Esiste un accordo internazionale sull’energia che permette alle corporazioni di portare in tribunale un Paese per somme astronomiche. Nel settembre 2021 la Corte di giustizia dell’Ue ha emesso una sentenza che afferma che questo accordo, il Trattato sulla Carta dell’Energia, non può essere utilizzato in dispute tra soggetti europei perché incompatibile con il diritto europeo. Per i paesi dell’Ue che stanno eliminando i combustibili fossili questa sentenza segna una svolta significativa, anche se parziale. Come riporta Juliet Ferguson di Investigate Europe, i governi di tutto il Sud del mondo rimangono invece esposti a costose cause legali da parte degli investitori e delle corporazioni internazionali.

L’Abruzzo è una regione dell’Italia centrale che si estende dagli Appennini fino alla costa adriatica. Il sito turistico Discover Italy esalta le sue riserve naturali, famose per la fauna selvatica, i parchi nazionali e i chilometri di splendida costa dei Trabocchi. L’Abruzzo è descritto come la “regione più verde” del Paese ed è una famosa meta turistica estiva. Ma le riserve naturali dell’Abruzzo non si limitano alle spiagge e ai parchi nazionali: il giacimento petrolifero Ombrina Mare si trova a meno di 10 chilometri dalla costa ed è stato scoperto nel 2007 dalla società Mediterranean Oil & Gas (MOG). Nel 2014, la britannica Rockhopper Exploration ha acquisito la MOG e, insieme ad essa, la licenza di trivellazione.

Nel frattempo, la società civile italiana è scesa in piazza per protestare. Enrico Gagliano, fondatore del Movimento No Triv spiega cosa ha spinto l’opposizione al progetto: “Un giorno, nel 2008 abbiamo, visto una piccola piattaforma che spuntava dalla costa. Un abominio. Ci siamo chiesti cosa mai fosse, ci siamo uniti, abbiamo iniziato a chiedere alle autorità, ci siamo fatti sentire”. Nel 2013, a Pescara, 40mila persone hanno marciato sotto lo slogan “No Ombrina”. Nel 2015 i numeri dei manifestanti erano cresciuti: la città di Lanciano ha visto una manifestazione di 60mila persone. Organizzazioni della società civile, diocesi, comuni locali e il personale dei parchi nazionali si sono uniti alla protesta.

Tra le domande e le preoccupazioni, il timore per i danni all’ambiente e il rischio di perdite di petrolio; inoltre in tanti si sono chiesti come il Governo italiano possa dire di ridurre l’uso di combustibili fossili e, allo stesso tempo, approvare una licenza di perforazione. Di fronte alle pressioni e alle palesi contraddizioni, nel 2015 il Parlamento italiano ha deciso di non permettere alcuna estrazione di petrolio e gas così vicino alla costa, segnando la fine del progetto Ombrina Mare. O almeno così si pensava.

Nel 2017 Rockhopper ha intentato una causa contro il Governo italiano, sulla base del poco conosciuto Trattato sulla Carta dell’energia (TCE, in inglese Energy Charter Treaty). Il verdetto deve ancora essere pronunciato:  Rockhopper chiede un risarcimento per gli investimenti che la società ha fatto fino ad oggi. Secondo il TCE le compagnie possono chiedere, infatti, non solo un risarcimento per gli investimenti persi a causa di un cambiamento di politica, ma anche per i potenziali profitti persi: in questo caso fino a 200-300 milioni di dollari. Con un arbitrato tenutosi a Washington, Rockhopper ha chiesto 275 milioni di dollari: solo il 29% di questa somma rappresenta del denaro già speso, il resto sono i mancati profitti dell’azienda. Investigate Europe ha chiesto a Rockhopper informazioni sul caso, ci hanno risposto di non avere altre dichiarazioni, oltre a quelle già rilasciate.

“C’è posta per te”: un effetto di dissuasione

L’Italia è uscita dal TCE nel 2016, ma una clausola di caducità di 20 anni presente nel Trattato fa sì che un Paese possa essere comunque citato in giudizio per investimenti fatti prima della data di uscita, come nel caso di Rockhopper. Si teme che, a seconda del risultato, altre compagnie potrebbero seguire l’esempio della Rockhopper.

Gruppi ambientalisti e altre organizzazioni non governative chiedono da tempo la riforma del Trattato sulla Carta dell’Energia: esistono motivi di preoccupazione che fanno pensare il TCE che possa ostacolare la capacità dei governi di raggiungere i loro obiettivi climatici.

Investigate Europe, inoltre, ha scoperto che il TCE ha stanziato quasi mezzo milione di euro per il suo consolidamento, espansione e diffusione, con lo scopo di aumentare la portata globale del Trattato oltre i 54 paesi già coperti. Ci sono sentori che la sola minaccia del TCE sia sufficiente ad ottenere un effetto di dissuasione. Nella primavera del 2017, l’allora Ministro dell’Ambiente francese, Nicolas Hulot, ha fatto preparare una legge che prevedeva il divieto di estrazione di combustibili fossili in Francia entro il 2030. E poi ha ricevuto la posta. A nome della compagnia petrolifera Vermilion, uno studio legale parigino ha scritto: “Il progetto di legge viola gli obblighi della Francia come membro del Trattato sulla Carta dell’Energia”. Sembra che l’avvertimento non sia rimasto inascoltato. La versione finale della legge ha permesso la produzione di petrolio e gas fino al 2040.

Il TCE è stato concepito all’inizio degli anni Novanta per proteggere le aziende da pratiche discriminatorie relative agli investimenti nel settore dell’energia. È stato istituito dopo il crollo dell’Unione Sovietica come un modo per promuovere la cooperazione politica Est-Ovest: molte delle ex repubbliche sovietiche erano, infatti, ricche di riserve di combustibili fossili, ma non avevano la capacità di fare gli investimenti necessari perché considerati rischiosi. Allo stesso tempo, i Paesi dell’Europa occidentale stavano cercando di diversificare le loro forniture energetiche. Da qui è nata la Carta dell’Energia. L’applicazione del Trattato si è fatta, generalmente, attraverso i meccanismi di risoluzione delle controversie investitore-stato (ISDS, Investor-State dispute settlement), dove gli investitori possono fare causa ai paesi se si sentono danneggiati. Nello spirito degli accordi internazionali dell’epoca, le disposizioni del TCE sono formulate in modo vago e aperte all’interpretazione. La maggior parte di queste interpretazioni — il 60% dei casi conosciuti a ottobre 2020 — hanno favorito l’investitore. Un processo di modernizzazione del Trattato è attualmente in corso e otto degli argomenti sulla lista di discussione includono la parola “definizione”.

Mancanza di trasparenza

Un’azienda può fare causa ai sensi del TCE quando stima che un Paese ha approvato leggi che sono considerate contrarie agli interessi economici dell’azienda. Potrebbe trattarsi di tentativi di eliminare gradualmente i combustibili fossili, della cancellazione di controversi oleodotti o gasdotti, della limitazione dell’uso dell’energia nucleare o del sostegno a politiche per abbassare i prezzi dell’elettricità. Nel 2020, le controversie riguardanti le energie rinnovabili hanno costituito il 60% del totale dei casi.

Un’impresa può perdere denaro in tanti modi. Per esempio, le politiche che riducono i sussidi per le energie rinnovabili hanno portato a una serie di cause contro i Paesi Bassi; un investitore svedese ha fatto appello alla Germania per l’eliminazione graduale delle centrali nucleari entro il 2022; il taglio dei prezzi dell’elettricità in Bulgaria nel 2014 ha spinto tre società di servizi straniere a fare causa ai sensi del TCE. Molte delle cause che hanno a che fare con le energie rinnovabili, conosciute come le “solar claims” (reclami solari), sono contro la Spagna e la Repubblica Ceca per la riduzione delle tariffe e il ritiro degli incentivi.

A gennaio del 2021 abbiamo contabilizzato 136 casi noti, ma è improbabile che questo numero sça rappresentativo del quadro completo: non c’è l’obbligo di comunicare quando i reclami hanno avuto luogo, e i negoziati sono riservati.

Il raggio del TCE oggi è molto più ampio che negli anni Novanta e i suoi diritti coprono 54 paesi, più l’Unione europea nel suo complesso. La Russia ha firmato (ma non ratificato il Trattato) e si è ritirata completamente dal TCE nel 2009, ma questo non le ha impedito di essere citata in giudizio in sei casi, in particolare dagli azionisti della compagnia petrolifera Yukos: quando il Governo russo ha deciso di fermare Yuko sono partite azioni legali da parte degli ex investitori privati per l’espropriazione illegale dei loro beni.

Nel 2014 la Corte permanente internazionale di arbitrato (PCA), con sede all’Aia, ha dato ragione agli investitori con una multa di 50 miliardi di dollari contro la Russia. Mosca ha fatto appello alla Corte distrettuale dell’Aia, che ha stabilito che, non avendo ratificato il Trattato, la Russia non era vincolata dal TCE. Gli investitori hanno impugnato questa sentenza presso la Corte Suprema olandese e il precedente risarcimento è stato confermato. Questi 50 miliardi di dollari contro lo stato russo (57 miliardi con gli  interessi) sono l’indennizzo più costoso nella storia del TCE  e dell’arbitrato. Per la Russia esiste un’ultima via legale disponibile: un appello contro la sentenza della Corte Suprema olandese. Una decisione è attesa nella seconda metà del 2021.

Ostacolo agli obiettivi climatici

“Il Trattato sulla Carta dell’energia è un ostacolo significativo alla politica di azione climatica dell’Ue e degli Stati membri”, hanno detto gli esperti legali dell’associazione ambientalista ClientEarth nel 2020. In Europa, il Governo francese in particolare sta spingendo per un cambiamento. In una lettera alla Commissione europea, i politici francesi hanno scritto che il TCE “necessita urgentemente una riforma profonda, per non ostacolare la transizione ecologica dell’Unione europea”, aggiungendo inoltre che “un ritiro coordinato dell’Unione europea e dei suoi Stati membri dovrebbe essere discusso pubblicamente e da subito”.

Ole Kristian Fauchald, professore al Dipartimento di diritto pubblico e internazionale dell’Università di Oslo, è molto critico nei confronti del Trattato, che illustra come “diritti umani per gli investitori”. Fauchald critica la mancanza di precisione del TCE, definendolo “superato”. “Se queste regole fossero state incluse in un contratto, ne sarei rimasto ben lontano”, aggiunge. Anche gli ex membri del Segretariato della Carta dell’energia (ECS, Energy Charter Secretariat, l’organismo che supervisiona l’adesione) chiedono una riforma. Nel 2019, Sarah Keay-Bright, ex responsabile dell’efficienza energetica, ha scritto che il TCE deve essere “riformato, cambiato o eliminato”.

Un articolo sempre del 2019 di Keay-Bright e dell’ex direttore dell’ECS, Steivan Defilla, raccomanda una riforma radicale del Trattato: “L’intero processo della Carta dell’energia dovrebbe essere valutato, compresi i suoi accordi di governance, le istituzioni e gli strumenti, ciascuno dei quali è possibile solo modificando il TCE.”

Nel dicembre 2019, Friends of the Earth, Greenpeace e un gruppo di altre organizzazioni hanno pubblicato una lettera aperta che chiede il ritiro della protezione per gli investimenti nei combustibili fossili e l’abolizione del meccanismo ISDS. Se questo non fosse possibile, i paesi dovrebbero uscire del tutto dal TCE ed essere sottoposti alla clausola di caducità ventennale sotto la quale l’Italia sta attualmente languendo.

Sempre nel 2019, la Conferenza della Carta dell’energia ha istituito e dato mandato al Gruppo di modernizzazione, “di avviare i negoziati sulla modernizzazione del TCE, al fine di concludere rapidamente i negoziati”. Cicli di negoziati hanno avuto luogo nel 2020 e sono previsti per tutto il 2021.

Le discussioni all’interno dell’Ue continuano, mentre gli stati discutono per trovare una posizione comune. Dopo il terzo round di negoziati per modernizzare il Trattato alla fine di ottobre, è stata resa nota una proposta della Commissione europea per la posizione del blocco sui combustibili fossili. Questa include la protezione degli investimenti esistenti nei combustibili fossili per altri 10 anni e degli investimenti nei gasdotti fino alla fine del 2040; inoltre propone di estendere la portata della protezione degli investimenti alle nuove tecnologie (per esempio idrogeno e biomassa). Anche se i futuri investimenti nei combustibili fossili sono esclusi, le scappatoie sono ampie.

La maggioranza dei deputati si era già opposta all’idea che i combustibili fossili facessero parte di una riforma del TCE e le Ong hanno reagito con orrore alla proposta della Commissione. Paul de Clerck, coordinatore della giustizia economica di Friends of the Earth, ha commentato: “Mentre un’azione decisiva per fermare il degrado del clima è cruciale entro questo decennio, la Commissione propone di continuare a proteggere i combustibili fossili. Questo cieco assecondare gli interessi dei combustibili fossili mina l’accordo di Parigi e l’European Green Deal”. Le discussioni dell’Ue sono solo una parte del processo. Affinché un qualsiasi cambiamento sia possibile, ci deve essere un accordo tra i membri del trattato, al di là dell’Ue. La posizione del Giappone non potrebbe essere più chiara: “Il Giappone crede che non sia necessario modificare le attuali disposizioni del TCE”.

In occasione del primo round di negoziati nel luglio 2020, Climate Change News ha riportato che il Giappone ha espresso “grandi preoccupazioni” su un piano dell’Ue per un tribunale multilaterale degli investimenti per sostituire l’ISDS. In questo approccio, il Giappone è stato sostenuto dal Kazakistan. Entrambi i Paesi hanno affermato che “la modernizzazione dovrebbe essere minima”.

Cosa c’è dietro la posizione del Giappone? Una ragione è che, fino ad ora, Tokio non ha avuto problemi con il TCE. Tuttavia, nel marzo di quest’anno, un investitore di Hong Kong ha presentato il primo reclamo conosciuto contro il Giappone per i tagli alle sovvenzioni alle energie rinnovabili.

A questo va aggiunto che il Giappone è l’unico paese del G7 che sta ancora costruendo centrali a carbone, all’interno del Paese e all’estero: in India, Indonesia, Vietnam, Bangladesh, Cile e Marocco. Nessuno di questi paesi è firmatario del TCE ma molti sono in procinto di aderirvi o sono osservatori.

L’espansione in Africa

La Russia non ha ratificato il Trattato, così come la Norvegia. L’Italia ne è uscita nel 2016. La Commissione europea lo vuole modernizzare, il Governo britannico è d’accordo con l’Ue (cosa che non avviene molto spesso) e “farà in modo che il Trattato sostenga le nostre priorità per costruire più verde, creare posti di lavoro verdi di qualità in tutto il Paese e guidare il mondo nell’affrontare il cambiamento climatico”, ha fatto sapere un portavoce del Governo.

Dal 2012, il Segretariato del TCE è impegnato in una campagna di comunicazione per reclutare i governi che non hanno ancora firmato. Una politica di “Consolidation, Expansion and Outreach” (Consolidamento, espansione e diffusione)  è stata adottata per cercare di ottenere “l’allargamento dell’area geografica” coperta dal trattato ai paesi del Medio Oriente e del Nord Africa (dove gli investimenti nella produzione di energia sono necessari “se le future forniture di petrolio dalla regione devono essere mantenute”), e ad altre parti del continente africano, del Nord Est asiatico e dell’America Latina.

Nel dicembre 2019, i membri del TCE hanno messo una “pausa temporanea agli inviti ad aderire al TCE”. Ciononostante, l’11,4% del bilancio di base del Trattato per il 2021 è destinato alla politica di espansione. Gli sforzi includeranno apparentemente “l’assistenza a selezionati paesi osservatori già profondamente integrati nel processo di adesione del TCE in vari modi”.

In tutta l’Africa, quasi 600 milioni di persone non hanno oggi accesso all’elettricità. La proposta del Segretariato della Carta dell’energia (ECS) si concentra sull’attrazione di investimenti esteri nell’energia e sull’aumento dell’accesso all’energia. Secondo una presentazione del TCE del 2015: “Come possiamo rassicurare il capitale privato straniero che vale la pena investire in Africa? Forse la chiave per sbloccare il potenziale di investimento dell’Africa, al fine di garantire l’accesso universale all’energia e superare la povertà energetica, è il Trattato sulla Carta dell’Energia”.

L’Uganda è in testa alla fila degli stati africani che stanno considerando l’adesione. Eswatini, Burundi e Mauritania sono nel processo di ratifica, e altri 10 paesi si trovano in diverse fasi del processo di adesione, dice Urban Rusnák, segretario generale del TCE. Ogni paese ha le proprie peculiarità e ragioni per aderire, ha scritto Rusnák in una risposta via e-mail a Investigate Europe.

Rusnák sottolinea che l’Agenzia Multilaterale di Garanzia degli Investimenti della Banca Mondiale (Multilateral Investment Guarantee Agency, MIGA) e la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo considerano entrambi il TCE  un “mitigatore di rischio” quando valutano il rischio legale per investire in un paese. È invece meno esplicito sul rischio contrario, ovvero che gli investitori facciano causa agli stati se si sentono trattati ingiustamente.

L’espansione del TCE dovrebbe essere sospesa fino al completamento del processo di modernizzazione, ma Pia Eberhardt, ricercatrice del Corporate Europe Observatory, spiega che le cose non stanno così: “La pressione all’espansione non si è fermata. Il segretario generale del TCE ha chiesto denaro per l’espansione anche quest’anno ed è desideroso di andare verso paesi che hanno pochi trattati di investimento e che non fanno ancora parte della rete densa di trattati. C’è una forte possibilità che vengano citati in giudizio se aderiscono”.

Poco prima che fosse presa la decisione di sospendere l’espansione, il TCE è entrato in vigore nella Repubblica dello Yemen, dove esistono piani di rilancio del malconcio settore del petrolio e del gas. Una guerra civile infuria dal 2014.

Il Sudafrica è un paese che ha resistito alla firma del TCE. Il Governo di Pretoria ha respinto gli approcci dei rappresentanti del Trattato. Mustaqeem de Gama, consigliere della missione sudafricana a Ginevra, ha detto a Investigate Europe: “Il Trattato sulla Carta dell’energia è una cattiva notizia per quanto riguarda il mio Governo. Canalizzare le nostre controversie sull’energia attraverso uno strumento come il TCE non è nel nostro migliore interesse”. Secondo de Gama la legislazione dovrebbe essere a livello nazionale e gli altri paesi africani dovrebbero fare attenzione: “Il Trattato va ben oltre l’energia come il petrolio. Siamo produttori anche di altri elementi per i processi critici di fusione, come l’uranio e il palladio, e di molti metalli richiesti nelle industrie ad alta tecnologia. Alla luce di questo, si imporrebbero ai Paesi ulteriori restrizioni e obblighi che rischiano di limitare lo spazio politico a loro disposizione”.

Transnational Institute e Corporate Europe Observatory, due gruppi della società civile, sostengono che i Paesi africani rischiano di diventare ostaggio degli investitori e definiscono il Trattato “la potente arma segreta dell’industria dei combustibili fossili per continuare a cucinare il pianeta”.

“Non esiste alcuna prova di un maltrattamento sistematico degli investitori stranieri nel mondo. Non è vero che se si cancellano tutti i trattati di investimento, non esistono protezioni per gli investitori”, dice Eberhardt, che insiste sul fatto che, se esiste un problema di accesso alla giustizia nei sistemi giudiziari nazionali, questo deve essere risolto per tutti, specialmente per i poveri e le vittime di abusi dei diritti umani. “Ci sono diversi casi nei quali un’impresa investe in un paese e, alla prima avvisaglia di problemi, apre una controversia internazionale e, di fatto, aggira le leggi e le procedure locali. Ci sono questioni riguardanti le procedure interne. E ci dovrebbe essere un qualche tipo di processo locale”, dichiara de Gama.

Più processi significa più guadagni

Gli investitori non sono gli unici ad aver ottenuto dei benefici finanziari via le cause fatte attraverso il Trattato della Carta dell’energia. L’aumento dei casi ha trasformato l’arbitrato internazionale in un business redditizio sia per gli studi legali che per gli arbitri, perché il TCE permette agli investitori di rivolgersi direttamente ai tribunali arbitrali, bypassando i sistemi giudiziari nazionali. Già negli anni Novanta gli investitori sostenevano che avrebbero avuto un’udienza più equa nell’arbitrato, perché non in tutti i sistemi giudiziari potevano essere sicuri di avere un processo equo.

Ci sono diversi tribunali internazionali che accolgono le cause.  Il processo di arbitrato funziona generalmente come segue: l’investitore invia una notifica allo stato ospitante, poi entrambe le parti scelgono il tribunale. Ogni parte sceglie un arbitro che la rappresenti e un terzo, per presiedere il tribunale, viene deciso di comune accordo.

Gli arbitri sono nominati caso per caso e devono avere una formazione giuridica, anche se possono lavorare in diversi settori, tra cui il mondo accademico e il servizio diplomatico. Condividono per lo più background simili: vengono dall’Europa occidentale o dal Nord America, hanno frequentato un’università della Ivy League (gruppo che accomuna le otto più prestigiose università private degli Usa, ndr) e sono di solito uomini.

Brigitte Stern è una delle poche donne nel gruppo. È in vetta alla classifica del Segretariato del TEC degli arbitri con il maggior numero di casi noti al pubblico. Vista la sua grande esperienza nell’arbitrato internazionale, abbiamo cercato di parlare con lei ma ha declinato la nostra proposta.

Un sistema equo necessita l’indipendenza dai giudici, ma gli arbitri possono avere ruoli mutevoli: a volte rappresentano compagnie energetiche. “Gli arbitri e gli studi legali sono dei guardiani”, dice Eberhardt. “Si tratta di un club molto potente, interessato a mantenere ed espandere il suo potere”.

Poi c’è la questione del pagamento dei loro servizi. Non c’è limite all’importo che gli arbitri possono ricevere. Nel caso Yukos, per esempio, il presidente del tribunale, Yves Fortier, ha ricevuto un compenso di 1,7 milioni di euro, mentre l’arbitro nominato dagli investitori, Charles Poncet, ha intascato 1,5 milioni di euro.

La pratica del “doppio cappello” (“double-hatting”, ovvero ricoprire due funzioni contemporaneamente, ndt), il fatto di agire come avvocato e arbitro allo stesso tempo è stata, anche, uno dei motivi di preoccupazione.

Sarah Brewin, consulente di diritto internazionale e associata all’Istituto Internazionale per lo Sviluppo Sostenibile (IISD), spiega: “Nel sistema arbitrale, non c’è nessun divieto di ‘double hatting’, quindi, mentre si è arbitri in un caso, si può essere consulenti, rappresentando un investitore in un altro caso; inoltre, in un terzo caso si può anche essere consulente di un altro finanziatore che sta consigliando una richiesta e, in un altro caso, si può essere un esperto che fornisce prove su quale tecnica di valutazione dovrebbe essere utilizzata”.

Pierre-Marie Dupuy, avvocato e accademico, e uno dei tre arbitri del caso Rockhopper, sollecitato da noi, ha insistito sul fatto che non è bene “che i due ruoli di consulente e arbitro siano uniti [in uno]”.

L’imparzialità e l’indipendenza degli arbitri e dei consulenti nelle controversie internazionali investitore-stato è un importante argomento di discussione all’interno e all’esterno della comunità arbitrale. I critici del TCE temono che sia il sistema arbitrale stesso a permettere l’esistenza di tali pratiche.

Per Pia Eberhardt, il problema è più grande del sistema. Eberhardt indica le enormi ricompense finanziarie come troppo allettanti: “Più tempo ci metti, più casi hai e più guadagni come arbitro… C’è un conflitto d’interessi sistematico, anche quando gli arbitri non lavorano come avvocati. Si tratta di casi che permettono loro di arricchirsi, e non hanno un limite di reddito”. Questa posizione è condivisa da Sarah Brewin: “Il fatto che il pool di arbitri sia così ristretto e che possano cambiare ruolo rapidamente è una preoccupazione diffusa. Inoltre sono pagati in base al numero di casi ai quali partecipano, non ricevono un compenso annuale: questo rappresenta un incentivo partecipare a più casi possibile. Perché ci sono sempre più casi? Gli investitori, che sono gli unici che possono portare i casi, devono essere contenti del sistema, devono pensare che vale la pena aprire un caso”.

Favoritismo per i combustibili fossili?

La Conferenza della Carta dell’Energia è l’organo che governa il processo decisionale della Carta dell’Energia. Secondo un audit condotto di recente, il Segretariato della Carta dell’Energia (ECS) ha il ruolo primario di “fornire alla Conferenza della Carta dell’Energia tutta l’assistenza necessaria per lo svolgimento dei suoi compiti e svolgere le funzioni assegnatele nel TCE o in qualsiasi protocollo”.

Il Segretariato è responsabile dell’amministrazione quotidiana del Trattato e del reclutamento di nuovi membri. È una piccola organizzazione, con un budget annuale di circa 4 milioni di euro, di cui il 65% è finanziato dalla Commissione europea e il resto dagli stati membri.

Il segretario generale della Segreteria, Urban Rusnák, il diplomatico slovacco che è stato nominato nel 2012, ha dichiarato che l’organizzazione è “neutrale” per quanto riguarda i tipi di energia, aggiungendo che “non sostiene nessun combustibile”. Rusnák ha anche riconosciuto la necessità di modernizzazione del Trattato e ne sta supervisionando il processo.

 Il diplomatico crede che il Trattato possa essere riconciliato con gli obiettivi climatici dell’Accordo di Parigi: la sua visione è quella ottenere un TCE modernizzato, di farne un “standard globale” di grande livello, uno “strumento indispensabile per assicurare gli investimenti privati necessari per una transizione globale di successo a basse emissioni di carbonio.

Alcuni ex dipendenti dell’ECS vedono le cose diversamente. Masami Nakata, docente universitaria giapponese e specialista dell’energia, ha avuto il ruolo di assistente del segretario generale dell’ECS per due anni e mezzo. Alla sua partenza, ha redatto un rapporto di 182 pagine in cui illustra quello che, secondo lei, non funziona all’interno del TCE. Nakata ha inviato il suo rapporto alla Commissione europea e ad alcuni Stati membri e il contenuto è trapelato in un articolo di EURACTIV (giugno 2019).

Pochi mesi dopo la fuga di notizie, e sotto la pressione di un “diplomatico” di uno stato membro, si è giunti a un audit internazionale.

Il punto di vista di un insider

Yamina Saheb ha un’esperienza di prima mano delle sfide della modernizzazione del Trattato.(1) Saheb ha fatto entrare la crisi climatica nel suo appartamento parigino: negli ultimi due anni ha fatto del Trattato sulla Carta dell’energia il centro della sua vita. Girando nervosamente tra pile di documenti accuratamente accatastati,  altri fascicoli e rapporti scientifici, fa una serie di telefonate: un membro del Parlamento europeo, qualcuno vicino al Governo, il rappresentante di una Ong o di un partito politico. Saheb oggi si comporta come una lobbista esperta, ma non era questa la sua idea.

Fino a non tanto tempo fa Saheb era solo uno dei tanti dipendenti pubblici internazionali che riempiono i corridoi di Bruxelles. Il suo curriculum include un dottorato di ricerca in ingegneria energetica, un impiego presso l’Agenzia Internazionale per l’energia atomica (AIEA) e alla Commissione europea. Nel 2018, ha accettato la posizione di capo dell’unità di efficienza energetica al TCE: le è stato chiesto di lavorare sul testo per la modernizzazione del Trattato con lo scopo di allinearlo all’accordo di Parigi. Questo è quello che pensava di fare.

Anche se Saheb conosceva poco il Trattato, si è immersa completamente nel testo; è giunta alla conclusione che le era stato dato un compito impossibile e che il TCE è contrario all’Accordo di Parigi. Il problema fondamentale, secondo lei, è che il Trattato protegge tutti gli investitori, compresi quelli che producono combustibili fossili.

Il rapporto che ha prodotto per il TCE mette in evidenza il problema di quelli che lei ha descritto come “combustibili sporchi”. A questo punto le cose si sono fatte difficili per lei. Saheb racconta che i colleghi si sono particolarmente innervositi nei suoi confronti per l’uso delle parole scelte, e che è stata accusata di comportarsi come un attivista del clima. Alla fine ha lasciato il TCE.

Determinata ad esporre ciò che aveva scoperto, ha scritto un rapporto per il think tank OpenEXP nel quale afferma: “Nonostante siamo in un’epoca di emergenza climatica, le parti contraenti attive nella modernizzazione del TCE non hanno proposto di eliminare gradualmente la protezione vincolante degli investimenti stranieri nei combustibili fossili”.

Investigate Europe ha sottoposto questa critica a Rusnák, che ci ha risposto via email: “Il TCE non permette di fare causa ai governi solo perché cercano di eliminare gradualmente i combustibili fossili” e che “lo Stato ospitante ha il diritto di mantenere un ragionevole grado di flessibilità normativa per rispondere alle mutevoli circostanze nell’interesse pubblico”.

La posta in gioco è alta

Il fatto che i paesi possano raggiungere i loro obiettivi climatici puo’ dipendere dal successo del processo di modernizzazione del Trattato sulla Carta dell’energia. Nella sua forma attuale, il Trattato rimane un potente strumento per gli investitori energetici per compensare la riduzione della dipendenza dei Governi dai combustibili fossili.

Gli operatori delle centrali a carbone o delle infrastrutture del gas possono intraprendere azioni legali contro i tentativi di chiudere il loro business: richieste di risarcimento nell’ordine dei miliardi di dollari fatte da un investitore, da sole, sono una minaccia sufficiente per causare l’indebolimento della politica climatica. Il processo di modernizzazione sta avanzando alla velocità di una lumaca.

Investigate Europe ha chiesto alla Commissione europea la giustificazione di queste apparenti contraddizioni. Un portavoce ci ha risposto: “Spingeremo con forza per andare nel senso della riforma. Il TCE non dovrebbe impedire agli Stati di fare la transizione dai combustibili fossili alle fonti di energia sostenibili”.

Nel settembre 2021, la Corte di giustizia dell’Ue ha stabilito che il Trattato non può essere usato nelle cause tra i paesi Ue, in quanto mina il ruolo dei tribunali dell’Ue stessi. Ma se la sentenza segna una svolta significativa per gli Stati membri dell’Ue, il Trattato si applica ancora per le controversie con i paesi terzi e le controversie al di fuori dell’Ue. Ci sono tre paesi africani nel processo di ratifica, e altri 10 che si stanno muovendo lungo il processo di adesione. Firmando il Trattato, potrebbero rinunciare al controllo sulla loro politica energetica e potenzialmente esporsi a costose cause legali da parte di investitori insoddisfatti.

[1] Poiché Yamina Saheb è attualmente impegnata in un procedimento contro il suo ex datore di lavoro presso l’Ufficio Internazionale del Lavoro (ILO), ci informa che non è in grado di commentare in dettaglio la sua attività all’interno della segreteria. Due dipendenti dell’ECS che hanno accettato di parlare con noi sono stati in grado di farlo. Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta sul New Internationalist il 3 agosto 2021. Si basa su un lavoro di Investigate Europe, un team europeo di giornalisti che investigano insieme argomenti di rilevanza europea e li pubblicano in tutta Europa. Viene qui ripubblicato con il permesso degli autori.

Tradotto in collaborazione con la Heinrich Böll Stiftung Parigi, Francia.