Le questioni ambientali e sociali sono legate, profondamente. Chi paga il costo economico, sociale e umano del cambiamento climatico? Spesso proprio chi inquina meno e che ha meno risorse per affrontarne le conseguenze. Intervista a Lucas Chancel, economista ed esperto di disuguaglianze climatiche.

Green European Journal: Si sente sempre più spesso parlare di “disuguaglianze climatiche”: come la definirebbe e quali sono gli esempi? 

Lucas Chancel: Chi inquina? Chi subisce maggiormente le conseguenze dell’inquinamento? Chi finanzia gli sforzi di decarbonizzazione e in che modo la transizione ecologica può scontrarsi o addirittura aumentare le disuguaglianze?

Esistono almeno tre tipi di “disuguaglianze climatiche”: in primo luogo, quella dei danni, ovvero un’esposizione disuguale ai danni causati dal cambiamento climatico. Non siamo colpiti individualmente allo stesso modo, così come non lo sono tutti i paesi. E all’interno di ogni paese, la vulnerabilità agli shock climatici è molto variabile: a seconda del tenore di vita, del reddito e della ricchezza.

Poi c’è la disuguaglianza nelle cause: qui vediamo una differenza molto chiara tra paesi ricchi e poveri, così come all’interno di ciascun paese. Ci sono grandi inquinatori nei paesi ricchi e altri molto più “modesti”; viceversa, nei paesi poveri ci sono inquinatori molto importanti che spesso amano nascondersi dietro la moltitudine.

Infine, la terza disuguaglianza è quella relativa alla capacità di azione. Non tutti abbiamo la stessa capacità di agire sulla transizione. Mi riferisco ad azioni come cambiare l’auto, ristrutturare la casa, proteggerla da siccità o inondazioni…  

E, per mettere un numero su queste tre forme di disuguaglianza a livello globale – come che dimostriamo nel nostro ultimo Rapporto sulle disuguaglianze climatiche, con Philippe Both e Tancrède Voituriez – è che la metà del mondo che produce il tasso più basso di emissioni, più o meno le persone le più modeste, è responsabile solo del 12 per cento delle emissioni totali. Sono proprio loro, tuttavia, che dovranno far fronte al 75 per cento dei danni causati dal cambiamento climatico, se misurati con l’indicatore della perdita relativa di reddito. 

Esiste anche una evidente asimmetria in termini di capacità di azione, che si misura sulla capacità di finanziamento basata sulla ricchezza degli individui. In questo caso, sappiamo che il mondo è profondamente  diseguale e a livelli estremamente sorprendenti: il 50 per cento più povero del mondo possiede meno del 3 per cento di tutto ciò che c’è da possedere. Le persone più colpite sono coloro che non solo inquinano meno, ma che hanno meno mezzi e capacità di agire sul problema.

La crisi climatica aumenta le disuguaglianze già esistenti?

Gli impatti del cambiamento climatico hanno già esacerbato le disuguaglianze. Siamo già 1,3°C al di sopra dei livelli pre industrializzazione, e i paesi tropicali e subtropicali sono colpiti più duramente degli altri. Inoltre, all’interno delle stesse società, il cambiamento climatico è uno shock: ondate di calore, inondazioni, aziende che devono chiudere e trasferirsi… Questi shock sono più dannosi per coloro che hanno i redditi più bassi e che non hanno un cuscinetto di sicurezza per riprendersi. In molti paesi poveri, il 40 per cento più povero della popolazione è colpito dagli shock climatici, fino al 70 per cento in più rispetto alla media. Lo vediamo anche nei paesi ricchi: i disastri ambientali non colpiscono allo stesso modo le diverse fasce della popolazione.

Inoltre c’è la diseguale esposizione ai rischi: ad esempio, ci sono quartieri più vicini a zone di inondazione e altri situati sulle colline. E il più delle volte, i quartieri con il minor rischio di inondazioni sono i più antichi e i più eleganti. Non si tratta di un fenomeno sistemico, ma c’è la tendenza a far sì che questi shock abbiano un impatto maggiore su chi ha mezzi più modesti. C’è anche la diseguale vulnerabilità al rischio: non solo si è più esposti, ma si ha anche una casa costruita con materiali meno solidi, ad esempio. O il fatto di non avere beni.

Una delle disuguaglianze fondamentali delle nostre società contemporanee, che si tratti della Francia, dell’Uganda o degli Stati Uniti, è che circa la metà della popolazione non ha beni, e quindi non ha un cuscinetto finanziario per riprendersi da uno shock. Il cambiamento climatico comporta un aumento di questi shock (siccità, inondazioni, incendi boschivi, ecc.) che colpiscono società già diseguali e aggravano queste disuguaglianze.

Ma non è tutto scritto nella pietra, e abbiamo i mezzi per scomporre questi diversi vettori di diffusione della disuguaglianza. C’è una cosa fantastica: la protezione sociale. Con un sistema di protezione sociale forte e un’assicurazione  pubblica, in modo che tutti siano coperti, è possibile abbattere questi canali di diffusione delle disuguaglianze. Questa è davvero una delle sfide del nostro tempo.

I limiti alla crescita, l’invecchiamento della popolazione e i cambiamenti nell’economia globale sono tutti fattori che minacciano la sostenibilità economica dei sistemi di Stato sociale…

Voglio ribadire una cosa essenziale: in termini di ricchezza economica, i nostri paesi non sono mai stati così ricchi. Ma c’è un vero problema di distribuzione. Innanzitutto, tra la ricchezza monopolizzata dal settore privato e quella di proprietà collettiva, dello Stato, degli enti locali o delle organizzazioni non profit. Il problema non è il livello totale della ricchezza, ma chi la possiede. Innanzitutto, per relativizzare l’affermazione secondo la quale non possiamo più finanziare nulla: abbiamo un margine di manovra fenomenale. Possiamo cercare risorse e nuove entrate, in particolare nella ricchezza o nel capitale, che è in gran parte sotto tassato, e questo alla luce del suo peso economico e la sua crescita negli ultimi decenni.

È vero che ci sono questioni fondamentali che riguardano i limiti della crescita e l’invecchiamento della popolazione. I sistemi di protezione sociale creati alla fine della Seconda guerra mondiale sono stati pensati proprio in un mondo in forte crescita. Come possiamo adattarli a un mondo in crescita bassa, se non addirittura di declino?

In primo luogo, abbiamo bisogno di meccanismi di finanziamento che siano meno dipendenti dalla crescita del Pil. Per esempio, se ridistribuiamo maggiormente la ricchezza e tassiamo gli stock (di ricchezza, ovvero i beni) più dei flussi (Pil), scolleghiamo i canali che finanziano la protezione sociale dalla crescita del Pil, ottenendo più fondi dalle grandi fortune e dalla loro trasmissione attraverso l’eredità.

In secondo luogo, dobbiamo considerare tutti i costi indotti del degrado ambientale. Questi potrebbero essere ridotti se migliorassimo le condizioni dell’ambiente. Oggi, gran parte delle malattie croniche sono legate a fattori ambientali: il miglioramento dell’ambiente deve far parte del nostro modo di pensare un quadro sistemico di protezione sociale. Prevenzione e il miglioramento dell’ambiente dovrebbero essere parte integrante delle nostre politiche sanitarie.

Prevenzione e il miglioramento dell‘ambiente dovrebbero essere parte integrante delle nostre politiche sanitarie

In terzo luogo, il costo reale dei danni ambientali è ampiamente sottostimato. Se se ne tenesse maggiormente conto, il costo dell’azione ambientale di conseguenza si ridurrebbe. Un fattore molto costoso è l’inazione delle politiche pubbliche. Prendiamo ad esempio i sussidi ai combustibili fossili, che costano diverse centinaia di miliardi di euro all’anno e mettiamolo in relazione al costo per i sistemi sanitari, che è enorme, in termini di malattie respiratorie, cardiovascolari, ecc.

Le disuguaglianze climatiche possono spiegare alcuni dei conflitti ambientali che stanno emergendo in Europa, come si osserva nei Paesi Bassi, in Francia con i mega-bacini e nel sud della Spagna?

Questi conflitti sono casi locali di lotte ambientali e di disparità di accesso al processo decisionale. E, soprattutto, sembrano riflettere gli interessi di soggetti potenti che hanno accesso al processo decisionale. Si tratta di disuguaglianze ambientali perfettamente descritte dal ricercatore Joan Martinez Alier, che ha mappato queste lotte, mostrando una sorta di internazionale: troviamo tensioni di questo tipo in Francia e in Europa, ma anche contro le dighe in Amazzonia, contro le miniere in Africa, ecc.

La dialettica tra le autorità pubbliche, che giustificano certe decisioni sulla base di  un criterio economico, e gli attivisti che propongono altre forme di legittimità, come la protezione della biodiversità o il rispetto di un processo democratico più ampio, è sempre più visibile. Inoltre, c’è la questione delle procedure nel contesto della transizione ecologica, transizione che non richiede meno democrazia in nome dell’urgenza ma, al contrario, più democrazia.

Uno dei principali strumenti del Green Deal europeo è il sistema di tariffazione del carbonio, che nei prossimi anni verrà esteso anche alle abitazioni e ai trasporti. Dovremmo cercare di risolvere il problema del clima utilizzando queste soluzioni di mercato? 

Di per sé, il carbon pricing può essere uno strumento. Ma gli esperti in materia dicono la stessa cosa da 20 anni: se non c’è una riforma sociale associata alla riforma dei prezzi, ci si puo’ aspettare un’esplosione sociale. In un mondo in cui ci sono già tensioni, società frammentate, individui che hanno difficoltà a spostarsi perché non hanno mezzi pubblici e non hanno la possibilità di acquistare un’auto elettrica, estendere la tariffazione al trasporto individuale può essere estremamente devastante dal punto di vista sociale.

Il problema principale delle politiche tariffarie è la loro cecità nei confronti della questione sociale. E quando si parla di tariffazione, dobbiamo anche considerare  fini e mezzi. La tariffazione è un mezzo per raggiungere un fine, la riduzione delle emissioni di CO2. Ma c’è anche un fine intermedio, che consiste nell’aumentare il differenziale di prezzo tra i beni e i servizi non inquinanti e quelli che inquinano, per spostare i consumatori verso beni e servizi meno inquinanti. La condizione è che siano disponibili beni e servizi meno inquinanti. Se non ci sono alternative, l’effetto sul clima è nullo, e l’effetto sul potere d’acquisto è molto scarso.

Quello che spesso dimentichiamo è che esiste un altro modo per ridurre il divario di prezzo tra ciò che inquina e ciò che non inquina, sovvenzionare ciò che non inquina invece di tassare ciò che inquina. Ancora meglio? Fare entrambe le cose! È quello che stanno facendo gli americani con il loro Green Deal, l’Inflation Reduction Act. Per loro la carbon tax è uno spauracchio: preferiscono andare avanti sovvenzionando massicciamente ciò che non inquina.

Ritiene una soluzione auspicabile imporre tasse sul consumo di anidride carbonica da parte dei singoli individui, colpendo i più ricchi, ad esempio vietando i jet privati?

Ogni tonnellata di CO2 in più conta. Ma l’argomento più importante è che misure di questo tipo danno l’esempio. Stiamo entrando in una fase nella quale tutti quanti dovranno compiere notevoli sforzi per trasformare il proprio stile di vita. Come possiamo ragionevolmente aspettarci che le classi medie e lavoratrici compiano questi sforzi se le persone più ricche e in cima alla scala sociale continuano a inquinare in pochi minuti l’equivalente di un anno di emissioni per la classe media? Storicamente, quando i politici hanno chiesto alle loro popolazioni di fare sforzi considerevoli, hanno chiesto ai più ricchi di fare lo stesso. È una questione di coesione sociale e di contratto sociale. Ora, un nuovo contratto sociale nel contesto della transizione deve chiedere ai “grandi” di fare grandi sforzi.

Non sarebbe compito dell’Ue legiferare su questo tema?

In un mondo in cui i problemi sono globali, la scala più pertinente è sempre la più ampia possibile, ma questo non significa che non si debba partire dal livello nazionale. E questo è spesso il problema. Abbiamo sentito parlare troppo del livello sovranazionale come scusa per l’inazione. Gli Stati membri devono coordinarsi a livello europeo e iniziare ad agire.