Può sembrare un paradosso, ma per me ecologista italiano la crisi che tormenta da mesi i Verdi francesi è una condizione invidiabile. Litigano e si dividono, dirigenti anche importanti se ne vanno sbattendo la porta, come conferma il deludente risultato ottenuto nelle elezioni regionali sembrano incapaci di trasformare in stabile consenso politico il peso crescente dei temi ambientali tra i cittadini: ma restano, comunque, un protagonista vero, vivo, ascoltato del dibattito pubblico. Questa è stata la mia prima impressione leggendo “Le Manifeste des écologistes atterrés”, nel quale tre esponenti del partito nato anni fa dalla fusione tra “Les Verts” ed “Europe Ecologie” – Lucile Schmid, Édouard Gaudot, Benjamin Joyeux – raccontano la loro amarezza per questa sorta di “collasso” dei Verdi francesi e propongono un percorso di radicale rifondazione “pour une écologie autonome – così si legge nel sottotitolo -, loin du politique circus”.

Sì, provo invidia per le difficoltà nelle quali si dibattono i miei amici e compagni Verdi francesi. Perché in Italia, più semplicemente, i Verdi non hanno nessun ruolo politico da quasi un decennio: formalmente esistono, nei fatti sono fuori dal Parlamento e dalla quasi totalità delle assemblee elettive regionali e locali, fuori dal dibattito pubblico. Eppure in Italia i Verdi hanno una storia importante: siamo stati uno dei primi Paesi europei ad eleggere in Parlamento dei deputati Verdi (era il 1987, le Liste Verdi conquistarono 13 seggi nella Camera dei Deputati), il primo con un ministro Verde (Francesco Rutelli, ministro dell’ambiente nel 1992), il primo ad eleggere nella sua capitale un sindaco Verde (ancora Francesco Rutelli, nel 1993: governerà Roma fino al 2001). Dopo questi iniziali e promettenti successi, per i Verdi italiani è cominciato un rapido declino. Questa parabola così negativa non ha una causa sola. Certamente su di essa ha influito l’infelice dinamica dell’ultimo ventennio italiano, nel quale la politica e la stessa opinione pubblica si sono quasi del tutto polarizzate “pro” o “contro” il fenomeno-Berlusconi e si è molto ridotto lo spazio per “offerte” politiche diverse e lontane dalla dialettica tradizionale destra-sinistra. Questa però è solo una delle spiegazioni. Altre, non meno plausibili, chiamano in causa errori e limiti che hanno segnato negativamente i comportamenti, le scelte, il profilo dei Verdi Italiani. Prima e più grave inadeguatezza: mentre l’attenzione verso l’ecologia cresceva nella società, coinvolgeva bisogni e interessi sempre più larghi e politicamente meno connotati, i Verdi restavano legati a un’impronta da micro-partito di “sinistra radicale”, indigesta per un’ampia fetta di elettorato potenzialmente sensibile al messaggio ecologico. In altri Paesi europei le forze ecologiste hanno saputo adattarsi a questo mutamento di scenario: così in Germania, con il prevalere dei “realos” di Joshka Fischer sui “fundis” di Petra Kelly; così, questa almeno la mia percezione da osservatore esterno, anche in Francia, dove peraltro l’identificazione – e l’auto-identificazione – Verdi-sinistra è sempre stata meno accentuata.

Nel loro libro-manifesto, Schmid, Gaudot e Joyeux sottolineano lo scarto enorme e crescente tra debolezza politica degli ecologisti e diffusione sempre più larga delle idee e delle mobilitazioni ecologiche nella società. Una contraddizione, come giustamente essi richiamano, non solo francese. Anche in questo caso l’Italia, si può dire, “fa scuola”. L’ecologia nel mio Paese è un nano politico e un gigante associativo: con grandi organizzazioni come Legambiente, Wwf, Greenpeace che contano centinaia di migliaia di iscritti; con una miriade di gruppi e comitati civici impegnati in conflitti e mobilitazioni locali; con campagne nazionali di straordinario seguito e successo, basti pensare ai referendum del 2011 nei quali il 95% dei votanti, pari a oltre il 50% di tutti gli elettori, ha ribadito il no all’energia nucleare (già bocciata in un altro referendum nel 1987) e si è espresso per una gestione rigorosamente pubblica delle risorse idriche.

Perché questa distanza così ampia tra ecologia politica in evidente crisi ed ecologia sociale e culturale in progresso? Per Schmid, Gaudot e Joyeux essa nasce essenzialmente dal fatto che i partiti Verdi, in Francia e non solo, finiscono per assomigliare troppo ai partiti loro “concorrenti” – gruppi ristretti e autoreferenziali di dirigenti e di quadri, scarsa comunicazione e condivisione con i militanti, più attenzione alle ambizioni personali di pochi che all’obiettivo di allargare la base associativa – e troppo poco alla radicalità del cambiamento che sono nati per rappresentare e per costruire: “le problème de ces partis alternatifs –essi scrivono – c’est qu’ils sont pour la plupart incapables de s’apppliquer à eux-mêmes les principes qu’ils défendent pour tous” . Insomma, non è così naturale per un cittadino convinto dell’importanza della “ragione ecologica”, identificarsi al momento del voto con partiti e spesso con leader che praticano poco e male, in quanto attori sulla scena politica, le idee di solidarietà, di inclusione, di sobrietà, di convivialità che sono alla base del pensiero ecologico.

Questa diagnosi contiene molta verità, ma io credo che non basti a spiegare perché gli ecologisti – con importanti ma rare eccezioni, prima tra tutte quella tedesca – non siano ancora riusciti ad occupare uno spazio stabile, significativo e diffuso nel paesaggio politico delle nostre società.

Nel “Manifeste des écologistes atterrés” si indica una strada assai netta, la stessa strada – ricordano gli autori – che indicava già quasi trent’anni fa il filosofo Felix Guattari. Come ammoniva Guattari, “pour aboutir à la promotion d’une nouvelle conscience planétaire”, occorre “faire réémerger des systèmes de valeurs échappant au laminage morl, psychologique et social auquel procède la valorisation capitaliste”.

Secondo questa visione, l’ecologia politica può affermarsi solo sulla base di una “conversione” degli individui e delle comunità, di un mutamento quasi antropologico che riavvicini i criteri che governano l’agire umano a sentimenti – “la joie de vivre, la solidarité, la compassion à l’égard d’autrui”, nelle parole di Guattari – , pressoché estranei allo logica individualista, materialista, consumista oggi dominante.

Ora, che l’ecologia politica sovverta molti paradigmi costitutivi dell’idea stessa di modernità, a cominciare dal “mito” di una crescita economica illimitata e illimitatamente benefica, è fuori dubbio. Ma come affermava Alexander Langer, uno dei padri del pensiero verde, questa profonda radicalità da una parte va coltivata anche sul terreno dell’azione politica, dall’altra va tenuta al riparo da qualunque tentazione millenarista. Perché si realizzi una riconversione ecologica della società e dell’economia – questo l’insegnamento di Langer e questo, io credo, il banco di prova decisivo anche oggi per l’ecologia politica – bisogna che essa sia percepita come “socialmente desiderabile” dalla maggioranza delle persone: dunque gli ecologisti e i Verdi, per vincere la sfida democratica del consenso, devono proporre soluzioni, cambiamenti molto concreti e tali da rispondere ai bisogni e alle aspirazioni delle donne e degli uomini “reali”, fuori da ogni mitologia, illusoria oltre che inaccettabile, di un “uomo nuovo” ecologico da modellare secondo le indicazioni di un cenacolo di saggi.

Dunque, il futuro dell’ecologia politica si gioca su due campi complementari: quello, benissimo definito da Schmid, Gaudot e Joyeux, di un modello di rappresentanza politica aperto, leggero, anti-burocratico – l’opposto di tanti partiti Verdi, grandi e piccoli. E quello di una assai maggiore disponibilità a calarsi nelle dinamiche sociali e anche economiche del tempo presente. Per esempio, l’ecologia deve aggiornare il suo sguardo sull’economia: nata come pensiero che proponeva una razionalità più larga e profonda della mera convenienza economica, ormai ha di fronte un’economia che questa più ricca razionalità, proprio sotto la spinta delle idee ecologiche, comincia ad integrare nelle proprie scelte e strategie. Un esempio? Il 2015 sarà dopo secoli il primo anno in cui diminuiranno le emissioni climalteranti causate dall’uomo: un dato impensabile solo dieci anni fa, una straordinaria vittoria simbolica e anche molto concreta delle ragioni ecologiste. Così, oggi i Verdi possono e devono ambire a rappresentare non solo i valori culturali e i bisogni sociali che si richiamano all’ecologia, ma anche gli interessi – gli interessi economici – di una platea sempre più vasta di imprese che si identificano con una prospettiva di economia ecologica.

Per venire infine a un tema quanto mai centrale nel dibattito lacerante che attraversa i Verdi francesi, penso che per rimanere “contemporanea” l’ecologia politica debba liberarsi da un dubbio che l’accompagna da sempre: se definirsi e presentarsi come parte della sinistra o invece coltivare un’identità “altra” dall’antinomia tradizionale destra-sinistra. Anche su questo penso che avesse ragione Langer: gli ecologisti, in quanto sostenitori di un ideale di solidarietà e di interdipendenza – solidarietà dell’uomo verso gli ecosistemi e dei contemporanei verso le generazioni future, interdipendenza tra tutti i fenomeni della vita – sono più vicini a sensibilità di sinistra che di destra, ma i loro criteri di analisi e i loro propositi di trasformazione della società erano e restano quanto mai lontani da quelli della sinistra tradizionale, sia della sinistra riformista che dell’estrema sinistra. Per i Verdi come per ogni famiglia politica la ricerca di alleanze e collaborazioni è una necessità vitale, ma se rinunciano alla loro “differenza” essi rischiano più che la sconfitta: rischiano l’inutilità.

Il “Manifeste des écologistes atterrés” è un libro preoccupato, ma non disperato né pessimista. Fotografa con impietosa nitidezza la crisi attuale dei Verdi francesi , però va oltre. Io condivido in pieno questa fiducia. Penso che l’ecologia politica sia un’idea indispensabile per affrontare i drammi e i problemi del mondo attuale. Indispensabile per fronteggiare la crisi ecologica, indispensabile anche per costruire un sistema più giusto e più equilibrato di relazioni tra le persone e tra i popoli. Come ogni idea, anche questa cammina sulle gambe degli uomini: perciò può cadere, inciampare, zoppicare. Ma in poco più di quarant’anni di vita, un tempo breve nella storia delle idee politiche, ha messo radici profonde nella coscienza dell’umanità: a reciderle non basta né il letargoi decennale dei Verdi italiani, né l’accenno di implosione di quelli francesi.