L’influenza di Eni sulla politica e la cultura italiane non si è esaurita con l’inizio della privatizzazione negli anni ’90. Oggi la multinazionale ha una presenza pervasiva nel mondo dell’istruzione, contribuendo al dibattito sulla transizione energetica e rischiando di pregiudicare l’indipendenza della ricerca scientifica.

La COP28 a Dubai lo scorso dicembre si è conclusa con uno storico impegno ad abbandonare i combustibili fossili, senza però delineare obblighi o termini precisi per gli stati al fine di centrare l’obiettivo. Promesse vaghe e azione insufficiente riflettono l’approccio alla questione climatica di molti governi nazionali, incluso quello italiano. Ufficialmente, l’esecutivo di destra in carica dal 2022 riconosce la necessità di contrastare i cambiamenti climatici. Lo testimonia, ad esempio, il Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec), che stabilisce gli obiettivi del Paese in tema di energia e riduzione delle emissioni. Varie associazioni ambientaliste, tuttavia, considerano il piano ancora troppo legato al gas naturale, un combustibile fossile. Nella stessa direzione va il cavallo di battaglia della premier Giorgia Meloni, il cosiddetto “Piano Mattei per lo sviluppo in Stati del Continente africano”, che mira a trasformare l’Italia in un hub europeo per il gas. 

Il piano prende il nome da Enrico Mattei, politico e fondatore del gigante italiano dell’energia ENI, l’Ente Nazionale Idrocarburi. Oggi ENI, che è per un terzo proprietà dello stato italiano, è il diciannovesimo produttore di petrolio e gas a livello globale, ed è tra le aziende più inquinanti al mondo. L’influenza della multinazionale sulla politica italiana non si limita alla popolarità del suo fondatore presso il governo, e aiuta in parte a spiegare l’inerzia dell’Italia nell’attuare la transizione verde. 

Un report pubblicato a novembre 2023 dalle ONG Greenpeace Italia e ReCommon ha messo in luce che il colosso energetico ha una presenza significativa nel mondo dell’istruzione pubblica, attraverso cui rischia di inquinare il dibattito e pregiudicare l’indipendenza della ricerca scientifica. 

Politica estera e cultura

Fondata nel 1953, oggi Eni opera in 62 Paesi e impiega circa 32 mila lavoratori. Il “cane a sei zampe” è attivo nei settori del petrolio, del gas naturale, della chimica e biochimica, e della produzione e commercializzazione di energia elettrica da combustibili fossili e fonti rinnovabili. Nella classifica Fortune Global 500 del 2023, Eni figura tra le prime 100 aziende al mondo per fatturato. Nel 2022 l’utile dell’azienda ha superato il Pil di Paesi come Mozambico, Montenegro, Togo e Maldive.   

La multinazionale è anche tra i 30 più grandi inquinatori al mondo: solo nel 2021 ha emesso 456 milioni di tonnellate di CO2, mentre il sistema energetico italiano nel suo complesso ne ha emesse poco meno di 400. Sulle proprie pagine web Eni dichiara di emettere alcune decine di milioni di tonnellate di CO2, ma il calcolo non tiene conto delle emissioni indirette legate alle sue attività.  

L’influenza di Eni sulla politica e sulla società italiane non è un fenomeno recente. Già negli anni ‘50, quando era un ente pubblico, l’azienda portava avanti una politica estera autonoma in grado di influenzare la politica: Enrico Mattei ha svolto un ruolo fondamentale nel sostenere le aspirazioni economiche e politiche dei Paesi arabi e dell’Iran con l’obiettivo di indebolire il dominio americano sul mercato petrolifero internazionale. 

Anche dopo la privatizzazione negli anni ‘90, i rapporti di Eni con la politica sono rimasti intatti. Alcuni documenti diffusi da WikiLeaks, per esempio, suggeriscono che Silvio Berlusconi potrebbe aver tratto profitto dagli accordi energetici di Eni con la Russa Gazprom. Un cablo dell’ambasciata americana a Roma definiva la visione di Eni per l’energia europea “simile a livelli inquietanti a quella di Gazprom e del Cremlino.”

Più recentemente, ReCommon ha rivelato l’esistenza di un protocollo che ha permesso al gigante petrolifero di stanziare i propri uomini presso il Ministero degli Affari Esteri per un periodo illimitato. Lo scopo? “Facilitare un ‘raccordo’ tra l’azione diplomatica italiana e gli interessi dell’azienda.”

Eni è presente anche in molti settori dell’economia, della società e della cultura. Diverse testate giornalistiche nazionali ospitano pubblicità  o contenuti sponsorizzati da Eni, in cui la multinazionale si presenta come pioniera di sostenibilità ambientale. La presenza del cane a sei zampe sui media italiani va nella direzione opposta rispetto a iniziative come quelle del Guardian, del gruppo editoriale americano Vox Media, e dei quotidiani svedesi Dagens ETC e Dagens Nyheter, che hanno bandito le pubblicità dell’industria fossile.

Eni ha finanziato inoltre eventi culturali come il concerto del Primo Maggio a Roma, il festival di Sanremo, ma anche musei, competizioni sportive, mostre e feste popolari. Infine, come rivelato da Greenpeace Italia e ReCommon, la multinazionale è attiva nella scuola e nell’università pubblica, dove si occupa di formazione dei docenti su temi che riguardano la sostenibilità ambientale, finanzia corsi di laurea e dottorati di ricerca, e altro ancora.

Andrea Turco, giornalista e collaboratore dell’organizzazione ecologista italiana A Sud, ha spiegato che Eni finanzia enti ed eventi da un lato perché “sa di avere una percezione [pubblica] negativa … e quindi deve in qualche modo rimediare”. Dall’altro lato, secondo Turco, “soprattutto tra i vecchi dirigenti [di Eni] è ancora presente un attaccamento al modello Mattei e alla convinzione che Eni sia un’impresa sociale”. Questa visione, spiega il giornalista, porta l’azienda a investire una parte degli enormi bilanci in attività non direttamente legate al settore energetico.   

Sebbene porti beneficio alla reputazione di Eni, questo attivismo solleva questioni di democrazia in un momento decisivo per l’azione climatica. Soprattutto perché Eni continua a investire abbondantemente nei combustibili fossili.  

La (non) transizione energetica  

Negli ultimi anni la multinazionale ha dichiarato di ambire alla decarbonizzazione e alla trasformazione energetica verso energie pulite e sostenibili attraverso vari progetti e finanziamenti. In realtà però continua a dare priorità agli investimenti nel petrolio. 

Nel 2022, Eni ha realizzato utili record di 20,4 miliardi di euro, più del doppio rispetto al 2021. La crescita dei profitti è dovuta soprattutto ai picchi di prezzo delle fonti fossili, da cui proviene la maggior parte degli utili dell’azienda. Anche gli investimenti tecnici di Eni sono ancora incentrati sul fossile. Nel 2022 la multinazionale ha investito 15 volte di più nel fossile che in Eni Plenitude, focalizzata sull’energia rinnovabile.

Eni prevede di aumentare l’estrazione di petrolio e gas del 3-4 per cento all’anno fino al 2026, andando nella direzione contraria alla strategia di decarbonizzazione richiesta, tra gli altri, anche dall’Ipcc, secondo cui è necessaria un’azione immediata e rapida per eliminare gradualmente i combustibili fossili al fine di contenere il riscaldamento globale entro 1,5 C. 

Nel 2023, Eni ha firmato un contratto a lungo termine con QatarEnergy Lng Nfe per la fornitura di fino a 1,5 miliardi di metri cubi anno di gas naturale liquefatto (GNL), che si aggiungeranno ai 2,9 miliardi di metri cubi che il cane a sei zampe importa dal Qatar dal 2007. Il GNL sarà consegnato al rigassificatore di  Piombino a partire dal 2026 per i successivi 27 anni, nonostante il Comitato scientifico consultivo europeo sui cambiamenti climatici, così come anche Onu e Ipcc, richiedano emissioni zero il più vicino possibile al 2040 per i Paesi occidentali. Nel 2023 Eni ha anche acquisito per 4,9 miliardi di dollari Neptune Energy, società con sede a Londra che produce petrolio e gas da giacimenti in otto paesi, tra cui Regno Unito, Norvegia, Germania, Algeria, Paesi Bassi e Indonesia.

Secondo gli esperti delle Nazioni Unite, nessuna azienda e nessun governo può dirsi sostenibile se continua a investire nello sfruttamento dei combustibili fossili, a contribuire alla deforestazione o a perseverare in altre attività distruttive per l’ambiente. Ecco perché gli sforzi di Eni di presentarsi come un’azienda “verde” è un classico esempio di greenwashing. Nel 2020 Eni era stata anche sanzionata dall’autorità amministrativa indipendente AGCM per la diffusione di messaggi pubblicitari ingannevoli nella campagna promozionale del carburante Eni Diesel+, presentato come sostenibile e in grado di ridurre i consumi.   

Eni orienta la formazione

Alla luce di un track record ambientale non esattamente invidiabile, la presenza capillare di Eni nell’istruzione pubblica è particolarmente preoccupante. A novembre 2023, la rete studentesca internazionale End Fossil Occupy ha occupato La Sapienza di Roma e l’Università di Pisa,  poi anche gli atenei di Torino, Parma e Milano, protestando contro gli accordi tra le università e alcune multinazionali del fossile. 

Secondo il report di Greenpeace e ReCommon, più di una università italiana su due dichiara di avere qualche rapporto con Eni. Il 75 per cento degli atenei pubblici che riferiscono di avere accordi con l’azienda o di ricevere finanziamenti ha però negato agli ambientalisti la possibilità di conoscerne i termini. Secondo quanto affermato da Eni, nel 2022 erano attivi circa 100 progetti con le Università italiane per un valore di circa 10 milioni di euro. 

La presenza dell’azienda all’interno degli atenei non riguarda solo i finanziamenti. Attraverso partenariati, accordi quadro, ma anche seminari, progetti didattici e orientamento alla carriera, il Cane a sei zampe entra nelle università pubbliche toccando argomenti che riguardano la transizione energetica e la sostenibilità, e accaparrandosi forza lavoro specializzata e ricerca. Il rischio è che l’università, da luogo di formazione e sviluppo di un sapere critico, diventi bacino di reclutamento per grandi imprese e strumento di greenwashing.

Le organizzazioni studentesche concordano nel denunciare la presenza di Eni all’interno degli atenei. Secondo un componente di Link Bologna, la presenza dell’azienda “rende la didattica non più libera e di conseguenza anche la ricerca”, e minaccia il sapere critico. La multinazionale, infatti, finanzia anche master e corsi di laurea, e collabora con le università italiane nei programmi dei corsi di Laurea Magistrale sui temi dell’energia. Personalità legate a Eni sono presenti anche nel comitato di indirizzo di alcuni corsi di laurea, un organo che ha funzioni di indirizzo, monitoraggio e valutazione del sistema formativo e di individuazione dei settori di sbocco professionale. 

La multinazionale recluta anche forza lavoro direttamente all’interno degli atenei, per esempio partecipando a career days ed eventi di orientamento. In queste occasioni, Eni si propone con la sua “linea di sostenibilità, senza che ci sia da parte delle università un qualunque filtro critico”, ha spiegato a Greenpeace Italia e ReCommon Emanuele Genovese, membro di Fridays For Future Italia e di End Fossil Roma.

La presenza di Eni nel mondo dell’istruzione non riguarda solo l’università. Nel 2023, Eni era presente attraverso i suoi programmi nel 90 per cento degli istituti secondari superiori italiani, coinvolgendo circa 130 mila classi e 3 milioni di studenti. Questa presenza capillare, secondo Greenpeace e ReCommon, è favorita dai continui tagli delle risorse pubbliche dedicate all’istruzione, che costringono le scuole a cercare fondi presso i privati. In particolare, Eni contribuisce a formare i docenti, soprattutto su temi legati all’ambiente, alla crisi climatica e alla sostenibilità. A partire dal 2020 l’azienda ha organizzato una serie di seminari dedicati agli insegnanti delle scuole secondarie superiori, intitolata “Il futuro non aspetta”. Durante gli incontri sui cambiamenti climatici Eni non ha accennato in alcun modo alla propria responsabilità e a quelle dell’industria fossile in generale.  

Eni si rivolge anche direttamente agli studenti, finanziando visite guidate, tirocini, ma soprattutto offrendo collaborazioni per i percorsi di orientamento al mondo del lavoro. Anche in questo caso, secondo Greenpeace Italia e ReCommon, l’offerta di Eni è volta a ripulire la propria immagine mostrandosi attenta alle necessità degli studenti, ma anche a formare e reclutare forza lavoro per sé e il proprio business. 

Se in Paesi come la Gran Bretagna un numero sempre maggiore di università sta tagliando i legami con l’industria dei combustibili fossili (che resta comunque molto potente) in risposta alle campagne degli studenti, in Italia gli atenei negano l’accesso agli accordi con Eni. Dal canto suo, la multinazionale non sembra avere alcuna intenzione di tirarsi fuori dall’istruzione pubblica.

Nota: L’autrice ha partecipato alla stesura del report di Greenpeace e ReCommon in qualità di giornalista freelance.