La crisi energetica, lo spostamento dei governi di tanti Paesi verso l’estrema destra e i sempre più frequenti disastri climatici sono legati da un filo comune non immediatamente ovvio: lo sfruttamento coloniale. A margine del festival Ecopolis, abbiamo parlato con il celebre scrittore Amitav Ghosh che ci ha offerto una prospettiva storica sugli eventi globali, dalle inondazioni in Pakistan alla guerra in Ucraina, e sullele future sfide delle forze ambientaliste e progressiste.

Green European Journal: Questo agosto il Pakistan è stato colpito da inondazioni che hanno ucciso oltre 1500 persone e ne hanno lasciato 50 milioni senza casa. Ci vorranno mesi perché l’acqua si ritiri dai terreni. In quanto scrittore indiano che si è occupato spesso dell’impatto del clima nel Sud-est asiatico, cosa ne pensa di queste inondazioni e della risposta globale che ne è seguita?

Amitav Ghosh: Le catastrofi che colpiscono il Sud del mondo difficilmente fanno notizia, ma questa volta l’opinione pubblica non è rimasta indifferente. Forse per le dimensioni del disastro, ma pare abbia davvero colpito le persone di tutto il mondo. È sufficiente? No, credo di no. Considerando la portata dell’evento, sarebbe dovuto finire sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo. 

Era un disastro annunciato  perché ci sono stati dei precedenti importanti, nel 2010 e nel 2012. Dopo l’Antartide, il Pakistan è il Paese che ha più ghiacciai, oltre 700, sul suo territorio. I ghiacciai himalayani si stanno sciogliendo a una velocità impressionante. Lo stesso problema si è verificato in occasione di inondazioni provocate dal collasso di laghi glaciali che hanno devastato interi villaggi in India.

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Il territorio pakistano è particolarmente inadatto a sopportare inondazioni del genere. L’effetto di queste catastrofi – e vale sia per il Nord che per il Sud del mondo – è aggravato dagli interventi sul paesaggio che si sono susseguiti nel corso della storia. Uno dei motivi per cui così tante persone hanno perso la casa dopo queste ultime inondazioni è perché, in epoca coloniale, molti nomadi che si spostavano seguendo i ritmi del fiume sono stati costretti a fermarsi lungo le rive. I sistemi coloniali e moderni improntati allo sviluppo non sopportano il nomadismo di qualunque tipo: vogliono popolazioni stanziali. Le zone dove si sono insediate queste comunità avevano un regime fondiario molto strano perché gli inglesi avevano dato grossi pezzi di terra agli aristocratici del Punjab per assicurarsi il loro appoggio. 

È un altro esempio di quanto gli interventi storici antropogenici stanno aggravando di molto i disastri climatici. Le inondazioni in Pakistan hanno fatto aumentare le richieste di risarcimenti. Vedremo che succederà.

Nel suo libro The Nutmeg’s Curse usa il termine fantascientifico “terraformare” per descrivere come l’impero ha trasformato i territori. Sottovalutiamo quanto il colonialismo ha trasformato la terra e il modo in cui è organizzata e ci si vive?

Assolutamente sì. La parte più terraformata dell’India è il Punjab, dove gli inglesi hanno costruito tanti canali e distribuito enormi quantità di terra. Perché volevano garantirsi l’appoggio dei soldati, mercenari da cui dipesero dopo la grande sollevazione indiana contro il potere coloniale nel 1857.

La terraformazione intensiva fu aggravata dagli interventi della Rivoluzione verde, specie sul versante indiano. Una catastrofe silenziosa si sta dipanando in questa parte dell’India settentrionale. A partire dagli anni Cinquanta del XX secolo, gli agricoltori hanno pompato acqua fossile con elettricità a prezzi agevolati. Oggi la falda acquifera è completamente prosciugata e le forme tradizionali di irrigazione usate prima della costruzione dei canali inglesi sono andate perdute. In questa regione ben presto sarà impossibile coltivare la terra.

Olocausti tardovittoriani di Mike Davies descrive come l’imperialismo britannico ha distrutto tutti gli antichi meccanismi e le istituzioni che in Asia meridionale tenevano sotto controllo le carestie e gestivano lo sfruttamento dell’acqua.

È proprio così. Sono state distrutte in nome dell’ideologia del libero mercato.  In passato, i re indiani si preparavano e rispondevano alle carestie con massicci interventi statali: distribuivano cibo, mettevano da parte approvvigionamenti e così via. Gli inglesi, proprio nel corso delle carestie, si rifiutavano di adottare qualunque provvedimento che interferisse con le leggi del libero mercato. Alle associazioni di beneficenza era vietato intervenire, proprio come succede adesso in America dove la gente non può dar da mangiare ai senzatetto.

Mentre parliamo, l’Europa sta attraversando una profonda crisi energetica mentre le risorse per cui dipende dal resto del mondo non sono più facilmente reperibili a causa della guerra e delle sanzioni e perché le vogliono anche altri Paesi. È l’eredità del colonialismo e dell’estrazione di combustibili che si ritorce contro i Paesi occidentali?

Più guardo il mondo, più vedo usare le pratiche coloniali un tempo inflitte alle popolazioni del mondo colonizzato nelle ex madrepatrie. Per esempio, l’attuale governo britannico sta di nuovo sovvenzionando le aziende di combustibili fossili, facendo gravare sulla gente l’aumento del costo dell’energia. Negli Stati Uniti c’è una misteriosa somiglianza fra la grande diffusione della dipendenza da oppioidi e quello che Inghilterra e Stati Uniti hanno fatto alla Cina nel XIX secolo. Le aziende di Big Pharma che hanno cominciato a prendere di mira i segmenti vulnerabili della popolazione nelle regioni minerarie e industriali si stanno dedicando alle stesse pratiche predatorie delle antiche élite coloniali. In base alla stessa logica ci sono persone considerate sacrificabili. Queste stesse persone porteranno il peso anche del cambiamento climatico. Chi pagherà per le persone rimaste senza casa per colpa della catastrofica alluvione nelle Marche lo scorso settembre? Nelle elezioni italiane se n’è parlato a malapena.

Vedo in Europa una rabbia crescente verso la classe politica. L’abbiamo già visto in Francia qualche anno fa con il movimento dei gilet gialli. Entro la fine dell’inverno credo che vedremo proteste popolari di vario tipo in giro per l’Europa. Purtroppo temo che si manifesteranno secondo modalità che faranno il gioco della destra radicale.

La destra radicale ha vinto sia nelle elezioni svedesi che in quelle italiane. È evidente che viviamo un periodo di crisi e incertezza, ma possiamo stabilire un legame fra la crisi ambientale e la rabbia su cui fanno leva questi partiti?

Certamente. Uno dei fatti più sorprendenti è che adesso, anche con 1,3 gradi di innalzamento della temperatura globale, assistiamo a incredibili sconvolgimenti. Non solo nei sistemi fisici ed economici, ma anche in quelli politici. 

Per secoli la Gran Bretagna si è presentata come il baluardo della stabilità. Chi l’avrebbe mai detto che la Brexit avrebbe avviato una profonda destabilizzazione del Paese nell’arco di quattro o cinque anni? Che cosa ha favorito la Brexit? L’immigrazione, e c’è un nesso chiaro e sempre più rapido fra migrazione e cambiamento climatico. Dal punto di vista demografico, forse non ci sarà stato un grosso numero di immigrati diretti in Gran Bretagna, ma tanto è bastato a generare una sorta di instabilità di fondo. Al punto che molte decisioni prese da un gran numero di inglesi sembrano inspiegabili. Non si riesce a inserirle dentro un normale quadro politico.

Questa instabilità aumenterà, e rafforzerà la destra. La sinistra – e mi riferisco anche ai Verdi – ha deciso qualche tempo fa di spostarsi verso un centro tecnocratico. Da bravi specialisti della politica, hanno cominciato a mettere in mostra le proprie credenziali di politici e amministratori seri. Certo, la serietà in questi campi è imprescindibile. Ma se si abbandona il sentimento politico, c’è un problema. Il pericolo della tecnocrazia è che non si può sfruttare lo scontento generale verso la classe politica perché si viene identificati in toto con la classe politica.

Il pericolo della tecnocrazia è che non si può sfruttare lo scontento generale verso la classe politica perché si viene identificati in toto con la classe politica.

La destra, dall’altro lato, è visceralmente politica. Crea simboli e guida un’instancabile macchina dell’odio attraverso i social media. La sinistra sembra mancare di immaginazione e non riesce a sfruttare l’energia dei giovani attivisti climatici. Cercherà di convincere la gente che tutta la sua scienza politica risolverà i problemi in corso? Sappiamo benissimo che non è così.

Le politiche green hanno le loro radici nei movimenti controculturali degli anni Sessanta e Settanta. Crede che si siano allontanate troppo dall’idealismo per sposare un approccio più pragmatico?

I movimenti degli anni Sessanta e Settanta erano rivolti contro la frenesia di un’industria vista come una bomba a orologeria. Molte di queste preoccupazioni facevano parte dell’immaginario della controcultura. Allen Ginsberg, per esempio, uno dei grandi padrini del movimento hippy, parlava del cambiamento climatico già negli anni Settanta. Ma col passare del tempo i partiti verdi si sono messi la giacca e la cravatta e si sono lavati le mani della controcultura.

Col senno di poi sembra proprio un errore, perché non sono capaci di intercettare l’energia dei giovani. Di recente sono stato in Italia ed Extinction Rebellion e i Fridays for Future sono molto forti nel Paese. La partecipazione dei giovani è molto ampia, ma non riesce a trasformarsi in influenza politica. Il terreno della politica viscerale, anti-establishment è stato occupato dalla destra. È un’ironia, perché quello che sta facendo la destra, e non solo in Italia ma ovunque – in Inghilterra, negli Stati Uniti – è usare il populismo per cedere tutto ai miliardari e alle grandi corporation.

In The Nutmeg’s Curse lei invoca una “politica più vitalistica” che riconosca il valore di tutta la vita sulla Terra e che si opponga a una visione economicistica del mondo. In Nord America e in altre aree del mondo ci sono culture indigene portatrici di visioni diverse della vita. Ma gran parte delle società europee è altamente urbanizzata e industriale, se non post-industriale. Non è più difficile creare una politica vitalistica quando le sue basi, che forse sono esistite per esempio nelle tradizioni contadine, sono andate perdute?

È vero che in Europa c’è una frattura totale fra la vita che conduce la gente oggi e quella, legata alla terra, che conduceva anche solo una generazione fa. Si vede chiaramente soprattutto in Francia. L’Unione europea ha incoraggiato – anche attraverso un sistema di incentivi – questo divorzio perseguendo una politica basata sulla centralizzazione e l’industrializzazione dell’agricoltura, anche se non è un’attività sostenibile, come si è visto con la crisi dell’azoto nei Paesi Bassi. 

In conseguenza di questa frattura, la gente si rende conto che le cose sono andate radicalmente peggio in Europa e nell’Occidente in generale. Esiste una controcultura – prova ne è anche il ritorno di credi religiosi incentrati sulla terra – solo che non ha ancora raggiunto la massa critica. Nell’era della comunicazione istantanea questo potrebbe succedere molto presto e coglierci tutti di sorpresa.

Gli scioperi di Greta Thunberg si sono diffusi in tutto il mondo nel giro di pochissimo tempo,  quindi c’è la possibilità…

Nessuno sa se accadrà, ma credo che la possibilità ci sia, questo è sicuro. Finora sembra quasi che la storia abbia cospirato contro di noi. Il movimento per la salvaguardia del clima stava prendendo forza nel 2019 e ha toccato il suo massimo nel 2020. Poi è intervenuta la pandemia, che ha reso impossibili i raduni collettivi e ha costretto tutti a rintanarsi nel proprio angolino isolato dentro casa. Credo che la considereremo una vera catastrofe storica. Ci ha anche insegnato che gran parte della storia in realtà è contingente o accidentale. Chissà dove sarebbe potuto arrivare il movimento?

Una catastrofe ancora più grande è la guerra in Ucraina. Non solo ha distolto completamente l’attenzione dalla crisi climatica, ma ha anche dato alle industrie dei combustibili fossili una rinnovata voglia di vivere. Da qualunque parte la si guardi, sembra che per ogni passo avanti conquistato a fatica, poi ne facciamo dieci indietro. Se ci saranno storici in futuro, guarderanno a questo periodo come un tempo in cui disgrazie e fattori contingenti hanno costantemente aggravato la crisi.

Sta per tenersi la COP27 in Egitto. L’anno scorso a Glasgow sono state fatte molte belle promesse, ma ora il mondo sembra più diviso che mai. Qual è la sua opinione sullo stato della politica globale sul clima?

Non dobbiamo farci illusioni. Se vediamo quello che succede nel mondo, non possiamo abbandonarci alle fantasticherie. Anche prima di Glasgow, era chiaro che le istituzioni globali si erano essenzialmente disgregate. C’entra molto la pandemia: l’incapacità di organizzare una risposta globale per la distribuzione dei vaccini è la prova della completa frattura che si è aperta nelle istituzioni mondiali.

Tre degli attori principali sulla scena mondiale non si sono presentati alla COP26: Xi Jinping, Vladimir Putin e Jair Bolsonaro. Quest’ultimo si trovava in Italia, sarebbe potuto andare a Glasgow, ma se n’è infischiato e non si è presentato. La COP26 è finita in una specie di parata dell’Anglosfera. Perché solo di questo si è trattato: uno spettacolo. Le promesse fatte sono rimaste ben lungi dal suscitare quel senso di urgenza che tanto è necessario.

Stiamo assistendo a una frammentazione dell’ordine globale in nuovi blocchi di potere. Xi Jinping si è ritirato dall’accordo di cooperazione sul clima con gli Stati Uniti. La Cina e la Russia sono due protagonisti assoluti in questo scenario, ma come ci si può aspettare che Paesi sottoposti a severe sanzioni vogliano cooperare su altri fronti? È irrealistico.

Se dovessimo cercare una speranza, in questo momento possiamo rivolgerci solo ai movimenti giovanili. Non si tratta però di speranza o disperazione. Dobbiamo pensare al problema in termini di ciò che va fatto e che dobbiamo continuare a fare. D’altro canto questo non significa essere ciechi e non vedere la situazione per quella che è.