Mentre in Italia gli episodi di siccità e le temperature oltre la media diventano sempre più frequenti, la classe politica continua a dimostrarsi poco determinata nell’affrontare le cause della crisi climatica. Questa inerzia ha spinto molti attivisti per il clima a fare ricorso a metodi di protesta più radicali per far sentire la loro voce. In questa conversazione, due membri di Ultima Generazione spiegano alla giornalista Elena Pioli le ragioni e gli obiettivi alla base delle loro azioni di disobbedienza civile, e discutono le minacce legali e gli attacchi mediatici di cui è oggetto il loro movimento.

Nel corso dell’ultimo anno, le azioni di disobbedienza civile non violenta portate avanti dal movimento ambientalista Ultima Generazione hanno diviso l’opinione pubblica italiana. Il movimento, fondato a fine 2021 da un gruppo di attivisti di Extinction Rebellion, è cresciuto esponenzialmente ed è ora del tutto indipendente dal movimento britannico, avendo al suo attivo decine di azioni non violente eseguite in varie città italiane. Le azioni degli attivisti includono il blocco della circolazione stradale o lo spargimento di vernice lavabile su monumenti o edifici pubblici.

Elena Pioli: Nonostante i vostri metodi non violenti, vi trovate spesso a dover far fronte ad aggressioni fisiche e verbali, nonché a organi d’informazione e rappresentanti politici che definiscono le vostre azioni controproducenti o irresponsabili. Come vi preparate a fronteggiare questi attacchi?

Carlotta Muston: Il principio fondatore del nostro movimento è appunto la non violenza, che contrariamente a quanto si potrebbe pensare non è l’antitesi della violenza ma un concetto ben più ampio, un codice etico e morale che cerchiamo di applicare ad ogni aspetto delle nostre vite.

Le nostre azioni sono volte a mettere in luce la violenza del sistema in cui viviamo, ma creano inevitabilmente un conflitto nel momento e nel luogo in cui agiamo: per questo è fondamentale empatizzare con le persone che abbiamo di fronte, con la rabbia e il fastidio che proveranno contro di noi. Cerchiamo di non farle sentire sole nel provare queste emozioni e di fargli comprendere che anche noi siamo arrabbiati all’idea di doverci sedere su un’autostrada perché il nostro governo non sta facendo ciò che deve in merito alla crisi climatica. Non possiamo lasciare, però, che queste sensazioni intacchino la nostra consapevolezza che quello che facciamo è necessario: dobbiamo andare avanti nonostante il disagio che possiamo provare.

Per prepararci alle azioni, intraprendiamo un lungo e continuo percorso di presa di coscienza emotiva e sulla consapevolezza di sé: ci focalizziamo sulle nostre intenzioni e motivazioni, lavoriamo sulla comunicazione non violenta e facciamo simulazioni delle reazioni negative che potremmo ricevere. Estremamente importante è anche il fatto di sentirsi parte di un gruppo: lottare è meno duro sapendo di non essere soli.

Giulio Giuli: Ognuno di noi ha un proprio modo di comportarsi durante le azioni: c’è chi risponde alle provocazioni delle persone, discute con loro, esprime le proprie emozioni, pur se è difficile farsi ascoltare in contesti come questi, in cui i nostri interlocutori sono spesso focalizzati sulla propria rabbia e non propensi all’ascolto. Per quanto mi riguarda, tendo a non arrabbiarmi né ad urlare, mi limito a guardare le persone di fronte a me cercando di fargli capire che condivido il loro disagio. Credo sia importante far capire alle persone che ci importa di loro, che non le stiamo sfidando; la scelta di sederci sul suolo stradale ci pone già di per sé in una posizione di inferiorità. A permetterci di fare quello che facciamo vi è la consapevolezza di fare la cosa giusta, che è anche il principio alla base della disobbedienza civile.

EP: Parlando di reazioni, come si svolge solitamente il dialogo con le forze dell’ordine?

GG: Dipende; a volte gli agenti ci trattano con paternalismo, o cercano di spaventarci dicendoci che potremmo mettere in pericolo altre persone con le nostre azioni. Altre volte, al contrario, percepiamo empatia da parte di quegli esponenti delle forze dell’ordine che sono, a livelli diversi, consapevoli della crisi climatica in atto e che capiscono quindi le nostre motivazioni: in momenti come questi si apre una breccia che possiamo sfruttare per discutere ulteriormente e sensibilizzare anche loro. Un’altra reazione piuttosto comune da parte delle forze dell’ordine è quella di comportarsi da “falsi amici”, fingendo empatia e tentando invece di estrapolare informazioni: alcuni agenti si fingono comprensivi sul momento, salvo poi ritrovarseli in appostamento vicino alle nostre abitazioni, oppure incrociarli nuovamente in commissariato senza che neanche ci degnino di un saluto, come è capitato a me.

Le formazioni a cui partecipiamo riguardano anche questo tipo di situazioni: impariamo come provare a stabilire una connessione con le forze dell’ordine, ricordandoci sempre qual è il loro ruolo ultimo, e a reagire in modo cortese ma fermo quando ci vengono richieste informazioni che non possiamo rivelare.

EP: Passando invece al backlash legale che Ultima Generazione sta subendo, potete darci un’idea di quali sono i costi che vi trovate ad affrontare, in termini economici ma anche di tempo? Quali sono le conseguenze per le persone denunciate e chiamate a rispondere delle azioni in tribunale?

GG: Le principali conseguenze legali sono i processi, gli interrogatori, le riunioni con gli avvocati, che richiedono moltissimo tempo ed energie. Buona parte del nostro lavoro consiste anche nel mantenere e alimentare una banca dati con testimonianze video delle azioni, in modo da poter dimostrare cosa sia successo. Le formazioni legali, dal vivo o online, richiedono meno tempo pur rimanendo essenziali per i nostri attivisti.

Sul piano finanziario, le sanzioni amministrative rappresentano una minaccia pesante. Il governo italiano ha approvato ad aprile un decreto volto a portare a 40 000 euro le multe per imbrattamento di monumenti o edifici pubblici. Di fatto, che si tratti di mille, duemila o quarantamila euro, l’ammontare della sanzione non fa molta differenza se il destinatari o non ha la possibilità di pagarla; può però rappresentare un problema per coloro che dispongono di proprietà immobiliari, anche ereditate, che potrebbero quindi essere sequestrate.

Abbiamo appena cominciato a dover fronteggiare le conseguenze legali delle azioni: al momento abbiamo quattro processi in corso, oltre a un’udienza riguardante la richiesta di sorveglianza speciale. Uno dei processi che dovremo affrontare verterà sull’accusa di associazione a delinquere. È la prima volta che ci troviamo a fronteggiare un’accusa del genere; singolare è anche la scelta della procura di imputare l’associazione a delinquere solo ad alcuni degli attivisti che hanno preso parte alle azioni.

Per sostenere i costi ci appoggiamo a campagne di finanziamento partecipativo, eventi di beneficienza e donazioni da parte di persone benestanti. Parte del nostro budget è già stata spesa per pagare i nostri avvocati, ma con circa ottanta membri del movimento oggetto di denuncia, spesso per più di un reato, le spese legali non faranno che aumentare.

Lottare è meno duro sapendo di non essere soli.

Carlotta Muston

EP: L’accusa di associazione a delinquere e la richiesta di sorveglianza speciale sono indicatori di una risposta sorprendentemente dura ad azioni non violente di disobbedienza civile. Oltre ai membri di Ultima Generazione con competenze legali, ci sono avvocati che vi assistono gratuitamente?

GG: Sì, alcuni di loro lavorano pro bono, ma hanno comunque delle spese che gli vanno rimborsate. Abbiamo la fortuna di avere al nostro fianco alcuni avvocati molto proattivi: uno di loro, in particolare, si sta adoperando per coordinare le strategie difensive di tutti gli avvocati che ci rappresentano, il che è per noi di grandissimo aiuto.

A marzo di quest’anno, centoventi avvocati del Regno Unito hanno firmato una “dichiarazione di coscienza” attraverso cui si rifiutano di sostenere l’accusa nei processi contro gli attivisti e, al contempo, scelgono di non difendere le aziende che inquinano. In Italia la notizia è passata praticamente sotto silenzio, e anche nel Regno Unito non ha avuto grande copertura mediatica, ma il fatto che un gruppo di avvocati si mobiliti a favore di chi vuole proteggere il pianeta è un segnale estremamente importante.

EP: Quali sono gli obiettivi principali della vostra campagna Non paghiamo il fossile?

CM: Solo l’anno scorso, il governo italiano ha speso 41,8 miliardi di euro in SAD (Sussidi Ambientalmente Dannosi). La nostra richiesta è che venga aperta una discussione tra politici, tecnici e scienziati per mettere a punto una strategia a breve, medio e lungo termine: alcuni sussidi, come gli 80 milioni di euro forniti alla ricerca su gas e carbone, o il miliardo investito in fringe benefits, potrebbero essere interrotti immediatamente, e gli stessi fondi usati per fare ricerca su metodi di irrigazione sostenibili, o per migliorare la rete del trasporto pubblico nel sud Italia e nei tanti piccoli comuni che sono rimasti isolati e i cui abitanti non hanno altra scelta che usare le proprie auto per muoversi.

Altri tipi di sussidi richiederanno certamente più tempo per essere sostituiti, ma il vero problema è la mancanza di volontà politica di cessare la nostra dipendenza dai combustibili fossili. Questo è causato, in parte, dalla forte pressione che Eni esercita sulla politica e sui media.

GG: Siamo consapevoli del fatto che “non paghiamo il fossile” non è una formula magica capace di risolvere tutti i nostri problemi: quello che serve è una profonda rivoluzione socio-culturale. Le aziende, così come gli Stati, devono rendersi conto del fatto che il greenwashing non è la soluzione: in Lombardia, per esempio, sono stati fatti enormi investimenti per sostituire i treni a  gasolio con altri a idrogeno, una scelta apparentemente virtuosa se non fosse che l’idrogeno in questione proviene dal metano, che viene in seguito rilasciato nell’atmosfera e, pur avendo una durata minore della Co2, ha un effetto sessanta volte peggiore. Le alternative, per esempio i treni elettrici, esistono; basta saperle vedere.

EP: I media italiani, così come i rappresentanti politici e i personaggi pubblici, mostrano una generale tendenza a sminuire il vostro movimento e a giudicare le vostre azioni sulla forma, invece che concentrarsi sulla natura delle vostre richieste e contribuire alla pubblica consapevolezza sulla crisi climatica. Perché sembra così difficile per coloro che dispongono di potere e privilegi riconoscere l’emergenza in atto e agire di conseguenza?

CM: È una forma di dissonanza cognitiva: le persone sono al corrente della crisi ecologica, ma non riescono a rendersi pienamente conto di cosa significhi e di quanto pesantemente ci colpirà tutti, privilegiati o meno, prima o poi. Questo è dovuto in parte al fatto che per troppo tempo i media tradizionali non ne hanno parlato e, anche quando l’hanno fatto, l’emergenza climatica è sempre stata descritta come qualcosa di astratto, di molto lontano da noi. Non sono stati dati alla popolazione gli strumenti psicologici ed emozionali per capire cosa significhi davvero “collasso ecologico e climatico”.

Quando ho realizzato l’entità della lotta che ci troviamo davanti, ho sentito personalmente la responsabilità di mettermi al servizio di una causa in cui credo, soprattutto dato che ho le capacità e le risorse per farlo. Perché continuare a vivere una vita ipocrita, negando l’evidenza, una volta che si viene a conoscenza di ciò che sta accadendo? Inoltre, non fare nulla significa lasciare noi, attivisti, da soli. Ogni volta che partecipo ad un’azione devo dedicarvi settimane o mesi, mentre se più persone fossero coinvolte avremmo più risorse, più tempo, e l’impegno individuale sarebbe inferiore.

GG: Quando pensiamo alla crisi climatica, siamo portati a credere che “prima o poi qualcuno se ne occuperà”, che i governi ascolteranno l’opinione degli scienziati e agiranno di conseguenza. Quando ho visto le immagini dell’azione di disobbedienza civile di Greta Thunberg davanti al Parlamento svedese, ho capito che il momento di agire era già arrivato. Come Carlotta, ho sentito un senso di responsabilità; una responsabilità che non è obbligo, ma libertà, così come lo è la non violenza.

I mezzi d’informazione, i governi e tutto l’establishment hanno un enorme peso nel plasmare la visione che le persone hanno della realtà. Il progressivo smantellamento del sistema educativo nel corso degli ultimi quarant’anni ha certamente avuto un ruolo importante nella diffusione dell’idea che il capitalismo sia l’unico sistema possibile. La mia speranza è che noi di Ultima Generazione possiamo proporre un esempio diverso, non solo tramite le nostre azioni ma anche nel modo in cui ci organizziamo in quanto comunità basata sull’inclusione, la democrazia, il rispetto per l’individuo; un modello che peraltro esisteva già in altri movimenti, come lo spagnolo Okupa.

L’emergenza climatica è ad uno stadio tale per cui ogni forma di rivolta è legittima.

Giulio Giuli

EP: Durante una delle vostre azioni, in cui avete bloccato la circolazione sul GRA di Roma, uno degli automobilisti ha chiesto ai membri del movimento: «Pensate che adesso India e Cina vi ascoltino?». Questa reazione è emblematica di un modo di pensare diffuso. Come rispondereste?

GG: Le nostre nazioni dovrebbero essere quelle che danno l’esempio e guidano il cambiamento: abbiamo approfittato delle risorse del pianeta, distruggendolo, più a lungo dei Paesi in via di sviluppo, quindi dovremmo anche essere i primi ad abbandonare uno stile di vita tossico basato sull’avere (e il volere) sempre di più. Finché non usciamo da questo modello, che abbiamo esportato all’estero, non possiamo chiedere agli altri Paesi di fare sacrifici. E a dirla tutta, rinunciare al sistema capitalista è tutt’altro che un sacrificio, dato che rinunciando a ciò di cui non abbiamo bisogno ci rende più liberi. A coloro che ci parlano di India e Cina ricorderei che gran parte dei prodotti fabbricati in questi Paesi sono destinati all’Occidente, e all’Europa in particolare: non abbiamo fatto altro che spostare l’inquinamento in un’altra parte del pianeta, ma le conseguenze sull’ambiente sono le stesse.

EP: Ultima Generazione è nata all’interno di Extinction Rebellion, che recentemente ha deciso di rinunciare alla disruption (atti di disturbo pubblico) come metodo di azione principale; ci sono altri movimenti europei con cui siete in contatto e vi confrontate?

CM: Ultima Generazione è parte della rete A22 (così chiamata in seguito alla dichiarazione sottoscritta ad aprile 2022), insieme ad altri movimenti quali Dernière Rénovation in Francia, Letzte Generation in Germania e Renovate in Svizzera. Manteniamo relazioni strette con ognuna di queste organizzazioni, ci supportiamo a vicenda e ci teniamo aggiornati sugli esiti delle rispettive azioni.

Siamo in contatto anche con movimenti italiani al di fuori della rete A22, anche se nel panorama dell’attivismo civile del nostro Paese, caratterizzato dalle marce come forma primaria di protesta, Ultima Generazione rimane per ora l’unica organizzazione con strategie e metodi operativi ben definiti. L’obiettivo ora è conoscerci, nella speranza che altri movimenti (non necessariamente legati alla causa ambientale, ma anche al femminismo, all’antifascismo, ecc.) sposino la disobbedienza civile.

Siamo anche a stretto contatto con i Cobas di Milano, un sindacato che negli anni è stato il più duramente attaccato per la sua volontà di non scendere a compromessi e che al momento è l’unico che continua a battersi contro una precarietà divenuta ormai strutturale.

EP: Una delle critiche che viene mossa più spesso all’attivismo climatico è che i suoi metodi “radicali” siano controproducenti: pensate vi sia il rischio di perdere più potenziali sostenitori di quanti ne guadagniate?

CM: Il nostro scopo non è di far piacere alle persone, ma di puntare i riflettori su una crisi climatica di cui chiunque, che sostenga o meno Ultima Generazione, deve essere al corrente. Chiediamo che vengano prese immediatamente delle misure per assicurare un futuro sicuro al nostro Paese e al pianeta. Il numero dei nostri sostenitori, in crescita lenta ma costante, è la prova che il nostro messaggio sta arrivando a sempre più persone; l’obiettivo finale resta però la diffusione di un attivismo più radicale all’interno di tutti i movimenti ambientalisti.

EP: Cosa direste a chi è ancora indeciso sull’adottare la disobbedienza civile come forma di protesta?

GG: Le altre forme di protesta, ad esempio le marce, hanno certamente un significato, ma niente di ciò che è stato già tentato finora ha funzionato. Ad eccezione delle suffragette, non vi sono molti esempi in Europa di disobbedienza civile, quindi perché non provare a percorrere questa strada?

Non credo, tuttavia, che la disobbedienza civile sia l’unica strategia possibile: non sarei sorpreso se apparissero movimenti ancora più “radicali”, incentrati per esempio sul sabotaggio. L’emergenza climatica è ad uno stadio tale per cui ogni forma di rivolta è legittima. Noi, per le nostre convinzioni, per contesto culturale e per volontà politica, abbiamo scelto la disobbedienza civile.

CM: A livello personale, la non violenza è uno dei miei valori cardine, ma in quanto movimento non abbiamo un attaccamento identitario a una particolare forma di protesta. Sembra, però, che il nostro sia il modo migliore per ottenere dei risultati: nonostante il backlash, le nostre azioni funzionano. Se compaiono sempre più articoli e dibattiti sulla crisi climatica è perché un gruppo di cittadini e cittadine hanno avuto la determinazioni di dire “basta!”. Largo comunque alla creatività: se qualcuno trova un metodo più efficace, saremo più che felici di dare il nostro appoggio.

Intervista condotta online il 13 aprile 2023.