi database spalancati, prodotti in crowdsourcing, di contenuti banditi. Una volta che un video, una foto, un blocco di testo o una clip audio erano nel database di una piattaforma, nessuno poteva postare su quella piattaforma nulla che corrispondesse in tutto o in parte a quel file.

Cosa anche peggiore, l’Articolo 13 non prevedeva un modo per punire le persone che rivendicavano per errore il copyright su opere che non erano loro, e men che meno i ripulitori di reputazione ostili e occulti che usavano l’Articolo 13 per censurare i video che minacciavano i bilanci contabili dei loro clienti. In teoria una piattaforma poteva scegliere di ignorare questa gente, escluderli dai database di blacklist, ma i truffatori avrebbero sempre avuto la rivincita, perché a quel punto avrebbero avuto il diritto di far causa e lasciare in mutande la piattaforma qualora un’opera sotto il loro copyright fosse comparsa online, anche solo per un giorno.

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La viralità arrivò e se ne andò. Con i video ora offline, cominciò a serpeggiare online una nuova storia: “fonti vicine alla questione” giuravano che loschi figuri (forse dei troll russi che cercavano di seminare disinformazione?) avevano messo online dei fake astuti che facevano sembrare che un peschereccio perfettamente innocente avesse calato delle reti a strascico illegale nelle fragili riserve di pesca del merluzzo del Mare del Nord. I video sembravano veri a prima vista, ma chiunque li esaminasse con attenzione notava immediatamente le falsificazioni.

La crew era inerme, furibonda. Si ricordavano di quando c’erano piattaforme più piccole, basate in Europa, che potevano usare per ospitare i video. Quelle piccole aziende erano scomparse da tempo: già per loro era dura competere con la Big Tech americana, ma dopo che la Direttiva sul Copyright decretò che avrebbero dovuto trovare mezzo miliardo di euro per comprare tecnologie di filtraggio nel momento in cui si trasformavano da “microimprese” in potenziali concorrenti di Google e Facebook, chiusero tutte i battenti.

La crew non poteva neanche fornire i propri video a dei giornalisti amici per smentire le asserzioni dei grandi giornali di proprietà delle società. Anche solo linkare un giornale importante richiedeva una licenza a pagamento, e mentre i giornali si concedevano licenze a vicenda in modo da poter citare articoli nelle pubblicazioni concorrenti, le testate dissidenti e indipendenti che un tempo commentavano e analizzavano quello che faceva notizia e quello che non lo faceva erano tutte svanite quando le grandi società di news avevano rifiutato di concedere loro la licenza di linkarle.

Agata parlò con un avvocato di sua conoscenza, usando cauti giri di parole e forme ipotetiche. L’avvocato le confermò quello che aveva già intuito.

“La tua amica immaginaria non ha speranze. Dovrebbero identificarsi per inoltrare un’opposizione, dire a tutti la loro vera identità e rivelare che sono loro gli artefici del video. Anche così, ci vorrebbero sei mesi per far sì che le piattaforme esaminassero l’opposizione, e a quel punto tutta la notizia sarebbe svanita dall’opinione pubblica. E se miracolosamente riuscissero a destare di nuovo l’attenzione dellla gente? Beh, i falsificatori farebbero semplicemente rimuovere di nuovo il video. Basta un istante a un bot per inoltrare una rivendicazione di copyright fasulla.Ci vogliono mesi prima che degli umani riescano ad annullare la rivendicazione. È una guerra asimmetrica e voi sarete sempre fra quelli che la perdono.”

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La crew aveva una dozzina di altre operazioni che erano arrivate a vari livelli di pianificazione, ma #NorthSeaKiller uccise le loro speranze. Vedevano quanto sarebbe stato facile ripetere il trucchetto, e senza Internet la crew era inerme.

Cosa sarebbe successo se qualcuno avesse organizzato un raduno d’indignazione virale e non si fosse presentato nessuno?

Agata non era più una ragazza. Si ricordava, a malapena, di quando Internet non era composta da quattro megasocietà nelle quali la gente postava screenshot tratti dagli altri tre. Ma anche l’Internet accentrata e commerciale aveva la sua utilità, come luogo nel quale i potenti potevano essere chiamati a rendere conto e ad essere esaminati. Era rischioso, ma il rischio aveva le proprie ricompense.

Non più.

Aveva tanti messaggi in attesa dai membri della crew, ma non riuscì a trovare la forza di rispondere neanche a uno di essi. Andò a letto.

 

La traduzione è realizzata da Paolo Activissimo.