A Manfredonia, la città pugliese che apre al Gargano, la tragedia di colonizzazione culturale e industriale iniziata dal petrolchimico di proprietà dell’EniChem negli anni ‘70 ha segnato questa terra e i suoi abitanti. Ora che il terreno e il mare sono contaminati e la storia della città viene finalmente raccontata, tra la popolazione nascono movimenti democratici di stampo ambientalista che cercano di riprendere il controllo della propria terra e strapparla dallo sfruttamento di mafie e industrie inquinanti.

Nell’autunno dell’88, tra le strade a scacchiera e i condomini della città pugliese di Manfredonia si sparse la voce che una nave carica di rifiuti tossici si stesse dirigendo verso l’area portuale della città. Si mormorava che avrebbe smaltito il suo carico nocivo nel forno inceneritore dello stabilimento petrolchimico dell’ex Anic EniChem, a due chilometri dal centro abitato. Ci volle poco perché a largo del golfo, il vociferare prendesse forma nel profilo sfuocato di una nave in lontananza.

La nave che si scorgeva dalla costa era la Deep Sea Carrier e trasportava 2500 tonnellate di fusti contenenti materiale tossico; dopo essere stata rimandata indietro dalle coste nigeriane, la ‘nave dei veleni’ era stata dirottata verso Manfredonia in linea con i piani di riconversione d’uso del petrolchimico EniChem, i cui processi di produzione di urea, ammoniaca e caprolattame stavano diventando ormai obsoleti.

Monte Sant’Angelo - Panoramica del Golfo di Manfredonia visto dal paese.

Quando la tanto vociferata minaccia della ‘nave dei veleni’ comparve all’orizzonte di Manfredonia, tra la popolazione scoppiò una violenta rivolta. Per quattro giorni le persone protestarono occupando strade e creando barricate. Poi, dalle proteste disordinate e senza direzione nacque qualcosa di diverso: mentre la nave e il suo carico tossico venivano allontanati dal porto di Manfredonia, si crearono comizi di strada, spazi di condivisione e luoghi in cui ritrovare un senso di comunità attraverso l’appartenenza al territorio.

La piazza divenne agorà: sotto lo sguardo fermo della cattedrale di San Lorenzo Maiorano furono tirati su i tendoni e nacquero crocevia di informazione. Tra la tenda delle insegnanti e quella dei pescatori, si iniziò a portare consapevolezza su ciò che stava avvenendo nel golfo di Manfredonia attraverso una condivisione delle informazioni dal basso. Così la popolazione aprì finalmente il coperchio sulla pericolosità del petrolchimico EniChem: un’industria di Stato che, dal ’71, operava alle porte della città per volere di una politica centralizzata d’industrializzazione nazionale.

Dopo il tramonto, sotto i tendoni, si parlava di come i processi produttivi dell’impianto diramassero radici tossiche su terra e mare; si prese consapevolezza del rilascio di arsenico del ‘76 a lungo taciuto alla popolazione; si raccontò del pungente odore di ammoniaca che un giorno di agosto del ‘78 aveva invaso le case della gente e tutta la città era scesa in strada per fuggire dal centro abitato.

Così le narrazioni vive della storia di Manfredonia iniziarono ad acquisire di senso nella coscienza collettiva: raccontavano di una perdita di controllo sulla propria terra, di una colonizzazione industriale calata dall’alto e, infine, di un’ingiustizia ambientale figlia di un’esclusione politica. Una tragedia che racconta anche di altri luoghi e paesi contaminati, come le miniere di lignite a Ptolemaida in Grecia o le città fumanti del Galles in Inghilterra.

Manfredonia, Contrada Pace - Pecore al pascolo accanto alla zona industriale

Pane, pomodoro e polvere sotto le scarpe

Da piccola, Raffaella usava mangiare pane e pomodoro seduta sul terrazzo di casa sua: dal palazzone in prima fila sulla costa in cui abitava con la sua famiglia osservava i confini del mare. Quella domenica mattina del ’76 in cui la torretta dell’urea esplose e dall’impianto EniChem si alzò un boato, aveva 12 anni. Dopo che la colonna bianca di fumo e polvere aveva aperto il cielo in due, Raffella lasciò il suo piatto di pane e pomodoro per scaraventarsi dentro casa e chiamare i genitori. Da certe parti della città, nel lembo di cielo che si intravedeva tra i panni stesi sui balconi, si poteva scorgere la nube giallastra fuoriuscita dalla torretta disperdersi tra terra e mare: si attaccava ai panni stesi, colorava le strade, riempiva la battigia e cadeva sui pezzi di pane e pomodoro di Raffaella.  

L’arsenico è una polvere inodore che si attacca e sposta, ma non scompare. In dosi anche minime, è cancerogeno e viene spesso associato a tumori polmonari, del fegato e dell’intestino.

Quel giorno, almeno dieci tonnellate di arsenico caddero sulla città di Manfredonia. L’anidride arseniosa veniva utilizzata nell’impianto EniChem per il lavaggio del biossido di carbonio nel processo di produzione dell’ammoniaca.

Raffaella e il marito Michele raccontano come per molto tempo nessuno avesse avuto idea della pericolosità di quella polvere: “Giocavamo per strada e l’arsenico si attaccava alle suole delle nostre scarpe, lo portavamo con noi fin dentro le case”. Dopo l’esplosione, l’azienda aveva dichiarato che la nube fosse in realtà solo vapore acqueo e chiamò alcuni operai a bonificare l’area; si racconta di uomini ricoperti di polvere e detriti che si scrollano a mani nude l’arsenico da pelle e abiti alzando un gran polverone.  

Per molti, il ’76 è l’anno zero: segna la storia di Manfredonia e dei suoi abitanti per sempre. Quell’anno il terreno ha cambiato composizione; inizia la spirale di eventi che hanno reso l’area tossica aumentando i tassi di mortalità tumorale e malformazioni congenite tra la popolazione. Per vent’anni, l’attività dell’impianto portò a una serie di fughe tossiche accidentali, come la fuoriuscita di ammoniaca del ’78. Indagini successive evidenziarono anche una gestione indebita di rifiuti e residui industriali per la quale mare e terra furono usati come discariche abusive.

Dei rischi ambientali e per la salute non si fece menzione: una realtà messa in ombra che aveva sottratto ai cittadini la capacità e il diritto di prendere decisioni consapevoli sull’uso della propria terra.

Del periodo in cui il petrolchimico era in funzione, Michele, ultimo discendente di una famiglia di pescatori, rammenta una strana alga verde e filamentosa che dice essere comparsa nei fondali a largo di Manfredonia in quegli anni. La sovrabbondanza di alghe è un sintomo tipico dell’eutrofizzazione, il segno del degradarsi di un eco-sistema acquatico tipicamente causato dall’immissione di detersivi e altre sostanze chimiche. “Ne tiravamo su moltissima con le nostre reti. Non avevo mai visto niente di simile: si sfilacciava tra le mani come lanuggine… quando l’impianto ha chiuso nel ‘94, l’alga è scomparsa”.

Ma la vera comprensione del ruolo che il petrolchimico stava avendo sulla salute dei cittadini e dell’ambiente si manifestò lentamente, e solo negli anni successivi alle proteste dell’88-89. Ci si rese conto troppo tardi che i tanti casi di neoplasie polmonari e di malattie cardiovascolari, soprattutto tra gli operai dell’impianto, erano il sintomo di un quadro epidemiologico endemico. Mentre la popolazione si ammalava sempre più, la truffa del petrolchimico, venduto agli abitanti come cura alla cronica depressione economica della città, diventava sempre più evidente.

Il ricatto

Dal ‘76 della fuga d’arsenico all’88 delle proteste e i tendoni in piazza, passarono dodici anni. Dodici anni in cui “la popolazione aveva ingoiato la fabbrica, per la fame di lavoro”. Ma la storia di Manfredonia è anche storia d’Italia: quando nel 1971 l’impianto venne messo in funzione, erano gli anni del miracolo industriale italiano e della politica nazionale di industrializzazione. Alla popolazione non fu data la possibilità di scelta perché il piano industriale venne presentato come il simbolo di un riscatto economico; dei rischi ambientali e per la salute non si fece menzione: una realtà messa in ombra che aveva sottratto ai cittadini la capacità e il diritto di prendere decisioni consapevoli sull’uso della propria terra.

Manfredonia, Porto - Michele Conoscitore (Pescatore) espone le problematiche dell’ambiente marino.

“Come molte storie di ingiustizia ambientale, l’arrivo del petrolchimico era stato frutto di un’esclusione democratica: la narrazione fu quella di una grande fabbrica che arrivava in una terra fragile, di miseria e migrazione; e così era stato accettato”, racconta la ricercatrice Giulia Malavasi che si è occupata della ricostruzione storica degli eventi all’interno dell’indagine epidemiologica del 2015 condotta dall’Università di Pisa e commissionata dal Comune di Manfredonia. “Il petrolchimico era stato calato dall’alto nella misura in cui non erano state date informazioni sulla sua pericolosità: vi era stato nel 1970 un episodio di lotta popolare contro una centrale elettrica dell’ENEL alimentata a nafta; la consapevolezza che il golfo di Manfredonia si sarebbe riempito di petroliere, scatenò una grande protesta cittadina”. Il petrolchimico, invece, fu una scelta negata: la popolazione non reagì alla creazione dell’impianto per la mancanza di informazioni e per quello stesso ricatto occupazionale che per tanti anni assicurò all’EniChem l’indulgenza popolare. “La popolazione si vide negata la propria capacità decisionale sul territorio in favore di industrie impattanti e inquinanti le cui promesse di sviluppo economico rimanevano discutibili”.

Quando i dubbi sul petrolchimico iniziarono a circolare, era la fine degli anni ’80. A quel punto l’impianto aveva già modificato l’organismo socioeconomico del paese: fratturò la natura dell’economia locale allontanandola da pesca e allevamento, mentre per la prima volta la città di Manfredonia assistette alla nascita di un fronte operaio. Lo scollamento tra la concezione che operai e attivisti del movimento avevano dell’industria creò profonde spaccature nel tessuto sociale di Manfredonia. All’inizio, anche alcuni operai presero parte ai moti di protesta dell’88-89, ma quando all’interno del movimento si iniziò a chiedere la chiusura dell’impianto, le file operaie si sfaldarono. Molti vedevano nei posti di lavoro creati dal petrolchimico una forma di sicurezza; ma alla fine dei conti, il miracolo economico che era stato promesso non si realizzò: quando la fabbrica chiuse nel ’94 perché obsoleta, gli abitanti del golfo rimasero senza lavoro e con una terra tossica che li avvelenava di giorno in giorno.

Fuoco contro le istituzioni

All’età di 25 anni, una giovane insegnante di lettere saliva su una nave che dalla Sardegna l’avrebbe condotta nel ‘Continente’, l’Italia degli anni ‘70. Abbandonava l’isola della sua infanzia, i litorali frastagliati e i pascoli montani, per vivere col marito nel Gargano pugliese. Dieci anni dopo, nel mezzo della piazza Papa Giovanni XXIII, Rosa Porcu è una delle tante donne in prima linea in quell’88 e ‘89 di proteste che furono all’origine del movimento cittadino per la riconquista del golfo di Manfredonia.

Mi parla di quegli anni come di un movimento di presa di coscienza non solo cittadina, ma anche femminile: tramanda le gesta di donne che mobilitandosi escono dai ruoli tradizionali di un paese del sud Italia negli anni ’80. Al tempo delle proteste, Rosa aveva 35 anni e insegnava alle scuole superiori. Faceva parte, assieme ad altre compagne del movimento dell’88, di un laboratorio di ricerca sulla libertà e autorità femminile. L’esistenza di un pensiero già organizzato permise al movimento ambientalista ‘Donne di Manfredonia’ di assumere un carattere precursore nella storia d’Italia: la ricercatrice Malavasi traccia una linea di congiunzione diretta con altri movimenti femminili più recenti, come le proteste delle madri della terra dei fuochi in Campania, dove tra Napoli e Caserta la terra brucia per i rifiuti tossici, e quelle delle madri del Rione Tamburi di Taranto, il quartiere più vicino alle emissioni di diossina dell’industria siderurgica ex-Ilva.

Manfredonia - Foto storiche (diMimmo Guerra): sotto, movimento cittadino “Donne di Manfredonia” in corteo contro le linee di condotta dell’EniChem. Sopra: foto di festeggiamenti durante le proteste.

A Manfredonia le donne diventano soggetto politico interclassista e collettivo, chiarisce Malavasi. Nei racconti di Rosa, a scendere in piazza erano donne di tutte le età e classi sociali: dalla casalinga all’insegnante, si passavano di mano in mano dei pezzi di carta stampata contenenti estratti su cui intavolare discussioni. Rosa me lo spiega come “un movimento di sapere”.

Per Malavasi, la lotta ambientale dell’88-89 diventa a tutti gli effetti lotta democratica quando si inizia per la prima volta a far circolare informazioni sul petrolchimico. Con la condivisione del sapere, la popolazione prende consapevolezza della collusione delle istituzioni: “il movimento nasce contro una politica compromissoria e da una sfiducia totale nelle istituzioni; decidiamo così di creare un laboratorio di politica ‘altra’”. Rosa parla di un giro di compromessi e accordi esteso a tutto il sistema istituzionale locale: “la capitaneria di porto, il comune, la ASL; tutti avevano fatto dei compromessi al ribasso totale con quel mostro là, il petrolchimico”.

Malavasi mi spiega le ragioni per cui a Manfredonia, ancora oggi, si parla di tradimento delle istituzioni: perché l’impianto è stato messo sotto la giurisdizione del comune di Monte Sant’Angelo che, posto sulle montagne a quasi 17 chilometri di distanza, non ha mai avuto alcun interesse pratico nel gestire la situazione; perché nel corso degli anni ‘80, per otto anni l’EniChem ha sversato in mare i suoi rifiuti industriali per concessione ministeriale; perché nell’89 una commissione di indagine parlamentare ha esposto la completa mancanza di controlli sulle emissioni dell’impianto da parte delle autorità locali; perché dopo la chiusura del petrolchimico nel ’94, la svendita del contratto d’area ha portato a nove re-industrializzazioni altamente inquinanti nella zona.

Manfredonia, zona industriale - torre in disuso dell’ex EnicChem.

Ma dinanzi ai voltafaccia delle istituzioni era divampato un nuovo incendio democratico tra la popolazione. Per due anni la cittadinanza si mobilitò, radunandosi in serpenti interminabili lungo le strade per il petrolchimico. Mentre Pino, agitatore di folle e tecnico delle telecomunicazioni dall’anima sociale, schizzava da una parte all’altra della città consumando plichi e plichi di volantini e gridando dentro grossi altoparlanti, le donne di Manfredonia salirono su un pullman e portarono la protesta a Roma, di fronte alle parlamentari di Palazzo Montecitorio. Con in mano 3000 firme, andarono anche a Strasburgo per presentare alla Corte europea dei diritti dell’uomo l’ingiustizia subita dalla città nel lontano ‘76.

Poi un giorno, alle cinque di mattina, la polizia sbaraccò i tendoni dalla piazza e la protesta rallentò il suo procedere. Anche quando nel ‘98 la sentenza della Corte europea di Strasburgo condannò l’Italia per violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea sul diritto di informazione, la notizia passò quasi in sordina. Oggi, quasi vent’anni dopo la chiusura dell’impianto, i cittadini di Manfredonia hanno in eredità un’area da bonificare e un terreno contaminato; ma il retaggio culturale di quell’88-89 di proteste continua a bruciare tra la cittadinanza nonostante il muro di gomma delle istituzioni.   

Manfredonia - Foto storiche (di Mimmo Guerra): a sinistra la marcia di protesta verso il complesso EniChem, a destra una foto dell’impianto ora demolito.

Eredità

Dove prima sorgeva l’ex impianto EniChem, oggi restano erbacce e le sagome sbiancate delle fondamenta su cui non cresce niente. Ma sotto quelle basse lastre di cemento ed erba, si nascondono ancora i rifiuti chimici raccolti dalle prime parziali bonifiche dell’eco-disastro del ‘76. Malavasi mi spiega che là sotto sono stati sotterrati i resti d’arsenico e i capi di bestiame abbattuti; oggi si ha il dubbio che bidoni e bidoni di scarti industriali possano ancora essere sottoterra.

Solo quattrocento metri dividono la zona industriale e il quartiere di Monticchio, al margine nord-est della città. Dal 1998, il perimetro è stato dichiarato Sito di Interesse Nazionale per decreto ministeriale: la zona industriale di Manfredonia rientra quindi tra quei 40 luoghi in Italia definiti come potenzialmente contaminati e in attesa di bonifica. Da anni la cittadinanza cerca di portare l’attenzione delle istituzioni sulla pericolosità dell’area. Rosa Porcu e le altre compagne del movimento sono ancora in prima linea per il completamento del processo di bonifica; insieme hanno fondato Bianca Lancia, l’eredità del gruppo “Donne di Manfredonia” di fine anni ’80. Sono storia viva della città: mantengono l’attenzione sulle tragedie del passato e promuovono un passaggio intergenerazionale della memoria collettiva. 

Il sociologo Silvio Cavicchia mi parla di una lotta, quella iniziata in quel lontano ’88, che non è solo mobilitazione di massa, ma anche movimento comportamentale di coscienze individuali: “la coscienza ambientale è un patrimonio vivo tra gli abitanti di Manfredonia: si è visto quando la popolazione è scesa in piazza contro i più recenti tentativi di abuso industriale”. Nel 2016, quando la popolazione fu portata alle urne per votare in un referendum consultivo per la realizzazione di un deposito costiero di stoccaggio di gas della società Energas S.p.a., quasi il 96% dei votanti si è espresso contro la creazione dello stabilimento. Intanto, il dibattito sulle questioni ambientali del Gargano si è riacceso. Mentre la cittadinanza si preparava al referendum, le discussioni sull’impianto Energas hanno riaperto vecchie ferite e avvicinato anche i più giovani alla storia della città. Così nel 2019, sulla scia delle mobilitazioni globali del ‘Fridays For Future’, anche i ragazzi di Manfredonia sono scesi in piazza: per le strade hanno indossato una maschera con stampato il volto di Nicola Lovecchio, ex operaio del petrolchimico che nel 1996, affiancato dal medico-oncologo Maurizio Portaluri, presentò denuncia in procura contro l’azienda per averlo esposto a fughe d’arsenico che ne avrebbero causato il tumore ai polmoni. Lovecchio morì nel 1997, ma il processo andò avanti; solo che qualche anno dopo, il ricorso fu respinto. La storia di Lovecchio è vissuta dalla cittadinanza come l’ennesimo tradimento delle istituzioni: un’ingiustizia giudiziaria che ha reso l’ex operaio un simbolo delle questioni irrisolte della città.  

Manfredonia - Vista sul quartiere di Cava Gramaziocostruito sulla ex cava omonima

Intanto anche nel porto si diffonde una nuova morale ambientale. Un gruppo di pescatori collabora con Legambiente per combattere l’inquinamento marino: mi parlano dei rifiuti che riempiono i fondali, delle microplastiche nei pesci e della miriade di nasse degli allevamenti di cozze che affogano il mare. A Legambiente affidano le tartarughe marine che vengono catturate accidentalmente nelle reti della pesca a strascico: con il loro aiuto, l’associazione salva in media 150 tartarughe l’anno.

Eppure, ci si chiede ancora cosa sia andato storto: perché la coscienza collettiva non ha avuto la capacità e potenzialità di costruire una nuova classe dirigente nel territorio, e perché le terre del Gargano sono ancora dilaniate da interessi mafiosi e speculazioni industriali? La condanna del movimento di coscienze è che quel patrimonio di consapevolezza ambientale non riesce a penetrare nelle strutture di potere locale: così gruppi dirigenti e istituzioni rimangono in un gioco a somma zero contro la cittadinanza.    

Silvio mi parla di strutture di potere nepotistiche e clientelismo che sono ormai endemici nelle istituzioni e che impediscono il penetrare della coscienza ambientale nelle file istituzionali: “così si lascia spazio alle infiltrazioni mafiose”. Il ruolo giocato dalla mano mafiosa nella vicenda EniChem e negli usi impropri delle aree industriali è ancora poco discusso: “nessuno ne parla, nessuno ne ha voluto sapere niente, neanche il prefetto o i commissari hanno voluto spiegare pubblicamente quello che è successo e che sta succedendo. Eppure, esistono malloppi e malloppi di documenti che hanno accertato queste infiltrazioni mafiose”. Dalle tante minacce e macchine bruciate durante le proteste dell’88 si è imparato che gli interessi ambientali sono in diretta antitesi con gli interessi della criminalità organizzata. Poi nell’ottobre del 2019 gli arti infetti delle istituzioni sono andati in cancrena: le intercettazioni hanno confermato i legami delle amministrazioni con la malavita, così la giunta comunale è stata sciolta per associazione mafiosa.

Dalle tante minacce e macchine bruciate durante le proteste dell’88 si è imparato che gli interessi ambientali sono in diretta antitesi con gli interessi della criminalità organizzata.

Ora che Manfredonia si sta preparando per le nuove elezioni comunali, ci si chiede se finalmente la nuova classe dirigente assimilerà quella coscienza ambientale che vive nella cittadinanza: “stanno nascendo gruppi e gruppuscoli in preparazione alle elezioni a settembre, ma non mostrano nessun tipo di ragionamento su quale sia la loro visione futura della città, a partire dalla vicenda EniChem”; Silvio è preoccupato che il sistema di potere su base familiare si radichi ancora di più nel territorio, cancellando la coscienza ambientale nella popolazione. C’è sfiducia verso le istituzioni e si parla della morte dei partiti come di una perdita d’orientamento politico per la comunità: senza una direzionalità che incanali gli sforzi, l’entità collettiva rischia di disperdere le sue energie. Così in una terra senza punti cardinali, le roccaforti in cui la collettività resiste, come scuole o parrocchie locali, possono offrire nuove possibilità d’orientamento sociale e politico.

Manfredonia, Golfo - Giovanni Furii (Legambiente) libera in mare una tartaruga marina salvata da una cattura accidentale.

Omelie pagane

Nella zona più periferica di Manfredonia, alle spalle della spiaggia di Siponto, Don Salvatore Miscio esercita nella parrocchia Sacra Famiglia, una struttura moderna fatta di pilastri di cemento e riadattata a chiesa di quartiere. Sono in tanti a venire a messa: è una zona piccola ma densamente popolata per via dei molti palazzoni condominiali affollati di famiglie. Don Salvatore è una figura pacata che fa da perno alla comunità locale. Assieme all’Arcivescovo della diocesi di Manfredonia, Padre Franco Moscone, ha dato inizio al movimento ‘Manfredonia rialzati’: sfruttando la capillarità della chiesa nella regione, hanno creato uno spazio di discussione per una democrazia di prossimità.

“È un movimento dal basso che, attraverso le parrocchie dislocate su tutto il territorio del Gargano, cerca di mobilitare quartiere per quartiere e affrontare la questione della cittadinanza attiva in maniera che si formi una coscienza nuova rispetto alla res publica. La speranza è che i futuri amministratori debbano tener conto di una coscienza popolare che vigila e guida”. Don Salvatore guarda al movimento come a una possibile cura per tutte quelle esperienze storico-culturali che hanno radicato omertà e clientelismo politico su territorio e istituzioni: “Queste terre hanno vissuto all’ombra del ricco investitore che viene a regalare il lavoro senza stimolare l’imprenditorialità e la capacità economica del territorio. Ora viviamo imbrigliati in una certa cultura paternalistica di chi si attende dagli altri la soluzione ai problemi”.

L’Arcivescovo Padre Franco Moscone mi racconta come da più di quarant’anni la chiesa sia intervenuta nella zona di Manfredonia nei momenti di crisi: “La chiesa ha una funzione educativa che va oltre il mandato ecclesiale”. Non è della zona, ma quando è stato assegnato alla diocesi sul Gargano nel 2018 si è subito accordo delle ferite sociali e politiche della regione. Nell’agosto del 2019, il vescovo fece il suo primo discorso ufficiale alla comunità, in chiusura alla festività patronale: dopo che la processione popolare per la Madonna di Siponto si era assiepata di fronte a piazza Duomo, Padre Franco aveva detto “Manfredonia, rialzati!”. Al tempo, l’amministrazione della città si era dimessa, ma non era ancora stata sciolta per collusione mafiosa. “Ho voluto lanciare un messaggio: da questa situazione si può uscire fuori, ma solo se la cittadinanza stessa ne prende coscienza, denuncia il malaffare e si assume la responsabilità di costruire una nuova classe dirigente”.

Manfredonia, Parrocchia Sacra Famiglia -L’Arcivescovo Franco Mosconenella cappella interna della parrocchia.

All’interno del movimento, Padre Franco e Don Salvatore hanno iniziato a parlare con la popolazione dei baratri sociali e politici del Gargano, come la questione delle bonifiche dell’ex EniChem e la collusione mafiosa delle amministrazioni. Don Salvatore spiega che La ‘quarta mafia’ pugliese è un organismo che si nutre del disinteresse sociale e “della paura che questi meccanismi criminali siano incontrovertibili”; il ruolo del movimento è anche quello di resistere alla formazione di una cultura mafiosa per cui i clan malavitosi sono sentiti dal popolo come più vicini rispetto allo Stato.

In molte regioni del sud Italia, la cristianità è ancora molto sentita e i luoghi di culto diventano spesso spazi in cui la comunità si organizza ed esprime nella sua dimensione collettiva. Chiese e scuole sono spazi di incontro importanti per la responsabilizzazione comune; ma con le porte chiuse dalla pandemia, la mancanza di luoghi di aggregazione rischia di inceppare le dinamiche collettive e favorire il processo di atomizzazione della società, costruendo muri tra individui e comunità.

Anche i movimenti ambientali sono forze centripete che recuperano il senso d’appartenenza e spingono la collettività a rivendicare il controllo sul proprio territorio. A Manfredonia, la faccenda irrisolta della bonifica e le lotte contro le nuove industrializzazioni rallentano il futuro della città ed espongono le criticità di un sistema sociale che la cittadinanza fatica a estirpare. Dopotutto, le lotte ambientali rappresentano forme di affrancamento di una popolazione dai termini storico-culturali di sfruttamento economico del territorio. Per il Gargano, creare un tipo di economia locale sostenibile vuol dire riprendere il controllo della propria terra e strapparla dallo sfruttamento di mafie e industrie inquinanti.

La questione ambientale di Manfredonia è prima di tutto un problema politico e sociale: nasce dalla cultura mafiosa dell’omertà, dal disinteresse per il bene pubblico e da una politica clientelistica e lassista. In un contesto in cui le forme istituzionali di potere sono resistenti al cambiamento, la società civile di Manfredonia ha sviluppato nuove forme di democrazia di prossimità che cercano di combattere le stratificazioni e rigidità culturali che da decenni avvelenano le terre del Gargano. Nella strada verso la ricerca di giustizia ambientale, la popolazione di Manfredonia si è trovata a confrontarsi con questioni intrinseche alla propria comunità che andavano ben oltre la voragine ambientale generata dalla vicenda EniChem: dall’emancipazione di un gruppo di donne nella Puglia di fine anni ’80 a una rivendicazione democratica di matrice popolare che continua fino ad oggi.

Un dipanarsi di trame umane che ci racconta di come, storicamente, anche in luoghi e tempi diversi, le storie di ingiustizia ambientale discendano prima di tutto da questioni di esclusione democratica: a Manfredonia iniziò tutto con la deprivazione politica di una popolazione forzata a rinunciare al controllo sulla propria terra in funzione di una logica invalidante di profitto e sfruttamento; poi, la figura di una nave carica di veleni all’orizzonte sollevò un nuovo fronte popolare di lotta democratica in città, una marcia di coscienze in difesa di terra e vita che si è tramandata fino ad oggi.