Stando ai sondaggi su scala globale, nessuna professione è meno degna di fiducia di quella dei politici. Persino i banchieri e i pubblicitari ispirano più fiducia; i giornalisti fanno un po’ meglio, ma a malapena. C’è chi pensa che stiamo meglio senza i politici di professione, e la tecnologia sembra suggerire che è sempre più possibile. Alcuni politici populisti hanno abbracciato questa sfiducia: il filosofo politico Jan-Werner Müller avverte a che punto questo dato importante e potenzialmente corrosivo per la democrazia. La chiave per una democrazia sana non è liberarsi di politici e giornalisti, ma costruire e mantenere una società civile aperta, creativa e dinamica.

Green European Journal: Lei ha chiamato i partiti politici e i media “l’infrastruttura critica della democrazia”. Cosa intende con questa espressione?

Jan-Werner Müller: L’infrastruttura critica della democrazia riguarda i diritti politici di base — il diritto di riunione, di libera espressione, di associazione — e il ruolo che i poteri intermediari, come i partiti politici e i media, hanno nel facilitarne l’uso e, specialmente, nell’amplificarne impatto. È come un’infrastruttura fisica, nel senso che si tratta di cittadini che raggiungono altri cittadini, e viceversa.

Quindi come contribuiscono i partiti?

I partiti politici offrono una rappresentazione della società, in particolare dei suoi conflitti e delle fratture soggiacenti. Non riproducono meccanicamente qualcosa che è già là fuori: si tratta di un processo molto più dinamico e creativo. I partiti, come ha detto la teorica politica Nancy Rosenblum, mettono in scena consapevolmente il conflitto. Ora, si potrebbe obiettare che anche i movimenti sociali lo fanno: in effetti, lo fanno anche molti altri attori. La differenza è che i partiti mirano a ottenere il potere.

Le dinamiche non si escludono a vicenda — i movimenti sociali influenzano e a volte diventano anche partiti — ma i partiti rimangono più importanti di quanto spesso si supponga. Molti accademici, spesso a sinistra, hanno un forte atteggiamento antipartitico: pensano che i partiti siano intrinsecamente non rappresentativi e potenzialmente oligarchici, aumentando la disuguaglianza, ecc… In alcuni paesi, molte persone condividono questo animus antipartitico, a volte in modo giustificato. Ma la moderna democrazia rappresentativa non può funzionare senza partiti adeguati.

Cosa significa “adeguati”? I partiti dovrebbero offrire pluralismo, sia all’interno che all’esterno. Idealmente, i partiti dovrebbero essere regolati per assicurare un livello significativo di pluralismo interno. Non un pluralismo infinito, perché dopo tutto, c’è chi diventa “di parte” proprio perché crede in certi principi. Inoltre, nessun principio si applica mai solo: anche con un’adesione a una particolare visione della libertà o della protezione ambientale, per esempio, c’è sempre da discutere i termini di come applicare i principi in particolari contesti, come coincidono diversi principi e quali tipi di compromessi sono accettabili.

Il vantaggio di questi processi è che i loro partecipanti si abituano all’idea che coloro che si trovano dalla parte dei perdenti possono comunque accettare il risultato. Il fatto che siano state intraprese le giuste procedure e che tutti abbiano avuto la possibilità di esprimersi, fa in modo che si possa accettare che l’altra parte ha ragione. Il rifiuto di Donald Trump di accettare il risultato delle elezioni presidenziali americane del 2020, e ciò che ne è seguito, ci ricorda il ruolo importante che giocano i perdenti in una democrazia. Inoltre, i dibattiti interni producono nuove prospettive, permettono di produrre prove empiriche e fanno in modo che più persone possano parlare delle loro esperienze vissute. Niente del genere è possibile nei partiti costruiti intorno ad una sola figura di leader.

Molte configurazioni di partito sono state messe in crisi nell’ultimo decennio. Le forze politiche, in particolare il Movimento Cinque Stelle in Italia, si dichiarano sempre più come movimenti. Cosa dice l’ascesa dei partiti di movimento sulla democrazia di oggi?

La comparsa di nuovi attori e istituzioni è una buona cosa, in linea di principio. Ad alcuni piace lamentarsi che ci sono troppi vecchi partiti, che il sistema è rigido e statico, e che siamo di fronte a una “crisi della rappresentanza”. Ma, va detto, che si è parlato di crisi anche quando partiti come Podemos o SYRIZA sono emersi in Spagna e in Grecia: li si accuso’ di essere “pericolosi insorti”.

Si comincia a sentire la domanda: cosa non è una crisi di rappresentanza? Se non cambia nulla, è una crisi, e se cambia qualcosa, è comunque una crisi. In teoria è una cosa positiva se il sistema è sufficientemente aperto a nuovi attori politici. Nonostante la quantità di piagnistei sul declino dei partiti popolari, non è un segno di qualcosa che va male nella democrazia.

Tuttavia, alcuni di questi cosiddetti “partiti di movimento” mancano di strutture pluralistiche interne e di trasparenza. Alcuni credono in quello che il sociologo politico Paolo Gerbaudo chiama “partecipazionismo”, ovvero il coinvolgimento e l’impegno attivo dei membri, specialmente online. Resta molto difficile valutare come le decisioni siano effettivamente prese, e cosa significhino davvero i click: può non essere chiaro quale sia il ruolo dei sostenitori, oltre al  cliccare occasionalmente su qualcosa e assecondare quello che dice il “grande leader”.

In altri casi, chiamarsi movimento è solo comunicazione. Quando Sebastian Kurz ha rimodellato il Partito Popolare austriaco, lo ha chiamato movimento, ma si tratta dello stesso vecchio partito, solo più asservito a un leader altamente consapevole del proprio potere. La République En Marche di Macron è ancora un partito: nulla giustifica il fatto di considerarlo un movimento. Il Movimento Cinque Stelle in Italia è probabilmente il tentativo più radicale di rompere sia con la forma partito che con i media professionali (che il loro leader, Beppe Grillo, ha sempre denunciato come corrotti), eppure assomiglia sempre più a un partito tradizionale. Si può trovare il buono o il cattivo nella cosa, ma conferma in qualche modo che quelli che fanno tanto rumore sull’essere movimenti spesso finiscono come partiti convenzionali.

Le strutture sociali che legavano i partiti non sono più forti come una volta. La “forma partito” può ancora riflettere la diversità della società moderna?

È chiaro che una serie fondamentale di cambiamenti all’interno della società avrà conseguenze sui partiti e sui sistemi di partito, e sulla forma istituzionale generale che i partiti assumono. Sognare un ritorno agli anni Cinquanta o Sessanta, quando le identità sociali delle persone erano spesso più facilmente tradotte nei grandi partiti popolari, non è produttivo. E non si riproporrà.

Le forme di partecipazione stanno cambiando e magari non si aderisce a forme di appartenenza “a vita” come era una volta, ma è prematuro dichiarare che “non c’è più vita nel partito”. Se aveste detto a qualcuno 15 anni fa che [il partito di sinistra di Jean-Luc Mélenchon] La France Insoumise avrebbe ottenuto mezzo milione di sostenitori (anche se quello che significa è discutibile), o che il partito laburista di Jeremy Corbyn nel Regno Unito avrebbe raggiunto mezzo milione di membri, nessuno di avrebbe creduto. La popolazione è ancora disposta a aderire ai partiti e a impegnarsi, in un modo o nell’altro.

Tornando all’idea di infrastruttura critica, i sistemi politici hanno bisogno di pensare di più alla regolamentazione dei partiti per mantenere democrazie sane e pluralistiche?

Tante cose iniziano con il finanziamento dei partiti. Agli europei piace storcere il naso di fronte al sistema Usa, perché spendere 14 miliardi di dollari per le campagne elettorali federali è così “osceno”. Ma guardando da vicino come i diversi paesi europei regolano i loro sistemi, da un punto di vista normativo, non è poi così meglio. I numeri sono più piccoli, ma resta ancora disuguaglianza, iniquità e denaro di provenienza dubbia. Pensate a come le detrazioni fiscali fanno sì che i poveri sovvenzionino effettivamente le preferenze politiche dei ricchi. Il mio suggerimento — seguendo l’esempio di un certo numero di accademici e politici — è che tutti dovrebbero avere un buono di uguale valore da spendere nelle infrastrutture critiche della democrazia.

Qual è il ruolo dei media, in particolare dei media tradizionali, nella vita politica?

Il sistema dei media funziona in modo diverso, quindi non tutte le infrastrutture critiche sono uguali. Nel Regno Unito, la BBC è ovviamente diversa da un’infrastruttura altamente commercializzata, che è di nuovo diversa dai paesaggi mediatici in paesi dove il pluralismo è stato drasticamente ridotto, come l’Ungheria e, in qualche misura, la Polonia. Detto questo, uno degli obblighi primari del giornalismo è quello di informare i cittadini sulle rappresentazioni offerte dai partiti politici e, in una certa misura, di giudicarle.

Al di là di questo, non c’è nulla di intrinsecamente sbagliato nel fatto che i giornalisti o i media  prendano posizione. Tendiamo a dimenticare che molti partiti socialisti avevano i loro giornali, e molti leader sono emersi non dal movimento sindacale, ma dal giornalismo. Prendere una posizione non significa inventare falsità come Fox News negli Stati Uniti, ma interpretare e raccontare il mondo da un particolare punto di vista. Finché è chiaro per tutti, seppure approssimativamente, che tipo di informazione stanno ricevendo, da dove viene, e perché è in quel modo, non c’è niente di sbagliato. C’è ancora molto spazio per la regolamentazione — per quanto riguarda il fatto di non incitare alla violenza, non diffondere disinformazione o cattiva informazione, e non denigrare certi gruppi (come fanno i populisti di destra) — che può coesistere con un sistema aperto che fa emergere la dimensione creativa e dinamica della democrazia molto più chiaramente di oggi.

A differenza dei media tradizionali, i social media offrono una connessione diretta tra utilizzzatori e politici, opinionisti e influencer. In che modo i social media cambiano le nostre politiche democratiche?

I social media sono mediati, solo che questo avviene in modi molto poco trasparenti. Può sembrare una relazione diretta, il che incoraggia la conclusione che c’è un’affinità tra i social media e il populismo, ma questa immediatezza è un’illusione. Le società proprietarie dei social media, così come i media tradizionali, sono intermediarie e sono anche parte dell’infrastruttura critica delle nostre democrazie.

Naturalmente, queste aziende sono le prime a dire che sono solo nel business di “connettere le persone”, che non prendono posizione, e che cancellare l’account del Presidente degli Stati Uniti li mette molto a disagio. Ma la tecnologia dei social media, proprio come le infrastrutture fisiche, può essere impostata in modi diversi. I modelli di business e gli algoritmi che le fanno funzionare e che influenzano il meccanismo di questi sistemi possono avere effetti altamente perniciosi sul dibattito democratico. Allo stato attuale delle cose, sono scatole nere. Anche se la trasparenza totale è un’illusione, i ricercatori devono poter di capire questi sistemi per valutare i loro probabili effetti e cosa potrebbe, e dovrebbe, essere cambiato.

Allo stesso tempo, sono riluttante a dire che i social media sono destinati ad essere dannosi per la democrazia. Portano creatività e apertura, e c’è tanto da discutere sull’accesso che offrono, come permette anche a rappresentanti autoproclamati di dire la loro su questioni che altrimenti sarebbero trascurate.

#MeToo e #BlackLivesMatter hanno potuto avere l’estensione che hanno avuto solo grazie ai social media.

Quello che è difficile è passare dall’avere più rappresentazioni là fuori attraverso i social media all’avere un dibattito strutturato. Con i partiti e i media tradizionali, sappiamo all’incirca come funziona il dibattito: scambiare affermazioni, ribattere, dire quando un attacco è ingiusto, e così via. Questo tipo di dibattito strutturato è molto più difficile sui social media.

La questione del legame tra le tecnologie dei media e la democrazia è stata sollevata anche durante le precedenti rivoluzioni dei media. Negli anni Trenta, il filosofo e critico letterario Walter Benjamin sostenne che proprio come il cinema aveva sostituito l’attore tradizionale con la star del cinema, il politico tradizionale era stato sostituito dal dittatore. Io rifiuto qualsiasi determinismo tecnologico, ma le domande sul legame tra i social media e la democrazia sono legittime.

Cosa ne pensa delle crescenti richieste di innovazioni democratiche come le assemblee dei cittadini?

Le assemblee dei cittadini sono particolarmente utili quando c’è ragione di credere che i partiti prenderanno decisioni sbagliate o non ne prenderanno affatto. Quando si tratta di ridurre le dimensioni del Parlamento o di cambiare il sistema elettorale, i partiti possono essere riluttanti a prendere decisioni contro i loro interessi: in questo caso, quindi, forme diverse di processo decisionale hanno senso. Per prendere due esempi dall’Irlanda, l’Assemblea dei cittadini del 2016-2017 e il referendum del 2018 sull’aborto mostrano anche come le decisioni collettive che hanno un forte elemento etico, ma non richiedono grandi competenze, possono essere affrontate efficacemente attraverso un dibattito globale.

Tuttavia, c’è chi vuole andare molto oltre e sostituire del tutto la politica dei partiti. Si tratta di un altro segno dell’impeto antipartitico, e io ho due grandi riserve.

Primo, la democrazia dipende dal fatto che i perdenti sanno cosa fare. Quando una lotta politica di partito è persa, il partito usa il tempo che ha fino alle prossime elezioni per mobilitare più persone e perfezionare i suoi argomenti prima di riprovarci. Se cittadini scelti in maniera aleatoria prendono una decisione, non è chiaro come quella decisione possa essere rivista. Cosa dovrebbero fare i perdenti, e a quali istituzioni potrebbero attingere per rafforzare la loro parte? Alcuni scienziati politici con una visione piuttosto “dura” sostengono che le elezioni avvengono all’ombra della guerra civile. Per fortuna, non è il caso dell’Europa di oggi. Lo scopo delle elezioni rimane quello di mostrare la forza relativa dei diversi gruppi nella società in modo pacifico. I partiti rimangono particolarmente bravi in questo, questo ruolo scompare con gruppi di cittadini scelti a caso.

In secondo luogo, le prove sulla partecipazione e le assemblee dei cittadini non sono chiare. Alcune ricerche mostrano che avvantaggiano ulteriormente gli avvantaggiati. Sì, i criteri di selezione possono essere modificati, e non è vero che solo i privilegiati si presenteranno, ma qualsiasi forma che si allontana dai partiti tradizionali tende a privilegiare le persone istruite e benestanti, con più tempo e risorse. Le assemblee dei cittadini possono avere un ruolo, ma non sostituiscono la politica dei partiti.

Tradotto in collaborazione con la Heinrich Böll Stiftung Parigi, Francia.

Democracy Ever After? Perspectives on Power and Representation
Democracy Ever After? Perspectives on Power and Representation

Between the progressive movements fighting for rights and freedoms and the exclusionary politics of the far right, this edition examines the struggle over democracy and representation in Europe today.

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