Domenica 16 giugno 2013, tra le ore 14 e le 15, per la prima volta il prezzo di acquisto dell’elettricità sull’intero territorio italiano (PUN: prezzo unico nazionale) è sceso a zero. In altre parole, la domanda di elettricità registrata in quell’ora è stata coperta al 100% da fonti rinnovabili. Un’ora storica, dunque, in una data altrettanto storica, sia per il sistema energetico italiano, sia per la bolletta dei consumatori (in alcune aree del paese in passato il PUN era già stato azzerato, ma mai, prima del 16 giugno, questo record aveva riguardato tutta l’Italia).

Sicuramente la  giornata completamente soleggiata e ventilata e le riserve ottimali nei bacini idroelettrici hanno dato una mano. Ma sulla dimensione e le performance della potenza rinnovabile installata nel territorio nazionale ci dice molto di più il dato consolidato sulla produzione di elettricità da fonti pulite: nel 2013 ha soddisfatto quasi un terzo (esattamente il 32,9%) della domanda di elettricità e circa il 15% dei consumi energetici complessivi.

Un’ulteriore conferma del cammino percorso dal sistema energetico italiano nella transizione all’era post-fossile viene dalla classifica europea che fotografa la potenza rinnovabile installata nel 2013: per il fotovoltaico con 17.647 MW (pari a 0,2941 kw/abitanti) l’Italia risulta seconda dietro solo alla Germania (con 32.411 MW totali e 0,3932 kw/abitanti); mentre per l’eolico con 8.650 MW è quarta dopo Germania (31.424 MW), Spagna (22.784) e Regno Unito (8.889); solo nel settore del solare termico appare staccata dai primi nel rapporto installato/abitanti: con 3.365.750 metri quadrati installati e un rapporto di 0,06 mq/abitanti l’Italia si piazza alle spalle di Austria (4.108,338 metri quadrati installati e un rapporto di 0,49), Grecia (rispettivamente 4.119.200 e 0,36), Germania (16.049.000 e 0,19) e Danimarca (682.345 e 0,12) (fonte: rapporto di LegambienteComuni rinnovabili 2014). Inoltre, in tutti gli 8054 comuni italiani è in funzione almeno un impianto – elettrico o termico – alimentato da fonti rinnovabili, per un totale di oltre 700mila installazioni. Uno scenario che descrive concretamente  l’avvento della generazione diffusa nell’ambito del sistema energetico italiano, fino a un recente  passato basato esclusivamente sugli oligopoli e le mega centrali alimentate da fonti fossili. E sebbene nell’ultimo triennio le politiche governative degli incentivi tariffari si siano caratterizzate per un  andamento sussultorio, con ripercussioni negative sul mercato degli investitori esteri e sull’industria di settore italiana, il risultato della transizione ad un sistema energetico low carbon resta di tutto rispetto: nonostante la contrazione della nuova potenza installata, nel 2013l’Italia ha superato il “muro” delle 100 TWh di elettricità prodotte da fonti rinnovabili, toccando per la prima volta l’”Everest” delle 104 TWh.

Questo incremento trova puntuale corrispondenza nella dotazione energetica dei comuni italiani: non solo, come si è detto, il 100% degli 8054 comuni ospita sul proprio territorio almeno un impianto alimentato da fonti rinnovabili, ma cresce anche, toccando quota 29, il numero dei comuni già rinnovabili al 100%, ovvero completamente autosufficienti dal punto di vista della copertura dei fabbisogni sia di elettricità sia di calore grazie all’impiego delle sole fonti rinnovabili: dal solare fotovoltaico (FV) al solare termico, dalle biomasse (a filiera corta), alla geotermia (a bassa entalpia), dal mini-idroelettrico e all’eolico, escludendo, quindi, nel computo di Legambiente,  i comuni il cui fabbisogno energetico è coperto in parte anche da impianti geotermici ad alta entalpia e dai grandi bacini idroelettrici. Criteri di selezione rigidi che riducono i potenziali candidati alla medaglia d’oro dei comuni rinnovabili al 100%.

Tornando ai magnifici 29 energeticamente autosufficienti, sono presenti in maggior parte nella provincia autonoma di Bolzano (20) e, a seguire, in quella di Trento (4), di Aosta e Sondrio (2 per ciascuna), di Udine (1). Sono poi ben 2629, distribuiti dal nord a sul dell’Italia, i comuni autosufficienti solo dal punto di vista elettrico, ossia che producono più elettricità di quanta ne consumano. Tra quelli di maggiori dimensioni spiccano Cuneo, che con un mix di cinque fonti rinnovabili (fotovoltaico, mini-idro, geotermia, biogas e biomassa) copre il 100% del fabbisogno elettrico dei residenti; Foggia, che soddisfa la domanda elettrica delle famiglie con 3 tecnologie (FV, eolico e biogas); Terni che raggiunge questo risultato con 5 tecnologie (FV, mini-idro, biogas, biomassa, bioliquidi); infine, nell’estremo sud, Lecce che arriva all’autosufficienza con FV ed eolico.

Tutte buone  notizie, visto che la transizione all’era post-fossile piuttosto che un optional va considerata  una strada obbligata. E per più di una ragione. Insieme ai fattori ambientali che impongono di ridurre le emissioni di gas serra, ci sono motivi economici (il raggiungimento del peak-oil) e geo-politici (l’intensificarsi dell’instabilità delle regioni da cui l’Italia importa gas metano e greggio, o di quelle attraversate da gasdotti, che ha portato in primo piano – a danno delle stesse tematiche ambientali – il problema della “sicurezza energetica” intesa oramai come sicurezza degli approvvigionamenti).  Infine, per un paese come l’Italia – che nel 2012 ha pagato una bolletta energetica record di 64 miliardi di euro, scesa poi a 56 e a 51 miliardi rispettivamente nel 2013 e nel 2014 causa la diminuzione dei consumi e il calo del costo del greggio, ma pur sempre salata – il passaggio ad un sistema energetico low-carbon va perseguito anche per obiettivi squisitamente di bilancio.

A spingere l verso la transizione energetica sono anche i vincoli europei, vecchi e nuovi. Se l’Italia ha centrato da un lato gli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 eq che si era data sottoscrivendo il Protocollo di Kyoto, ed è in dirittura d’arrivo per rispettare anche quelli del “Pacchetto Clima-energia  20,20,20” dell’Unione Europea, dall’altro deve ora attrezzarsi per rispondere ai nuovi target della Ue al 2030 fissati dal Consiglio europeo il 24 ottobre scorso – ossia meno 40% di emissioni di CO2, più 27% di consumi energetici finali coperti da rinnovabili, con un più 27% di efficienza energetica non ancora vincolante. Obiettivi che gli ambientalisti di Green Italia hanno definito deludenti sia in funzione della lotta ai cambiamenti climatici, sia della leadership europea nei  settori industriali di riferimento, sia, infine, del rilancio in chiave di sostenibilità ambientale e sociale dell’economia e dell’occupazione, visto che la strategia energetica incrocia anche i destini di un auspicato Green New Deal europeo.  Né l’Europa, dopo avere guidato la transizione all’era post-fossile sottoscrivendo il Protocollo di Kyoto e approvando il pacchetto “Clima-energia 20, 20, 20”, che hanno contribuito ad aumentare la percentuale  di consumi energetici finali nella Ue coperti dalle rinnovabili (passati dall’8,5% del 2005 al 14,4% del 2012, con la previsione di superare agevolmente il 20% al 2020), può rinunciare  alla leadership che si è conquistata come battistrada nel cammino verso la de-carbonizzazione del sistema energetico, pena la perdita di posizioni sul terreno dell’innovazione tecnologica a vantaggio di Cina e Usa, che stanno investendo massicciamente in questi settori.

Tornando all’Italia, il completamento della transizione all’era post-fossile non sarà indolore né per i grandi produttori di energia italiani, Eni ed Enel in testa, che hanno investito enormi capitali in mega centrali a turbogas, nei rigassificatori, nell’impiantistica collegata, né per l’indotto di settore. Secondo Gianni Silvestrini, esperto di lungo corso di risparmio energetico e di energie rinnovabili, nonché autore del recente libro “2 gradi”, l’Italia deve programmare una fase di transizione finalizzata a ridurre la dipendenza dall’import di gas naturale accelerando, sul fronte della domanda, l’introduzione di pompe di calore ad alta efficienza, caldaie a biomassa e solare termico, e favorendo la diffusione delle rinnovabili elettriche, in particolare del fotovoltaico, ormai avviato alla cosiddetta grid parity e a reggersi senza incentivi; e infine deve lanciare il biometano (ottenuto da scarti agroindustriali, discariche, mega allevamenti, depuratori), che in altri paesi europei è già realtà mentre in Italia è fermo al palo per mancanza di normativa.

Sempre sul fronte della domanda, Silvestrini sottolinea l’importante contributo che può venire dalla riqualificazione energetica degli edifici: con un taglio annuale dei consumi dell’1,5% nel settore civile, in dieci anni si arriverebbe a risparmiare l’equivalente di oltre un terzo (8 miliardi di metri cubi) dell’importazione di gas metano dalla Russia (pari a 22 miliardi di metri cubi).  E si ridarebbe fiato al settore dell’edilizia, particolarmente bastonato oggi dalla crisi economica, creando occasioni di lavoro che per di più non incrementano il consumo di nuovo suolo vergine. A rinnovata conferma che le ragioni dell’ambiente vanno più che mai a braccetto con quelle dell’economia.

In questo contesto i comuni italiani possono fungere da motore verde della transizione: attraverso lo strumento dei piani energetici locali e opportune politiche in materia, ad esempio, di illuminazione pubblica, mobilità, uso del territorio, riduzione/riciclo/gestione dei rifiuti, riqualificazione energetica possono incidere, in maniera diffusa sul territorio nazionale, sulle emissioni climalteranti nei settori civile-residenziale e della mobilità, oltre a favorire, con gli acquisti verdi della Pubblica Amministrazione, i settori della green economy. Ed è quindi un’altra buona notizia che con 3069 adesioni l’Italia guidi la classifica europea dei comuni che hanno aderito al Patto dei Sindaci, assumendo l’impegno di ridurre le emissioni di CO2 al 2020 oltre il 20% del target europeo.