È tempo di abbandonare l’assunto che la democrazia porta sempre a risultati progressisti. Ci sono solo due certezze, in una democrazia: gli spostamenti nell’equilibrio di potere quando le maggioranze salgono e scendono, e la prospettiva di cambiamento costante. Per sua stessa natura, la democrazia contiene insito il rischio di populismo. Le nostre democrazie, però, potrebbero essere meno fragili di quanto pensiamo, sostiene la teorica politica Nadia Urbinati.

Green European Journal: In che modo il populismo ha cambiato il nostro modo di fare politica?

Nadia Urbinati: Ogni paese ha la sua tradizione populista. In Europa, per esempio, il nativismo è meno importante che negli Stati Uniti; al contrario il nazionalismo è più importante in Europa che negli Stati Uniti. A mio avviso, il risultato della traiettoria del populismo al governo – parlo del populismo al potere – è la verticalizzazione della democrazia rappresentativa. Il Parlamento scende e l’esecutivo sale. Il populismo, inoltre, porta con sé anche più corruzione, perché i leader devono assicurarsi il sostegno dei vari gruppi che dicono di rappresentare e che promettono di soddisfare.

Inoltre, il populismo introduce uno stile nuovo, e piuttosto sgradevole, nel linguaggio politico ordinario e nella sfera pubblica: forme di intolleranza verbale ed emotiva verso coloro che non sono considerati come appartenenti al “popolo”. In alcuni paesi, questo può anche tradursi in violenza contro le minoranze e contro i migranti provenienti dall’esterno. Questa logica escludente e questa pratica linguistica soffocano l’opposizione e, più in generale, il dissenso: significa maggioritarismo radicale e umiliazione di coloro che sono in minoranza, culturalmente e moralmente, oltre che politicamente. Questo clima di intolleranza può diventare difficile da gestire democraticamente perché impedisce l’uso della discussione ragionata e della deliberazione tra i cittadini, processo che serve per aiutarli a definire le loro opinioni o, anche, a cambiarle.

In “Me the People”, lei sostiene che il populismo al potere rimane una forma democratica di governo che opera nei limiti della democrazia costituzionale. In Europa, sentiamo da più parti che Ungheria e Polonia hanno fatto passi definitivi verso l’autoritarismo. Qual è la sua prospettiva?

Se i populisti al potere hanno la possibilità di cambiare la Costituzione, cambieranno la Costituzione. I populisti vogliono costituzionalizzare la loro maggioranza, il che è un paradosso, perché il costituzionalismo è normalmente un modo per contenere le maggioranze: qui, invece, si ha una maggioranza forte che vuole affermarsi in termini giuridici come l’unico popolo legittimo. Il potere costituente è quindi un obiettivo naturale per i populisti, come abbiamo visto in diversi paesi europei, ma questo non significa che i paesi in cui questo accade non siano più regimi democratici. La maggioranza può essere diventata preponderante e persino intollerante, ma finché il leader non abolisce le elezioni o la divisione maggioranza-minoranza per dichiarare che c’è un solo vero popolo, de jure e de facto, siamo ancora in una forma di democrazia rappresentativa, per quanto sgradevole.

Questo rapporto “sì” e “no” tra populismo al potere e democrazia è sempre problematico. Negli Stati Uniti, nel momento in cui Donald Trump ha dichiarato che le elezioni erano state truccate e ha mobilitato la popolazione per prendere d’assalto il Campidoglio, è di fatto diventato una sorta di ponte all’interno della democrazia, verso un’altra forma di regime. In quel momento la democrazia avrebbe potuto trasformarsi. Ma solo quando va oltre quel punto. Anche se l’Ungheria e la Polonia sono iper-maggioritarie, rimangono democrazie. In Ungheria, il Governo nazionale è dominato dal partito di Viktor Orbán, Fidesz, ma l’opposizione sta ottenendo maggioranze nei comuni e nei governi locali. C’è ancora la prospettiva di un cambio di maggioranza. Finché questa possibilità esiste, c’è ancora una democrazia.

La legge ungherese sull’emergenza dovuta alla pandemia ha attirato molte critiche per la sospensione delle elezioni e dei referendum. La legge è stata alla fine abrogata, ma mentre era in vigore le sospensioni di cui era questione erano indefinite. Si è trattato di una rottura temporanea con la democrazia?

La democrazia non è un sistema statico. Le democrazie moderne sono complesse e articolate in procedure, istituzioni, corpi intermedi sociali e politici. Se si rimuove o si disloca una componente interna della democrazia, non necessariamente si cambia l’intero sistema. Non dobbiamo dimenticare che anche la connessione del sistema con la società fa parte del quadro. Tutti questi strati insieme costituiscono una società e un sistema democratico: il semplice fatto di approvare una nuova legge o prendere una decisione sgradevole non è sufficiente per annichilire una democrazia.

Siamo abituati a dire che la democrazia è fragile. Io preferisco dire che la democrazia è ostinata nella sua fragilità. Più che fragili, le democrazie sono elastiche e possiedono un’incredibile capacità di adattarsi e cambiare. La Guerra Fredda ci ha fatto pensare che la democrazia liberale sia l’unica forma di democrazia, dove la democrazia è il potere popolare attraverso la regola della maggioranza e il liberalismo è la limitazione del potere attraverso i diritti civili e le istituzioni che li proteggono. Questa concezione impoverisce la democrazia. Il potere popolare a maggioranza non può esistere senza il conflitto pubblico e la partecipazione aperta alla creazione di quel potere. La democrazia ha libertà politiche e civili incorporate perché nessuna maggioranza è definitiva, e le persone hanno piena libertà di cambiare idea. Naturalmente, questo significa anche che abbiamo forme conflittuali di democrazia e forme meno piacevoli di maggioranze. Dovremmo smettere di pensare che la democrazia è buona per i risultati che produce. Non tutto ciò che la democrazia produce è buono; inoltre i regimi non democratici possono produrre risultati positivi, come vediamo in alcuni paesi autoritari dell’Asia orientale. La democrazia funziona perché si basa sulla premessa che possiamo invertire le decisioni e rimuovere coloro che le prendono senza bisogno di smantellare l’intero sistema. Finché non si arriva ad una sospensione del diritto di voto, o a una sospensione della libertà di espressione e di associazione, e finché un’opposizione politica esiste ed è in grado di far sentire la sua voce, allora siamo ancora in una democrazia.

Lei ha descritto una sorta di “fascismo ombra” all’interno del populismo. Cosa intende?

Fascismo e populismo condividono l’idea generale che il popolo sia un tutt’uno con la nazione, così come il rapporto speciale del popolo con il leader, una sorta di rapporto religioso o carismatico, indipendentemente dal fatto che il carisma sia reale o meno.

I regimi fascisti sono nati come movimenti populisti e si sono sviluppati in opposizione al pluralismo, al parlamentarismo e alla frammentazione della leadership. Ma c’è una distinzione cruciale: il fascismo non vuole affrontare il rischio di perdere il potere: di conseguenza i fascisti aboliscono le elezioni. I populisti non vogliono abolire le elezioni e eliminare il rischio di perdere. I populisti vivono per il momento elettorale, per il conteggio dei voti: vogliono usare le elezioni come un momento di celebrazione di chi ha ragione contro chi ha torto. A volte falliscono e a volte vincono. Naturalmente, c’è il rischio di attraversare il Rubicone, come ha fatto Donald Trump nel gennaio 2020. Il populismo presenta il rischio costante che il Fascismo prenda il potere, ma non è esso stesso un regime fascista.

Alcuni studiosi spiegano l’ascesa del populismo autoritario come un contraccolpo culturale delle vecchie generazioni o di altri gruppi che sentono che il loro dominio sta diminuendo. A lungo termine, sostengono, le alternative progressiste e democratiche prevarranno. Lei è d’accordo?

Io sostengo che la possibilità del populismo si trova all’interno della democrazia rappresentativa: non si tratta di qualcosa di esterno ad essa o, semplicemente, di un risultato dell’insoddisfazione. I cittadini sono sempre insoddisfatti dei propri governi e diffidano dell’establishment politico. Dopo tutto, il sistema di elezioni cicliche esiste per evitare che la classe politica diventi un’élite trincerata. Al contrario, il populismo è un modo di trasformare dall’interno le istituzioni e le basi fondamentali della democrazia rappresentativa. Il populismo non è un regime a sé stante, non ha istituzioni e procedure proprie: è un parassita delle procedure e delle istituzioni democratiche, specialmente delle maggioranze.

Il populismo vede la maggioranza come la sostanza della democrazia. Non è la rappresentazione attraverso visioni o partiti in competizione: è piuttosto la rappresentazione del popolo come un “uno” attraverso il suo leader. La rappresentanza diventa l’incarnazione del popolo nel leader, il che significa che è del tutto indifferente alla responsabilità e ai controlli. Questo meccanismo è più probabile che abbia successo in precisi momenti: specialmente nei momenti di crisi delle istituzioni rappresentative.

Il populismo funziona come uno specchio per la democrazia rappresentativa, la mette di fronte ai fatti. Quando il pluralismo non funziona bene, la mobilitazione di una maggioranza è una risposta alla disfunzionalità dei partiti politici tradizionali. Può anche essere un segno di problemi sociali che devono essere risolti, e può quindi aprire la porta a un cambiamento positivo. Jürgen Habermas ha detto che quando i lavoratori comuni non hanno più un difensore efficace dalla parte dei progressisti, si rivolgono ai leader che promettono loro ciò di cui hanno bisogno. Il populismo è un riflesso del declino della sinistra di oggi e, con esso, il declino di una concezione sociale della democrazia che rende la cittadinanza più di un semplice diritto formale al suffragio.

Forse il populismo era diverso in passato: esiste una storia più positiva del populismo nell’America di fine Ottocento, per esempio. Ma oggi, nelle democrazie occidentali basate su partiti politici e forme parlamentari di deliberazione, il populismo è un sintomo della mancanza di rappresentanza della classe media, della classe operaia e dei lavoratori precari. Invece di discorsi sulla giustizia sociale e la ridistribuzione, queste classi sono attratte da discorsi sul protezionismo nazionale e l’esclusione degli immigrati e di altre minoranze.

Il pubblico è la chiave del populismo. Il suo libro usa il termine “democrazia dell’audience”. Viviamo in democrazie dell’audience?

In molti paesi, sì. Quando i partiti politici non agiscono più come forza strutturante, la cittadinanza diventa un pubblico indistinto e disorganizzato che agisce come un tribunale giudicante piuttosto che come una fonte di programmi politici alternativi. Una cittadinanza che reagisce semplicemente alle parole inventate da leader intelligenti in cerca di popolarità, e che esiste come un’entità indifferenziata senza linee partitiche, è una folla che un leader può facilmente mobilitare. L’esperienza dell’Italia e di molti altri paesi europei mostra dove può portare una combinazione di partiti deboli e di media forti che modellano le opinioni politiche. I media diventano un sostituto dei partiti, orchestrando il pubblico. Dalla democrazia dei partiti alla democrazia dell’audience: è questo il cambiamento di rappresentanza che il populismo porta in campo.

Ma il risultato non è necessariamente negativo. Podemos è un esempio piuttosto positivo, il Movimento Cinque Stelle è un altro (anche se più moderato e, per certi versi, erede della Democrazia Cristiana nel sud Italia). Ma c’è anche la Lega e l’ideologia quasi fascista di Matteo Salvini. I partiti nelle democrazie dell’audience si presentano come attori che agiscono in base alle preferenze o alle antipatie del pubblico. Questo è un cambiamento significativo. Non c’è più un linguaggio della politica basato su argomentazioni ragionate o inquadramenti ideologici, ma un linguaggio di “mi piace” o “non mi piace” senza una vera discussione. Questo non è un linguaggio politico, è un linguaggio estetico.

Come hanno fatto i paesi in preda al populismo a rompere la dinamica?

Molte persone si concentrano sulle condizioni e le ragioni del successo dei populisti. Ma la domanda importante ora è come si esce dal populismo. In Occidente, vediamo almeno due sviluppi che tentano di rispondere a questa domanda.

Il primo è il classico modello di partito politico. Negli Stati Uniti, Joe Biden ha risposto al populismo riabilitando e ringiovanendo il linguaggio politico della destra e della sinistra, e della giustizia sociale. È chiaramente diverso dal linguaggio trumpista, ma è anche distinto da quello di Obama, perché Biden sta ravvivando il discorso “partigiano” e non cerca il consenso dei repubblicani moderati.

Il Partito Democratico – in parte perché ha ascoltato la sua ala a sinistra – sta mostrando che le buone politiche, come investire per creare posti di lavoro stabili, sono possibili anche quando la società è divisa.

In Europa vediamo un altro modello. La risposta europea al populismo consiste nello stabilizzare lo Spazio economico europeo attingendo alla sua lunga esperienza di processo decisionale tecnocratico. Come hanno mostrato Carlo Invernizzi Accetti e Christopher Bickerton nel loro libro “Technopopulism”, ci può essere una congiunzione tra populismo e tecnocrazia. Non si tratta di un populismo demagogico e di movimento, ma di un tipo di populismo che vuole addomesticare il mito dell’unità del popolo contro i partiti utilizzando la governance tecnocratica. Gli esempi sono la Francia di Emmanuel Macron e l’Italia di Mario Draghi: promettono di unire il popolo attraverso una forma di processo decisionale dichiarato neutrale e obiettivo, con i risultati soggetti a misurazione, monitoraggio e valutazione. Economisti e burocrati sono i giudici del successo, non i partiti o le idee “partigiane”. Il tecnopopulismo si basa su una leadership radicata nella governance e propone di parlare al popolo con la certezza che le sue decisioni sono espressioni di dati, indipendenti da visioni di giustizia. Ma il problema del tecnopopulismo è la disfunzionalità, non l’ingiustizia.

Antonio Gramsci è stato una fonte di ispirazione per i sostenitori di un populismo progressista di sinistra. Sarebbe giusto dire che lei interpreta Gramsci come un avvertimento contro il populismo e il dominio dei leader personali?

Sì, l’idea di egemonia di Gramsci è stata interpretata in modo tale da trasformare le sue parole in una teoria del leader forte. Questo non è il pensiero Gramsci. Gramsci ha sottolineato il dominio del collettivo e del partito. Possiamo essere critici sulla sua comprensione leninista del partito, ma non ha mai proposto di trasformare la sua logica in quella di un leader che unifica il popolo. Questo è precisamente ciò che il Fascismo ha creato: Mussolini creò il suo movimento usando la retorica e il mito dell’unità nazionale contro le divisioni di classe che riunivano diverse insoddisfazioni nel periodo successivo alla Prima Guerra mondiale: quelle dei veterani, degli operai e dei contadini. Gramsci si oppose a tutto questo. Sosteneva l’idea di una società densamente popolata da corpi intermediari: con associazioni, sindacati, cooperative e partiti politici. Quella di Gramsci è una società ricca, non semplificata, riunita dalla lotta su come gestire il paese. Si tratta quindi di una leadership collettiva, non individuale.

Come influirà la pandemia sulla dinamica populista?

La pandemia porterà ad una situazione difficile. Le persone stanno diventando sempre più povere. Dato che ora sono chiuse nelle loro case, non conosciamo la piena portata del problema, ma alcune manifestazioni pubbliche di malcontento stanno già avendo luogo. Non appena la situazione si evolverà e si potrà riprendere la vita ordinaria, vedremo la portata della disperazione. Se non adottiamo la mentalità di trasformare gli stati in attori pubblici capaci di dare risposte concrete, di creare migliori condizioni di lavoro e di investire nei servizi pubblici – in particolare nella sanità e nell’istruzione pubblica – la situazione diventerà molto rischiosa.

Questa trasformazione può essere anche un mezzo per ridare forza alla democrazia?

Penso che abbiamo l’opportunità di ricreare un nuovo tipo di Stato sociale. Ma deve essere costruito. Non possiamo semplicemente dare a Draghi, Macron e altri tecnocrati la libertà di farlo, usando i loro esperti finanziari, burocrati e scienziati per determinare cosa è bene per noi e cosa dovrebbe essere fatto. I cittadini democratici non sono destinatari di politiche ideate da esperti; non sono clienti che giudicano in base ai prodotti che comprano. Le persone e le organizzazioni stesse devono essere coinvolte nel processo di partecipazione. Senza questo passaggio, tutto ciò che resta è uno stato manageriale.

Finora, gli Stati Uniti di Biden sono un buon modello di sensibilità socialdemocratica ed ecologica. Lo Stato chiede una partecipazione attiva e un processo decisionale a favore di coloro che si trovano in situazioni insostenibili. Senza questo progetto politico, il populismo sarebbe dilagante: e qui parlo del populismo “cattivo”. Quindi, c’è molto spazio per progetti di emancipazione, partecipazione e immaginazione politica. Ma dobbiamo creare le condizioni perché questo avvenga, dobbiamo volerlo e dargli valore. Non verrà da solo. La democrazia richiede persone pronte ad agire, non semplicemente persone che hanno il vezzo di avere una buona Costituzione.

Quindi la democrazia riguarda tanto la sostanza quanto la forma?

L’ateniese Solone è spesso considerato il padre della democrazia. Dopo essere stato eletto sovrano nel 594 a.C., il primo atto di Solone fu quello di liberare la terra “togliendo i pesi”. Come? Cancellò i debiti, liberò gli schiavi e diede loro la terra. Poi diede agli ateniesi una nuova Costituzione che garantiva loro il diritto di partecipare al Governo. Perché? Perché voleva che il popolo si proteggesse da un ritorno alla schiavitù. Anche se Atene era lacerata da faziosità, Solone non voleva cittadini indifferenti, ma piuttosto partecipanti attivi pronti a prendere posizione. La democrazia implica la partecipazione: e questo significa prendere parte e schierarsi. Il modo migliore per pacificare una società non è ritirarsi dalla politica e consegnare la responsabilità a esperti o a un singolo leader ma, nelle parole di Aristotele, “combattere e discutere vigorosamente per ogni parte contro l’altra”.

Tradotto in collaborazione con la Heinrich Böll Stiftung Parigi, Francia.

Democracy Ever After? Perspectives on Power and Representation
Democracy Ever After? Perspectives on Power and Representation

Between the progressive movements fighting for rights and freedoms and the exclusionary politics of the far right, this edition examines the struggle over democracy and representation in Europe today.

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