Questo articolo fa parte di un panorama nel quale otto analisti da tutta Europa guardano a come lo strumento del referendum è usato (o a volte abusato) e come dà forma al dibattito pubblico.  

I referendum sono oggi un argomento delicato. Alcuni li lodano come una forma di democrazia diretta, perché permetterebbero al popolo di aggirare le oligarchie politiche che tendono a ignorare o distorcere la volontà popolare; altri sono invece più sospettosi e vedono questo strumento come un’opportunità per i demagoghi: una minaccia, insomma, piuttosto che un’opportunità per la democrazia. 

Invece di cercare di risolvere questo dilemma, cerchiamo di formularlo meglio. Un referendum non è né una soluzione universale né, al contrario, una minaccia universale. Essere a favore o contro i referendum in sé non è la buona domanda da porsi: non esiste un unico “referendum” nel mondo reale. Ci sono, semplicemente, accordi istituzionali progettati in modo diverso, a seconda dei paesi. 

Parlare di “design” indica il fatto che, contrariamente all’opinione diffusa, i referendum non sono, e non possono essere, una forma di “democrazia diretta”. La volontà popolare è sempre mediata. Questo è vero per i referendum e per le elezioni. In un’elezione, ci sono leggi elettorali che stabiliscono le regole riguardanti i collegi elettorali (la dimensione, i confini e il numero di seggi), i requisiti di accesso al voto, come i voti si traducono in seggi e le soglie elettorali. In un referendum, le regole determinano chi può (o deve) far partire il meccanismo di voto, che tipo di domande sono permesse, se il risultato è vincolante e la soglia di validità del voto (se esiste). Il risultato di un referendum è quindi la rappresentazione di una certa volontà popolare piuttosto che la sua espressione diretta. 

I regolamenti riguardanti i referendum variano tra paesi. La prima grande distinzione è tra i paesi in cui i referendum sono una caratteristica permanente e frequente della vita politica, e quelli in cui avvengono su una base ad hoc, spesso innescati da leader politici che cercano di risolvere una questione che fa molto discutere e altamente divisiva (indipendenza, adesione all’Ue, energia nucleare) o semplicemente di certificare la propria legittimità. Si è tentati di chiamare i primi “referendum” e i secondi “plebisciti”. Questa distinzione non è né buona né cattiva. Sia i referendum che i plebisciti possono essere legittimi e utili, se ben progettati e applicati correttamente. I plebisciti una tantum sono probabilmente più rischiosi e più vulnerabili nell’andare verso la manipolazione demagogica, e di solito non lasciano spazio ad una seconda occasione per riparare il danno. 

Vediamo brevemente tre diversi modelli.  

In Svizzera, un referendum può essere attivato quando un numero sufficiente di cittadini firma una mozione. Tuttavia esiste un controllo parlamentare: la mozione può essere respinta se il referendum proposto puo’ sfociare in un risultato che contraddice gli obblighi internazionali del paese, o se la formulazione amalgama una questione generale e una concreta in un unico quesito.  

In Irlanda, è necessario un referendum ogni volta che la Costituzione viene modificata. La questione può essere divisiva o no, ma la regola è chiara: non si può cambiare una sola parola nella Costituzione senza un referendum.  

In Islanda, il referendum scatta se il Presidente rifiuta di firmare un atto parlamentare per trasformarlo legge. Se il Presidente e l’Alþingi (Parlamento islandese) non sono d’accordo, il popolo viene convocato per risolvere la questione. 

Per quanto diverse possano essere queste soluzioni, nei casi di cui sopra, i referendum sono un’istituzione ben definita. I cittadini sanno cosa significa il loro voto e come conta. I referendum non sono la fonte ultima di potere: piuttosto, forniscono un diverso equilibrio di poteri. Sia che stiamo discutendo l’introduzione o l’espansione dei referendum come istituzione permanente in un dato paese, o della convocazione di un plebiscito una tantum per risolvere una questione, non stiamo trattando la questione di come applicare una serie di principi universali. Si tratta piuttosto di trovare un accordo appropriato per una data politica, tenendo conto del suo percorso di dipendenza e della sua storia. 

Non ci sono linee guida universali, ma esiste una regola pragmatica: se avete intenzione di tenere dei referendum, è meglio farlo spesso. Questo aiuterà i cittadini ad imparare come funziona il meccanismo, a vivere con i risultati delle loro scelte e a cambiare idea se necessario. L’esperienza accumulata renderà più probabili scelte più sagge. 

Inoltre, aiuta a demistificare la visione che “la volontà generale” espressa in un referendum sia in qualche modo più autentica e più definitiva di quella espressa in un’elezione generale. I referendum, così come le elezioni parlamentari, possono portare risultati diversi: graditi, sgraditi o misti. Se crediamo che il diritto di votare perché un cattivo governo non sia più in carica è parte della democrazia, è assurdo sostenere che il risultato di un referendum dovrebbe essere irrevocabile. 

Questa serie esplora il ruolo dei referendum in tutta Europa. Al di là delle nozioni astratte di democrazia diretta, questi casi illustrano l’impatto tangibile dei referendum: come guidano il cambiamento (progressivo o reazionario che sia), strutturano il dibattito pubblico, e promuovono intese comuni cruciali per il funzionamento delle democrazie. 

Tradotto in collaborazione con la Heinrich Böll Stiftung Parigi, Francia. 

Democracy Ever After? Perspectives on Power and Representation
Democracy Ever After? Perspectives on Power and Representation

Between the progressive movements fighting for rights and freedoms and the exclusionary politics of the far right, this edition examines the struggle over democracy and representation in Europe today.

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