Il ritorno dell’inflazione nelle economie europee ha innescato un furioso dibattito sulle sue cause. La crisi energetica e la guerra in Ucraina hanno aggravato la situazione, ma tutti sono concordi nel ritenere che non spiegano ogni cosa. In questa serie di “Dibattiti sull’inflazione”, tre articoli prospettano pareri diversi sulle cause dell’aumento dei prezzi e su quello che si dovrebbe fare in proposito. Queste questioni non sono di pertinenza esclusiva degli economisti: sono importanti a livello politico. In un decennio cruciale per il futuro del mondo, spiegare e capire bene l’attuale ingarbugliata situazione economica non è mai stato così importante.

In questo articolo, Jonathan Marie e Virginie Monvoisin sostengono che sebbene l’idea che gli aumenti delle retribuzioni spingano i prezzi al rialzo sia un timore comune, l’elemento chiave dell’inflazione è la vulnerabilità dell’Europa nei confronti degli shock globali che, insieme alle basse retribuzioni, acutizzano la crisi del costo della vita.

L’inflazione è alta. Gli Stati Uniti hanno reso noto un tasso annuo dell’8 per cento nel mese di agosto del 2022, mentre l’Eurozona, nel settembre 2022, ha visto una media del 10. La media europea nasconde differenze significative tra gli stati membri. Il tasso francese del 6,2 per cento è il più basso dell’Eurozona, mentre nei Paesi Baltici l’inflazione è arrivata al 20 per cento. Di conseguenza, la Federal Reserve degli Stati Uniti e la Banca Centrale Europea stanno aumentando i tassi di interesse, accettando il rischio di maggiore disoccupazione pur di abbassare l’inflazione.

L’alta inflazione riduce il potere d’acquisto di chi percepisce redditi che non aumentano di pari passo con i prezzi. Comprenderne il meccanismo è di fondamentale importanza per calibrare risposte opportune; il ritorno dell’inflazione non ha cancellato la necessità di una transizione verde, servizi pubblici e riduzione delle disuguaglianze.

La “minaccia” dell’inflazione è lo spauracchio preferito degli economisti conservatori e neoliberali. Lesti a mettersi in moto per l’inflazione, considerano come questione centrale e primaria proteggere i risparmiatori e le grandi ricchezze, preparando quindi il terreno a politiche di austerità. Questa visione, però, fallisce nell’individuare le vere motivazioni dietro agli aumenti dei prezzi.

Non è stata la crescita degli stipendi a determinare l’attuale livello di inflazione, bensì l’eccessiva dipendenza dalla globalizzazione. Le rotture e i rallentamenti delle supply chains a causa della pandemia, la crisi energetica aggravata dalla guerra in Ucraina, le speculazioni su vasta scala e i prezzi in aumento delle spedizioni hanno provocato drastici aumenti di spesa per molte aziende. I rincari dei prezzi al dettaglio mostrano che questi costi ricadono poi sui consumatori, permettendo alle aziende di mantenere, o addirittura aumentare, i loro margini di profitto. Quando questi aumentano, automaticamente la quota degli stipendi si riduce. Nell’Eurozona, Eurostat calcola che nel 2023 il calo passerà dal 57,6 al 54,6 per cento del Pil, il livello più basso da quando è nato l’euro. Evitare che le retribuzioni nominali aumentino nel nome della battaglia contro l’inflazione significa accettare e incoraggiare questo trend. Le diminuzioni delle quote di salario sono sostenute da una serie di fattori: politiche economiche europee restrittive, coperture in calo dei sindacati dei lavoratori, vari effetti della competitività internazionale sui mercati del lavoro (leggi del lavoro più deboli, livelli più alti di disoccupazione, contratti a breve termine), e il prevalere di grandi multinazionali in taluni settori.

La lotta all’inflazione va a braccetto con la transizione verde

In una situazione di questo tipo, aumentare i tassi di interesse per combattere l’inflazione rischia di infliggere seri danni economici, riducendo l’attività economica e aumentando la disoccupazione. Occorrerebbe una recessione terribile per abbassare l’inflazione. Va detto che i governi stanno adottando provvedimenti d’emergenza per tenere a freno il costo della vita in aumento. Questi aiuti, tuttavia, sono del tutto insufficienti per i più vulnerabili. Spesso agevolano chiunque, senza ridurre le disuguaglianze e senza promuovere cambiamenti di comportamento (come si è visto nel caso dei sussidi per i carburanti). Inoltre, queste politiche basate sui sussidi non dureranno: gli appelli al rigore di budget avranno la meglio sulle misure eccezionali.

Si rende necessaria un’alternativa. Piuttosto che prendere di mira l’inflazione alla cieca, con politiche monetarie restrittive, dobbiamo rivedere la gerarchia degli obiettivi di politica economica. L’attuale crisi del costo della vita, che arriva nella scia di una crisi sanitaria che ha evidenziato l’importanza dei lavoratori in prima linea, segnala la necessità di riequilibrare la struttura dei salari. Infatti, l’inflazione non può essere compresa senza analizzare l’equilibrio dei poteri tra lavoratori e datori di lavoro. Quando gli equilibri sono sovvertiti a discapito dei lavoratori, i salari ricevono un valore aggiunto relativo inferiore rispetto al ritorno del capitale. È precisamente quello che accade in Europa fin dagli anni Ottanta. Gli effetti dannosi dell’inflazione sui salari reali possono dunque essere controbilanciati dall’indicizzazione – un meccanismo usato in passato da molti Paesi europei. L’indicizzazione si renderà quanto mai necessaria se l’inflazione persiste, soprattutto se consideriamo che la quota dei salari si sta contraendo da anni. Le grandi aziende, in particolare quelle che operano nel settore dei trasporti e dell’energia, si sono trovate nella posizione di trarre benefici dall’attuale inflazione. Stando così le cose, si dovrebbero attuare controlli dei prezzi dove è necessario e per tutto il tempo che sarà necessario, e si dovrebbero tassare maggiormente i profitti in eccesso. Andando avanti, le economie europee dovranno diventare meno vulnerabili agli shock globali, i veri motori trainanti dell’inflazione. Questo obiettivo richiede una minore dipendenza dalle importazioni – in particolare quelle energetiche – e maggiori investimenti nei trasporti, nell’innovazione e in agricoltura, così come politiche che sostengano il commercio. La lotta all’inflazione va a braccetto con la transizione verde. Abbassare i salari non è la risposta giusta.

Tradotto in collaborazione con la Heinrich Böll Stiftung Parigi, Francia