Per i sostenitori della democrazia deliberativa, i regimi rappresentativi di oggi non son altro che illusioni. La vera democrazia significa potere del popolo, e raggiungerla richiede un pensiero fuori dagli schemi. Abbiamo discusso con la teorica politica Hélène Landemore della sua proposta di alternativa di democrazia aperta e di come questa funzionerebbe, a livello locale, europeo e globale. Le assemblee dei cittadini in Francia e Irlanda offrono lezioni preziose: dopo eventi della portata della Brexit o della pandemia (che espandono gli orizzonti del possibile) non c’è momento migliore che il presente per il pensiero utopico.

Green European Journal: Il voto, le elezioni e i parlamenti sono universalmente considerati simboli di democrazia. Ma, all’interno del più ampio dibattito sulla crisi della democrazia, lei sostiene che il problema è il sistema stesso della democrazia rappresentativa. Può spiegare?

Hélène Landemore: Può essere d’aiuto ripercorrere la storia dei regimi rappresentativi in Europa. Questi hanno origine in quello che gli storici chiamano “governo rappresentativo”: governi in cui la legge è fatta da legislatori eletti. Queste forme di governo hanno cominciato ad essere chiamate democrazie solo a partire più o meno dal 1830 negli Stati Uniti e in Francia, e dal 1870 in Gran Bretagna. Ma la realtà è che furono concepite come un’alternativa alla democrazia tanto quanto alla monarchia. Per i loro fondatori, la democrazia significava “governo della folla”: era caotica ed eccessivamente diretta. La paura del “popolo” ha caratterizzato le democrazie rappresentative fin dall’inizio. Sì, erano costruite su principi di sovranità popolare e consenso, ma questo non è sufficiente per definirle come democrazie. Il processo legislativo nel quotidiano è portato avanti da aristocrazie elette in un sistema che vede i migliori e più virtuosi al timone, mentre il popolo è un sovrano silenzioso che, occasionalmente, annuisce da lontano.

Nel corso del Diciannovesimo e Ventesimo secolo, il diritto di voto è stato progressivamente ampliato per includere uomini di estrazioni sociali più basse (“non-propertied men” nell’originale, ndt) i neri e le donne. Il principio “una persona, un voto” ci ha permesso di credere vivere in democrazia, ma si tratta ancora e solo della “democratizzazione del diritto di scegliere” i nostri governanti. Il popolo non arriva mai a governare veramente. La democrazia, il potere del popolo, riguarda l’esercizio del potere, non solo il consenso a questo. Si tratta di deliberare, plasmare l’agenda e decidere noi stessi i risultati.

Quindi il problema della democrazia rappresentativa è che esclude le persone comuni dal potere?

Il modello è fondamentalmente difettoso. Dà troppo potere a troppo poche persone per definizione, non per errore o per caso. Anche se il problema del denaro in politica fosse risolto, il sistema selezionerebbe comunque i rappresentanti in modo non sufficientemente democratico e non riuscirebbe a sfruttare la diversità e la conoscenza di un più grande pubblico. Questo sistema disincentiva la maggior parte delle persone a informarsi correttamente e a votare in modo consapevole perché, alla fine, saranno comunque altri a fare tutto il lavoro.

La soluzione è il decentramento delle istituzioni elettorali. Anche in circostanze ideali — una società perfettamente egualitaria — le elezioni si basano sulla scelta umana, che è intrinsecamente orientata verso certi tratti: carisma, posizione sociale, altezza, e così via. Le elezioni bloccano sistematicamente l’accesso al potere a persone che sono troppo ordinarie o timide per farsi avanti di fronte ad altri. Nessun rinnovo periodico dei rappresentanti eletti può cambiare questo dato fondamentale.

A partire da quello che lei descrive come un sistema chiuso, chiede un cambio di paradigma per il Ventunesimo secolo: la democrazia aperta. Cos’è la democrazia aperta?

La democrazia aperta è un sistema in cui il potere è equamente distribuito o, almeno, equamente accessibile, ai cittadini comuni. Tutti hanno la possibilità di esercitare direttamente il potere legislativo, ovvero definire le leggi che governano noi stessi e gli altri. Non tutti contemporaneamente, ma rappresentando ed essendo rappresentati, ciascuno a turno. L’organo base in una democrazia aperta dovrebbe essere un “mini-pubblico” aperto: si tratta di un grande organo formato da cittadini che si riuniscono per stabilire l’agenda politica e fare le leggi.

Questo organo dovrebbe essere formato secondo una selezione casuale di cittadini: questo meccanismo permetterebbe di distribuire equamente la possibilità di partecipazione da un lato, e riprodurrebbe la diversità del gruppo nel suo insieme dall’altro.

Questo “mini-pubblico” dovrebbe essere in relazione con la sfera pubblica nel suo insieme, essere ricettivo ai suoi input, e capace di portare avanti uno scambio deliberativo. Se questo dibattito, invece, restasse segreto e chiuso, riprodurrebbe i problemi del vecchio sistema.

Ci sono cinque principi istituzionali che guidano l’idea di una democrazia aperta. Prima di tutto, ci sono i diritti di partecipazione, cioè i diritti che mettono il potere nelle mani dei cittadini. Questo significa il diritto di voto, ma anche la capacità (con un numero abbastanza elevato firme) di poter mettere all’ordine del giorno di questa assemblea, il cosiddetto “mini-pubblico” (un’iniziativa popolare) o di rivedere una legge impopolare (il diritto di rinvio).

In secondo luogo, la deliberazione. Secondo la teoria della “democrazia deliberativa”, le leggi sono legittime solo nella misura in cui passano attraverso uno scambio deliberativo di argomenti tra cittadini liberi e uguali. La deliberazione dà alle persone una voce e la possibilità di essere d’accordo o meno con una legge, contribuendo a prendere decisioni migliori grazie all’intelligenza collettiva.

Terzo, la regola della maggioranza. Quando non c’è consenso, l’unico modo democratico per raggiungere una decisione è quello di usare il maggior numero di persone che sono d’accordo.

Quarto, la rappresentanza democratica. Le strutture rappresentative sono necessarie perché non sappiamo come deliberare in milioni di persone, e non possiamo sempre prendere decisioni in massa. La democrazia aperta è strutturata intorno alla rappresentanza democratica attraverso la selezione casuale o la rappresentanza auto-selezionata, entrambe le quali permettono pari opportunità di partecipazione.

Infine, la trasparenza. Qualsiasi sistema politico può tendere alla chiusura e alla formazione di gruppi ristretti. Come meccanismo essenziale di responsabilità, la trasparenza impedisce appunto questo, permettendo alle persone di vedere cosa fanno coloro che li rappresentano in loro nome.

Come sarebbe, nella pratica, una democrazia aperta? Non si tratta di abolire tutte le istituzioni elette, ma alcune di esse, le camere alte come i senati: potrebbero essere sostituite da assemblee selezionate in maniera aleatoria. Altre riforme dovrebbero poi mirare a rendere i nostri sistemi più partecipativi, deliberativi, maggioritari e trasparenti. La democrazia aperta è un programma di riforma costituzionale.

Quindi si tratterebbe di un graduale cambio di paradigma in cui democrazia rappresentativa e aperta coesistono man mano che ci muoviamo verso l’apertura?

Non immagino nessun tipo di rivoluzione. Le rivoluzioni in generale non sono una cosa buona, sono rischiose. Il modo più probabile di procedere è una coabitazione temporanea tra democrazia elettorale e democrazia aperta fino a che quest’ultima diventi sempre più centrale. Si tratterebbe di un sistema ibrido che dura per un periodo, che potrebbe essere instabile o fallire. Ma potrebbe anche portare a nuovi e imprevedibili equilibri istituzionali più favorevoli agli interessi dei cittadini comuni. In diversi paesi, lo spostamento di potere sta già avvenendo.

Prendiamo la Convenzione dei cittadini sul clima in Francia. All’inizio, era un organismo completamente sconosciuto di 150 cittadini scelti a caso con il compito di fare proposte per ridurre le emissioni di gas serra in uno spirito di giustizia sociale. A poco a poco, le persone coinvolte hanno acquisito potere, organizzando incontri locali, e la voce ha cominciato a diffondersi. Il Presidente francese ha incontrato la Convenzione a metà del lavoro e verso la fine ministri e parlamentari si sono impegnati pubblicamente sulle sue proposte. Nel giro di un anno, la Convenzione è diventata un nuovo attore politico nel sistema francese.

Come si colloca la Convenzione rispetto alle altre istituzioni politiche francesi?

L’equilibrio è ancora fragile. Inizialmente, la legittimità della Convenzione proveniva principalmente, (ma non esclusivamente), dalla “volontà del principe”, il Presidente Macron. A seguito delle proteste dei gilets jaunes del novembre 2018, nel 2019 è stato organizzato un “Grande dibattito nazionale” in tutta la Francia. Durante questo dibattito, 12 delle 18 assemblee regionali scelte su base aleatoria si sono trovate d’accordo sull’idea che sia necessaria una nuova forma di governance democratica sulle questioni climatiche e ambientali.

Il Presidente Macron ha promesso che le raccomandazioni della Convenzione sarebbero passate “senza alcun filtro”: direttamente in un regolamento, un dibattito parlamentare o un referendum. Il Parlamento, già in disparte nel regime iper-presidenziale francese, ha sentito che la sua prerogativa di legiferare veniva ulteriormente minata e ha messo in discussione la legittimità della Convenzione. Alcuni parlamentari l’hanno persino definita “antidemocratica”. Questo ha sollevato la domanda: chi ha il diritto di legiferare sulle questioni climatiche? La legittimità della Camera eletta è entrata in conflitto con la fragile legittimità di questo gruppo di 150 persone che nessuno ha scelto. Direi che la Convenzione, essendo scelta a caso, può pretendere di essere più democraticamente rappresentativa. Può anche rivendicare una legittimità procedurale perché è stata autorizzata dal Presidente. Ma in un sistema in cui la legittimità è associata alle elezioni, le proposte della Convenzione probabilmente avrebbero piena legittimità solo se fossero approvate dai cittadini francesi in un referendum. E potrebbe ancora accadere, nel caso di una proposta di emendamento costituzionale, per esempio. Meglio ancora, però, sarebbe un momento costituzionale in cui l’istituzionalizzazione del ricorso alla selezione casuale sia discussa e sottoposta a referendum.

Per molti, la Convenzione è stata una delusione perché alcune proposte — come la ristrutturazione profonda obbligatoria degli edifici entro il 2040 — non sono state accolte. Non è rischioso dire ai cittadini “decidete voi cosa deve essere fatto” e poi ignorare le parti della risposta che non ti piacciono?

Il caso francese è un esempio recente e promettente di come potrebbe essere una democrazia aperta, ma non è l’ideale. In pratica, il vecchio sistema cercherà di cooptare le innovazioni democratiche per mantenere le cose esattamente come sono. Ricorda la famosa frase di Tommasi di Lampedusa: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.

È allettante per coloro che occupano posizioni di potere usare esperimenti partecipativi per legittimare il sistema, lasciando inalterata la struttura di potere decisionale esistente. È una forma di “participation-washing” con cui il potere cerca di riguadagnare legittimità in un periodo di crisi, dando l’impressione di ascoltare i cittadini. Si tratta di una mossa molto pericolosa perché la tacita, o a volte esplicita, promessa di poter avere impatto che si accompagna alla partecipazione democratica non può rimanere disattesa per molto tempo: rischia di gettare le persone frustrate nelle braccia dell’estrema destra. Nonostante non sia stato un esercizio ben progettato e abbia avuto un impatto minimo rispetto all’agire del Governo, il Grande Dibattito nazionale ha prodotto un momento di pace sociale dopo le proteste dei gilets jaunes e ha migliorato temporaneamente la popolarità di Macron. Le persone sono disposte a dare una possibilità agli esperimenti partecipativi, ma non si può deluderle ripetutamente.

Ci sono posti dove le cose hanno funzionato?

L’Irlanda si è mossa progressivamente verso una maggiore partecipazione, provando prima un’assemblea dei cittadini pilota e poi un formato ibrido. Nel 2012 c’è stata un’assemblea sull’uguaglianza del matrimonio che era composta da 66 cittadini selezionati e 33 politici, più un presidente. Per diversi mesi, politici e semplici cittadini hanno lavorato insieme. I politici si sono riconciliati con il processo e, dopo l’approvazione dell’uguaglianza matrimoniale nel 2015, hanno deciso di tenere un’altra assemblea dei cittadini sulla depenalizzazione dell’aborto. In questa, 99 cittadini sono stati scelti a caso. Invece di vedere questa assemblea come una minaccia, come alcuni membri del Parlamento francese hanno visto la Convenzione sul clima, i parlamentari e i politici irlandesi l’hanno vista come un’opportunità. Il referendum che depenalizza l’aborto alla fine è passato nel 2018 con il 66,4% di approvazione.

La democrazia deliberativa è spesso criticata perché si concentra sulla riorganizzazione dei cosidetto “mobilio istituzionale”. L’essenza della democrazia non risiede forse nella società? È nei sindacati, nella stampa, nei movimenti sociali, nei partiti politici… non nelle procedure e nei sistemi di voto.

Le associazioni che formano la società civile sono essenziali. Sono il software della democrazia. Ma l’hardware della democrazia, che per me consiste nelle istituzioni che strutturano il potere politico, è cruciale perché modella gli incentivi. La democrazia aperta riguarda un insieme di principi istituzionali che, una volta implementati, formano strutture che possono ospitare questa ricca ecologia di gruppi e movimenti sociali. Le nostre democrazie dovrebbero essere strutturate per essere il più aperte e porose possibile, in modo che i movimenti sociali possano entrare, occupare lo spazio ed esprimersi.

Movimenti come Black Lives Matter sono certamente riusciti a plasmare l’agenda nonostante una politica elettorale poco rappresentativa, ma guardate il costo di fare le cose in questo modo. Sullo stesso tono: quanti gilets jaunes dovevano essere gravemente feriti nelle proteste perché il governo decidesse di ascoltare? Piuttosto che avere movimenti sociali che irrompono nella democrazia spaccando le cose, dovremmo rendere la democrazia aperta fin dall’inizio e invitare la gente ad entrare. Si tratta di una progettazione preventiva: se si costruisce una fortezza, le persone devono scalare i muri e rompere le finestre per entrare e far sentire la loro voce ed avere un peso, e certamente le cose brutte accadranno ai margini del processo. Se costruisci uno spazio accogliente, dove le persone sanno che saranno ascoltate, rispettate e prese sul serio, i dati cambiano completamente.

C’è un parallelo con il sindacalismo. Non è raro vedere sindacalisti francesi che si ribellano e scendono in piazza, ma questo non accade in Germania, perché strutturalmente hanno voce in capitolo.

Penso che la democrazia aperta non debba essere applicata solo al Governo della politica, ma anche al governo delle imprese. Invece di un conflitto tra padroni e lavoratori, con i sindacati che combattono dall’esterno per così dire, è meglio avere qualcosa di più vicino al modello tedesco che concede ai lavoratori un potere strutturale. Possono influenzare le decisioni aziendali e strategiche non solo ad hoc o perché hanno abbastanza forza per fare pressione in una particolare congiuntura, ma perché hanno un posto ufficiale e permanente al tavolo con rappresentanti nel Consiglio di amministrazione.

Per tornare al clima, la portata della crisi ecologica richiede questo tipo di processo aperto perché una società democratica possa davvero raccogliere questa sfida?

Non sono sicura che sia tanto la portata del fenomeno quanto il fatto che il clima sia attualmente una questione molto importante. In realtà ero scettica quando ho sentito parlare per la prima volta della Convenzione francese sul clima. Mi sembrava una strana scelta: il cambiamento climatico è una questione altamente tecnica, scientifica e globale, che sicuramente richiede vertici internazionali tra grandi inquinatori come Cina, Stati Uniti, India e Brasile piuttosto che a livello della Francia, che è responsabile dell’1% delle emissioni.

Ma no, le questioni climatiche sono profondamente legate alla giustizia sociale a livello locale ed è davvero importante che le persone possano affrontarle ad ogni livello. Molte delle discussioni della Convenzione sul clima sono andate oltre il cambiamento climatico: si è parlato della perdita di biodiversità, della scomparsa delle terre coltivabili, dello stato delle foreste e delle campagne. Essenzialmente, si tratta di giustizia ambientale. Dal concetto globale di cambiamento climatico, la conversazione si è spostata su ciò che questo significa personalmente, in termini di aria che si respira, acqua che si beve e accesso alla natura. Il clima parla ai bisogni dei cittadini in una maniera che va alle fondamenta. Lo stesso potrebbe essere fatto per altri argomenti. L’immigrazione è un argomento tabù in molti paesi, ma col tempo, e attraverso la deliberazione in “mini-pubblici”, la discussione diventerebbe probabilmente molto più pratica, sfumata e basata su soluzioni di buon senso rispetto a quelle attuali.

In tutto il mondo, la globalizzazione ha ridotto il potere dei governi nazionali. Parte della logica dell’Ue è quella di reclamare quel potere. La democrazia aperta potrebbe contribuire al di là della sfera nazionale?

Assolutamente sì. Recentemente ho scritto un saggio divertendomi con l’idea di una Casa del Popolo come istituzione permanente dell’Unione europea. Immagino un corpo di 499 cittadini scelti in maniera aleatoria in tutta Europa. Angeliki, una donna greca che a malapena sbarca il lunario gestendo un bed and breakfast ad Atene, improvvisamente riceve una lettera che la invita a passare i prossimi tre anni a Bruxelles. È entusiasta perché rappresenta la possibilità di plasmare il futuro dell’intera Unione europea insieme a persone provenienti da tutto il continente, di creare legami, di sviluppare nuove competenze e di scoprire cose nuove. L’Unione europea deve riconoscere che ha bisogno di introdurre più diritti di partecipazione per diventare più democratica. Provate a cercare di mettere qualcosa all’ordine del giorno delle istituzioni europee così come sono ora! Ci sono le iniziative dei cittadini, naturalmente, ma hanno molte restrizioni tecniche e richiedono un numero enorme di firme.

L’Ue ha anche bisogno di più deliberazione, ma di una deliberazione che sia reale e visibile. Questo probabilmente significa dare molto più potere al Parlamento europeo, ma anche allocare risorse per nuove forme di spazi deliberativi.

Inoltre, l’Ue ha bisogno di un processo decisionale maggioritario. È troppo spesso paralizzata dai requisiti di unanimità. Se siamo un popolo europeo, per risolvere i disaccordi, ad un certo punto dobbiamo andare con il meccanismo di maggioranza. Infine, l’Ue ha bisogno di maggiore trasparenza. Le istituzioni europee sono burocratiche, opache e incomprensibili. Per me, il voto sulla Brexit è stato una denuncia esplicita della natura antidemocratica dell’Unione europea. Non sono sicura che sia stata la mossa giusta, ma penso che la diagnosi fosse corretta.

Come potrebbe funzionare la democrazia aperta a livello globale?

Immaginate un gruppo casuale di 1000 cittadini selezionati da tutto il mondo, riuniti per deliberare su questioni come il cambiamento climatico o la giustizia economica globale. È possibile? Non ci saranno incomprensioni culturali? Le difficoltà dovrebbero dissuaderci dal provarci? Non credo, stiamo solo iniziando a scalfire la superficie di ciò che è fattibile. Le Ong e gli accademici stanno mettendo insieme la prima assemblea globale del clima che avrà luogo a margine della conferenza sul clima COP26 a Glasgow. Sta già accadendo.

Quando ho iniziato a scrivere il mio libro OpenDemocracy qualche anno fa, alcuni colleghi lo consideravano estremamente radicale, utopico, filosofico e slegato dalla realtà. Ma a distanza di qualche anno, la realtà raggiunge il testo. La crisi finanziaria, l’elezione di Donald Trump, la Brexit e ora la pandemia hanno fatto esplodere lo status quo e ampliato il regno di ciò che è concettualmente immaginabile. Abbiamo vissuto in un’epoca di mentalità ristretta con pochissimo pensiero fuori dagli schemi. Tutto era all’interno della lettura della socialdemocrazia capitalista con rappresentanti eletti, e con la globalizzazione come vincolo incondizionato e indiscutibile. Ma ora, i vincoli fiscali, i bilanci in pareggio, l’interferenza minima dello Stato: tutto è esploso. Se possiamo fare qualcosa a questo punto, perché non una democrazia aperta?

Tradotto in collaborazione con la Heinrich Böll Stiftung Parigi, Francia.

Democracy Ever After? Perspectives on Power and Representation
Democracy Ever After? Perspectives on Power and Representation

Between the progressive movements fighting for rights and freedoms and the exclusionary politics of the far right, this edition examines the struggle over democracy and representation in Europe today.

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