I discorsi sull’odierna crisi alimentare mondiale ruotano intorno alla guerra in Ucraina e al blocco delle esportazioni del grano ucraino. Ma il conflitto ha segnato solo il punto di non ritorno di un sistema alimentare globale già al limite. Jennifer Kwao spiega perché le origini della crisi alimentare risiedono nelle strutture dell’economia mondiale. L’Unione europea potrà dare una risposta credibile solo affrontando l’insicurezza alimentare come problema sistemico.

Il primo agosto una nave che trasportava 26527 tonnellate di grano ha lasciato il porto di Odessa diretta in Libano. Questo cinque mesi dopo che l’invasione di Putin ha messo sotto assedio tutti i porti ucraini da cui venivano esportati beni alimentari essenziali. La guerra voluta da Putin ha direttamente bloccato le esportazioni di cereali, girasoli e fertilizzanti da cui ogni mese dipendono milioni di persone nel Sud del mondo. Negli scorsi mesi l’Onu e la Turchia hanno lavorato per trovare dei corridoi sicuri per le esportazioni agricole nel corso di una crisi alimentare che si faceva sempre più grave, finché non si è arrivati a un accordo firmato a Istanbul. Tuttavia, l’inchiostro del documento non ha fatto in tempo ad asciugarsi che la Russia ha lanciato una pioggia di missili sul porto di Odessa.

Dopo aver sabotato questo accordo, che aveva sbloccato circa 20 milioni di tonnellate di grano fermi nei porti ucraini, i russi sono andati in Africa a raccontare la loro versione della storia, che i leader africani si sono bevuti. Non solo il Sud del mondo sta affrontando una crisi umanitaria, ma la loro sicurezza alimentare viene coinvolta in un cinico gioco geopolitico.

La situazione drammatica e la mancanza di una risposta concertata hanno portato l’Onu e la Croce Rossa a lanciare l’allarme, parlando di una catastrofe umanitaria silenziosa. Il loro messaggio è stato chiaro e coerente sin dall’inizio della guerra: questo è solo uno dei tanti choc per la sicurezza alimentare del Sud del mondo. Con una stima di 11 persone che muoiono di fame ogni minuto e la malnutrizione come prospettiva costante per milioni, è ora di considerare più seriamente la crisi alimentare: non come una sfortunata conseguenza della guerra in Ucraina o un’altra disgrazia di terre lontane, ma come il risultato di un sistema alimentare profondamente sbagliato che il Nord del mondo ha contribuito a sviluppare. Per le nazioni europee, questa lente è l’unico modo per prospettare soluzioni credibili e proporsi come partner affidabile in questi tempi di crisi.

L’impatto della guerra in Ucraina

Essendo l’Ucraina tra i principali esportatori globali di grano, orzo, girasoli, mais e concime, l’invasione russa ha fatto precipitare il mondo in una crisi alimentare.

La strategia russa è stata bombardare le industrie chiave dell’economia ucraina e minare il Mar Nero, da cui passa la principale via dell’export ucraino. Oltre a distruggere infrastrutture come porti e strade, che sono fondamentali per il funzionamento dell’export, questo attacco ha portato allo stop della lavorazione dei semi oleosi e del rilascio delle licenze di esportazione. Da febbraio, i traffici commerciali che passavano dal Mar Nero si sono interrotti, provocando un brusco calo delle esportazioni del grano ucraino e facendo sparire dalla circolazione tonnellate di prodotti dal commercio agricolo mondiale. Nonostante gli sforzi per dirottare queste merci passando per Paesi confinanti, su strada o su rotaia, l’Ucraina movimenta solo un terzo dei 4,5 milioni di grano che esportava al mese, e ne lascia 20 milioni di tonnellate ferme nei porti.

I combattimenti hanno comportato enormi problemi all’industria agricola ucraina. Non solo riduce le aree dove si può produrre e conservare il cibo, ma sta anche aggravando la penuria di manodopera per le semine e i raccolti. Con l’inverno alle porte, l’Ucraina prevede già di perdere una parte significativa dei suoi raccolti invernali.

La carenza di offerta generata dalla guerra, sommata alle contromisure prese da aziende e governi, ha contribuito a far lievitare i prezzi di beni alimentari, prodotti agricoli ed energia. Secondo un’analisi dei rischi condotta dalla FAO, questa carenza continuerà a mantenere i prezzi ben al di sopra della media.

La guerra è stato il punto di non ritorno di una crisi alimentare sempre più grave all’interno di un sistema alimentare iniquo.

La ricaduta della guerra sull’energia ha scosso le catene di approvvigionamento di tutto il mondo. Mentre i Paesi africani dipendono meno dai combustibili fossili russi rispetto alle nazioni europee, i prezzi stellari del mercato dell’energia determinano i prezzi nazionali, che di solito fanno da paramento anche per il prezzo dei beni alimentari. Tralasciando la speculazione, le industrie alimentari di ogni parte del mondo hanno una forte dipendenza dai combustibili fossili. Oltre a essere fondamentale per la semina, il raccolto e la lavorazione dei beni alimentari, il petrolio è l’ingrediente principale dei fertilizzanti a cui si affida l’agricoltura industriale. Questa dipendenza fa sì che l’impennata dei prezzi dell’energia morda ovunque lungo le filiere alimentari.

L’alto costo dei fertilizzanti non solo fa aumentare i prezzi dei beni alimentari, ma riduce anche i raccolti di svariate colture. Per gli agricoltori del Sud del mondo, che sono la linfa dei sistemi alimentari, il disequilibrio fra costi di produzione e resa è un disincentivo a seminare nella nuova stagione. Mentre gli agricoltori europei possono contare su un pacchetto aggiuntivo di aiuti da parte dei governi, gli agricoltori del Sud del mondo non possono aspettarsi un sostegno simile dai loro governi, che sono in condizioni peggiori e non riescono a garantire una rete di sicurezza a causa dell’attuale rallentamento economico.

Per i Paesi nel bel mezzo della crisi, quindi, la prospettiva di lungo termine non è rosea: non solo quello che al momento viene prodotto e raccolto è caro, ma anche nel prossimo periodo è probabile che i raccolti si riducano e che i prezzi rimangano alti. Nel frattempo, ci si aspetta che  gli agricoltori europei producano più cereali nel 2022, mentre la Russia prosegue nel vietare le esportazioni di fertilizzanti, pur essendone il principale esportatore. 

Gli alti costi di produzione dissuadono anche i produttori che potrebbero avere la capacità di supplire alla carenza di offerta causata dalla guerra. Se consideriamo le proibitive condizioni meteorologiche in gran parte del mondo e le restrizioni alle esportazioni di beni alimentari introdotte da importanti produttori di grano come l’India, è chiaro che questi soggetti hanno escluso di esportare il proprio stock alimentare, pur avendo incrementato la produzione domestica.

Le esportazioni in tempo di guerra sono un affare costoso. Non solo i produttori ucraini incorrono in costi maggiori perché devono trovare altre rotte per esportare il loro grano o perché i raccolti vanno sprecati, ma chi importa i loro prodotti deve far fronte ai costi assicurativi. E in un Mar Nero minato, tutti gli attori della filiera agroalimentare devono sostenere costi aggiuntivi e imprevisti – spesso per quantità di merci inferiori. Per i Paesi in via si sviluppo è un sovrapprezzo che non possono permettersi di pagare.

Gli aumenti dei prezzi della filiera agroalimentare hanno un effetto a cascata sui mercati, togliendo ai consumatori la disponibilità di beni essenziali. Al momento, i beni alimentari costano il 41 per cento in più rispetto al biennio 2014-2016. Prodotti come carne, zucchero, cereali e latticini registrano i prezzi più alti dal 1961. A livello globale, il prezzo del grano è salito di oltre il 50 per cento e rispetto a un anno fa dell’80 per cento. Un trend simile, anche se con un’impennata dei prezzi meno vertiginosa, si è osservato con il mais: da febbraio i prezzi sul mercato globale sono aumentati del 25-30 per cento.

All’aumento dei prezzi e all’interruzione nella produzione e nell’approvvigionamento di prodotti agroalimentari, si aggiunge il fatto che i governi nazionali hanno tagliato volontariamente le forniture. Da marzo, la Russia ha bloccato le esportazioni di zucchero, semi di colza e semi di girasole. Nei primi quattro mesi di guerra, ha proibito le esportazioni di grano, frumento segalato, segale, orzo, mais e zucchero. Al contrario, l’Ucraina ha bloccato le esportazioni di mais, segale, uova, pollame, olio di semi di girasole e carne bovina per due mesi (da marzo a maggio) e poi ha tolto le restrizioni.

Fra timori di altre carenze, Paesi come India, Algeria e Turchia si sono auto-imposti dei blocchi alle esportazioni agroalimentari. Pur rappresentando una piccola quota del commercio globale di cereali, con questa mossa gli Stati che cercano altrove grandi importazioni di cereali non possono rivolgersi ai partner del Sud del mondo. Nell’Ue, l’Ungheria è stata il solo Paese finora a distinguersi sul fronte delle restrizioni commerciali: fra marzo e maggio ha vietato le esportazioni di cereali e semi di girasole. Nel complesso, proiezioni di una stagione agricola difficile a causa degli eventi meteorologici estremi in Europa e in India riducono le speranze che questi partner possano farsi avanti per colmare la carenza di offerta con il loro surplus.

Chi è più colpito

La guerra in Ucraina ha gettato un’ombra lunga sulla sicurezza alimentare mondiale, ma non tutti sono stati colpiti allo stesso modo. Non solo le nazioni del Sud del mondo sono le più danneggiate, ma le loro popolazioni più vulnerabili sono quelle più a rischio di soffrire la fame. Questo impatto disuguale rimanda a un problema fondamentale di iniquità dei mercati alimentari globali e della sicurezza alimentare.

Nei Paesi del Nord del mondo, le famiglie spendono mediamente per il cibo il 17 per cento del loro reddito, mentre nelle loro controparti nel Sud del mondo questa percentuale tocca addirittura il 40 per cento. Così, mentre nel Nord del mondo l’aumento dei prezzi può significare per i consumatori un leggero cambio nelle abitudini di spesa – o anche nessun cambio, in caso di redditi molto alti – per i consumatori del Sud del mondo vuol dire ritrovarsi di fronte a una scelta impossibile fra sopravvivenza e altre spese. In Nigeria, per esempio, la pasta e il pane costano il 50 per cento in più.

I più duramente colpiti sono i Paesi che avevano una forte dipendenza dalle importazioni alimentari russe e ucraine. Egitto, Indonesia, Pakistan, Bangladesh e Libano erano fra le destinazioni principali dei cereali ucraini. In particolare, i più grandi importatori di grano nel mondo sono nel continente africano: l’Egitto, seguito dall’Algeria e dalla Nigeria. La gran parte dei Paesi africani sono importatori netti di grano. Nell’Africa orientale, un terzo del consumo di cereali è costituito da grano importato prevalentemente da Ucraina e Russia (l’84 per cento, per l’esattezza). In Benin, quasi il 100 per cento delle importazioni di grano viene dalla Russia.

E mentre la logica di mercato del capitalismo vuole passare come progresso e accesso equo al cibo, la verità è che la disponibilità di cibo per milioni di persone è alla mercé di choc esterni le cui devastanti conseguenze sono sotto gli occhi di tutti La situazione è peggiore in quei Paesi che dipendono dagli aiuti stranieri e dalle importazioni alimentari, e contemporaneamente devono lottare contro cambiamento climatico, conflitti e recessione economica. Repubblica democratica del Congo, Afghanistan, Somalia, Etiopia e Yemen sono stati soprannominati “hotspots della fame” e sono fra i più colpiti dalla crisi alimentare.

Purtroppo il Programma alimentare mondiale, che dà da mangiare a 125 milioni di persone, compra il 50 per cento del suo grano dall’Ucraina. La guerra quindi rende inefficace un fondamentale meccanismo anti-crisi che non riesce a rispondere alle necessità delle popolazioni più vulnerabili.

Come siamo arrivati fin qui?

Se per alcuni in Europa la crisi alimentare potrebbe sembrare un fatto improvviso e inaspettato, l’insicurezza alimentare mostrava già un trend al rialzo già nel 2019. Nel 2020 oltre 800 milioni di persone hanno sofferto la fame. Due terzi di questa insicurezza alimentare riguardano l’Africa sub-sahariana, l’India e la Cina. Il Rapporto globale sulle crisi alimentari stima che 193 milioni di persone hanno vissuto una grave crisi alimentare nel 2021, con migliaia di persone morte di fame e altri milioni alle prese con una crisi emergenziale. Perché milioni di persone soffrono la fame in un periodo di relativa pace?

In realtà, “un periodo di relativa pace” è una visione un po’ limitata del mondo prima della guerra in Ucraina. Per molti Paesi il periodo pre-guerra è stata una sequenza di conflitti interni, crisi sanitarie, eventi meteorologici estremi, recessione economica e barriere commerciali che hanno minato la loro sicurezza alimentare. La guerra è stato il punto di non ritorno di una crisi alimentare sempre più grave all’interno di un sistema alimentare iniquo. Conviene allora chiedersi quali sono i fattori chiave della crisi attuale.

Per i consumatori del Sud del mondo, l’aumento dei prezzi vuol dire ritrovarsi di fronte a una scelta impossibile fra sopravvivenza e altre spese.

Lo choc più evidente che ha subito il sistema alimentare negli ultimi anni è stata la pandemia di Covid-19 e la conseguente recessione economica. Mentre il mondo ha chiuso i battenti e milioni di persone hanno cercato riparo dentro casa, l’accesso al cibo è diventato precario ma per motivi che non avevamo previsto. Le analisi più recenti mostrano che se le restrizioni imposte durante la pandemia hanno inciso sulla disponibilità di cibo perché lavorazione, trasporto e commercio dei prodotti sono stati rallentati, il colpo più pesante alla sicurezza alimentare è arrivato dalla perdita di reddito e dall’aumento dei prezzi dei generi alimentari. 

Le restrizioni che hanno chiuso le fabbriche e imposto il coprifuoco hanno significato mancanza di lavoro per tante persone, soprattutto quelle impegnate in settori informali. Niente lavoro vuol dire niente reddito. E niente reddito vuol dire niente cibo. Sono stati particolarmente colpiti coloro che basavano il proprio reddito sul mercato azionario e sulle rimesse estere, perché durante la pandemia queste attività sono state ridotte o interrotte. 

Anche se la recessione economica è cominciata negli epicentri della pandemia (Cina, Europa e Stati Uniti), quasi tutti i Paesi a medio e basso reddito hanno subito delle perdite sotto forma di un deprezzamento della moneta, un aumento dei costi di produzione, un alto tasso di disoccupazione e una minore domanda delle loro esportazioni.

Al tempo stesso, la volatilità dei prezzi dei prodotti alimentari sui mercati internazionali ha reso gli alimenti di base inaccessibili ai consumatori dei Paesi a basso reddito. Dal 2020 al 2021 l’aumento dei prezzi dei beni alimentari sui mercati internazionali ha rappresentato fino al 40 per cento dell’aumento dei prezzi al consumo nei Paesi a reddito più basso. Mentre la pandemia ritardava le consegne e causava l’aumento dei costi dei trasporti internazionali, le valutazioni di dati più recenti mostrano che l’impatto di queste disfunzioni sui prezzi dei beni alimentari è stato marginale rispetto alla ripresa della domanda di grossi mercati come la Cina. Infatti il prezzo di grano, mais e soia è crollato nella prima metà del 2020, ma ha cominciato a risalire non appena in Cina è ripartita la domanda e negli Stati Uniti, in Canada e nell’Ue sono calati i livelli di produzione.

L’iperspeculazione sulle materie prime alimentari ha slegato i prezzi dalla produzione e dal contesto dell’offerta. La finanziarizzazione dei mercati alimentari avvantaggia i pochi commercianti e investitori nel settore cerealicolo che in questi tempi di crisi registrano – e continueranno a registrare per i prossimi due anni – profitti record. Gli agricoltori del Sud del mondo non vedranno mai guadagni simili perché producono ed esportano beni di base e non hanno abbastanza potere per fissare i prezzi.

Nel 2021 la penuria di fertilizzanti ha contribuito all’aumento dei prezzi dei beni alimentari. Questa carenza è stata causata soprattutto dai divieti di esportazione decisi da Paesi come la Cina, che hanno spinto i prezzi fino a un rialzo del 50 per cento prima dello scoppio della guerra. Nonostante l’aggravarsi della crisi alimentare, 15 governi nazionali hanno vietato le esportazioni di beni alimentari, restrizioni che hanno colpito la distribuzione di cereali e oli vegetali. Ad oggi sono 20 i Paesi che hanno divieti di esportazione in vigore.

A partire dal 2020, perdita del potere d’acquisto, recessione economica e aumento dei prezzi dei beni alimentari insieme hanno messo 811 milioni persone in una condizione di insicurezza alimentare. Secondo l’ONU, questo significa che 100 milioni di persone in più rispetto agli anni precedenti e una persona su 10 nel mondo è andata a letto senza aver mangiato a sufficienza nel primo anno della pandemia.

A partire dal 2020, perdita del potere d’acquisto, recessione economica e aumento dei prezzi dei beni alimentari insieme hanno messo 811 milioni persone in una condizione di insicurezza alimentare.

Oltre a questi fattori aggravati dalla pandemia, il Rapporto globale sulle crisi alimentari cita i conflitti/l’insicurezza e gli eventi meteorologici estremi come condizioni principali per lo stato di insicurezza alimentare generalizzata.

Nel 2020, più di 20 Paesi in quasi tutte le regioni del mondo affrontavano instabilità o conflitti violenti, mettendo 139 milioni di persone a livelli di fame critici. Negli ultimi anni, eventi meteorologici estremi sono diventati comuni. In regioni vulnerabili al cambiamento climatico, cicloni e inondazioni causate da piogge torrenziali minacciano di rovinare i raccolti, e persistenti siccità mettono a rischio allevamenti e coltivazioni. In Somalia, Kenya, Madagascar e Afghanistan, per esempio, siccità record hanno tagliato i raccolti di cereali, ucciso bestiame e fatto schizzare i prezzi. Nel 2022 precipitazioni sotto la media nella stagione delle piogge promettono di far protrarre queste condizioni. In Pakistan, dove l’interruzione delle importazioni di cereali dall’Ucraina si è fatta molto sentire, piogge monsoniche e conseguenti alluvioni lampo quest’estate hanno distrutto circa 800.000 ettari di colture, interrotto le catene di approvvigionamento e causato un’impennata dei prezzi.

Questi choc hanno intensità diverse a seconda dei Paesi, ma il quadro globale mostra che i conflitti/l’insicurezza sono il fattore predominante di livelli critici di insicurezza alimentare. In alcuni “hotspots della fame”, questi choc si combinano con un limitato accesso al cibo. Nel Sud Sudan, per esempio, eventi meteorologici estremi, guerra e recessione economica hanno messo 2 milioni di persone in una crisi alimentare emergenziale e ne spingeranno oltre 7 milioni a livelli catastrofici (fino alla morte). Previsioni simili sono state fatte anche per la Somalia, la cui crisi alimentare è causata dalla combinazione di questi fattori.

Passando da un’analisi a breve termine a un’analisi a lungo termine dell’attuale crisi alimentare, è chiaro che la sicurezza alimentare di milioni di persone del Sud del mondo è concentrata nelle mani di pochi attori internazionali e in balia di choc causati dall’uomo, tra cui pandemia, cambiamento climatico, guerre, geopolitica e recessione economica. Proiettarci nel periodo pre-guerra ci aiuta a capire che anche se la guerra finisse oggi stesso, la crisi alimentare continuerebbe.

Il nemico è il sistema

Se non capiamo come sono strutturati i sistemi alimentari e come sono integrati nei mercati mondiali, non riusciamo a capire che la crisi alimentare è più strutturale della guerra in Ucraina o degli altri fattori succitati; deriva da un processo di globalizzazione, mercificazione e finanziarizzazione di lunga data.

Malgrado gli shock subiti dai sistemi alimentari, a livello globale la produzione alimentare è cresciuta. L’Europa ha prodotto oltre 5 volte più cereali dell’Africa nel 2021. Cina e India sono i maggiori produttori di grano e da molto tempo tengono grandi scorte di cereali come strategia di sicurezza alimentare. Solo che queste scorte non raggiungono chi ne ha più bisogno per diversi motivi: sprechi, il fatto che significative quantità vengano usate per dar da mangiare agli animali o produrre carburante, decisioni di mercato basate sul profitto e scelte politiche. In particolare, il 62 per cento dei cereali prodotti in Europa fra il 2018 e il 2019 è servito per il mangime del bestiame.

In un sistema alimentare altamente industrializzato, specializzato e orientato all’export, può capitare che i Paesi del Sud del mondo abbiano alti livelli produttivi, ma in categorie alimentari che non sono essenziali nella dieta della loro popolazione. Vietnam, Perù, Costa d’Avorio e Kenya hanno grandi produzioni di caffè, asparagi, cacao e fiori. L’Egitto, uno dei Paesi più colpiti dai tagli di forniture dall’Ucraina, produce sulla limitata porzione di suolo fertile lungo il Nilo frutti di alto valore destinati prevalentemente alla vendita sul mercato globale.

La sicurezza alimentare di milioni di persone del Sud del mondo è concentrata nelle mani di pochi attori internazionali e in balia di choc causati dall’uomo.

Molti paesi sono stati costretti a concentrarsi su queste categorie produttive e a dipendere dalle importazioni estere del colonialismo occidentale. Le amministrazioni coloniali hanno tolto la terra con la forza alla gente, hanno obbligato le popolazioni a entrare in un’economia basata sul lavoro salariato e hanno introdotto la produzione industriale di colture redditizie, a volte anche di specie invasive. Questo modello garantiva che fosse conveniente dedicarsi a questo tipo di colture su vasta scala per i mercati internazionali.

In Kenya, il Premio Nobel e icona ambientalista, Wangari Maathai, spiega nel suo memoir Unbowed come l’amministrazione coloniale britannica abbia costretto molti a entrare in un’economia basata sul lavoro salariato, con effetti letali, o a convertire i campi che li sfamavano in piantagioni di caffè, tè o legno. Maathai collega anche l’agricoltura commerciale e il disprezzo del colonialismo britannico per le pratiche autoctone ai disastri ambientali e alla malnutrizione che deve fronteggiare il Kenya moderno.

Grazie ad accordi commerciali iniqui, riforme fiscali e politiche di sviluppo, così come all’espansione incontrollata di aziende transnazionali, questi retaggi si sono radicati nei sistemi alimentari, spesso proteggendo interessi e profitti del Nord del mondo a spese della sicurezza alimentare di milioni di persone nel Sud del mondo. È in questo contesto che le aziende alimentari e le imprese cerealicole registrano profitti nel bel mezzo di una crisi alimentare.

Da questo punto di vista, la storia della crisi alimentare è chiaramente la storia di una struttura sbagliata, choc provocati dall’uomo e un cronico problema di distribuzione. Riparare il danno ambientale e i costi umani di questo sistema alimentare globalizzato è la strada da perseguire.

Sconfiggere la crisi alimentare

Annunciando un pacchetto di finanziamenti europei per attenuare la crisi alimentare, il Commissario europeo per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič, ha dichiarato che “milioni di persone sono già colpite dalla siccità e hanno bisogno di assistenza vitale. Inoltre, la dipendenza dalle importazioni ucraine e russe ha già avuto un impatto negativo sulla disponibilità e l’accessibilità del cibo. Dobbiamo agire adesso. La comunità internazionale, i partner umanitari e quelli per lo sviluppo, le autorità e le comunità nazionali devono salvare quante più vite possibile e lavorare insieme in uno sforzo costante per affrontare l’emergenza e costruire più resilienza per il futuro”.

Malgrado il magro finanziamento seguito all’annuncio, ci sono alcuni aspetti positivi. In primo luogo, la Ue si sta dimostrando impegnata a rafforzare la risposta alla crisi e la resilienza dei Paesi partner. Questo è importante alla luce della propaganda russa che distribuisce a tutti tranne che a sé la responsabilità della crisi alimentare. In secondo luogo, dimostra anche che l’Ue guarda alla crisi non solo con le lenti della guerra in Ucraina.

Tuttavia, la complessità della crisi alimentare ha bisogno di risposte che non cominciano e non finiscono con i finanziamenti umanitari. Le storture di un sistema alimentare che nutre fame e malnutrizione non si possono riparare con politiche reazionarie; servono politiche trasformative sia interne che esterne, organizzate attorno all’idea della sovranità alimentare e che chiamino in causa anche il ruolo dell’Europa. Ciò significa rendere la produzione agricola del Sud del mondo indipendente dai fertilizzanti, incentivare le pratiche di produzione rigenerative e la produzione di beni essenziali più vicini possibile al consumatore, dirottare il surplus alimentare del Programma alimentare mondiale, investire nell’adattamento climatico in agricoltura e cancellare il debito di Paesi che in fase di recessione rischiano di fallire perché impossibilitati a rimborsare i prestiti.

Queste politiche rientrano in quella potente cassetta degli attrezzi europea fatta di accordi commerciali, aiuti allo sviluppo e politica agricola interna. Sta all’Unione europea usarla. Alcune dichiarazioni di Jutta Urpilainen, Commissaria ai partenariati internazionali, mostrano che i leader dell’Ue comprendono la sfida e gli strumenti a loro disposizione. Ma è ancora da vedere se verranno davvero intraprese delle azioni commisurate alle dimensioni di questa crisi. Con la Russia che mette in campo la sua propaganda e la “diplomazia del grano” nel Sud del mondo per assicurarsi la propria influenza, l’Ue non può permettersi di rimanere indifferente.