Sempre più persone vivono e lavorano all’estero senza avere la cittadinanza del paese nel quale si trovano, mentre gli Stati filtrano e categorizzano i residenti e i loro diritti in modi sempre più complessi. Cosa significa la cittadinanza per i milioni di persone in Europa che sono migranti, anche se con forme diverse? Se la democrazia rimane configurata nella sua forma nazionale, la strada che il Ventunesimo secolo si appresta a percorrere potrebbe essere quella dell’esclusione e della privazione del diritto di voto. A meno che, al contrario, la cittadinanza non venga ripensata. 

Siamo nel 2074, un un’Europa post-apocalittica dove la vita umana organizzata come la conosciamo ha cessato di esistere. Quello che resta della popolazione europea è sparso sul continente, organizzato in comunità diverse o in tribù. Quello descritto è lo scenario di “Tribes of Europa”, una serie Netflix del 2021 che si basa su un assunto piuttosto comune nella fantascienza: l’umanità che regredisce alla sua forma pre-moderna dopo una catastrofe. Il futuro è immaginato come un ritorno al passato. Per il teorico letterario Fredric Jameson, il paradosso della fantascienza è che rivela che il futuro è, in fondo, inimmaginabile. La sua funzione non è “non darci ‘immagini’ del futuro […] ma piuttosto defamiliarizzare e ristrutturare la nostra esperienza del presente”. 

“Tribes of Europa”, con il suo insistere su questioni come identità e appartenenza, lealtà di gruppo e fedeltà divise, parla del presente. La serie parla della ricerca di una comunità (perduta): quello che,  come ha osservato il sociologo Zygmunt Bauman, tutti sentiamo mancare nell’era del “grande disimpegno”. È interessante notare che questo futuro non conosce nazioni e, cosa più importante, nessuno stato-nazione. Non ci sono nemmeno altre istituzioni moderne, nessuno stato moderno, nessun cittadino, nessun diritto universale… È un mondo dopo (o prima) la modernità, in cui varie forme storiche, sociali e politiche esistono simultaneamente, e dove non c’è traccia dell’universalismo umano secolare moderno.  

Insomma, la serie rivela la nostra incapacità di pensare l’universalità dei diritti al di là dello stato-nazione. 

Nazionalità = cittadinanza 

Gli studiosi Andreas Wimmer e Nina Glick Schiller sostengono che gli stati-nazione sono ormai concepiti come le forme sociali e politiche naturali del mondo moderno: la modernità, stando alle loro parole, “è stata fusa nella gabbia di ferro degli stati nazionalizzati”. I due studiosi parlano di “nazionalismo metodologico” per definire questa naturalizzazione dello stato-nazione, che interpretano come un angolo morto della modernità. Pensare gli stati e le società nazionali come oggetti di studio naturali, e il modello dello stato-nazione come l’unico modo pensabile di organizzare la politica, ha prodotto una separazione analitica tra “nazione” e “stato”, e successivamente tran”nazione” e “democrazia”.  

L’inquadramento nazionale della costruzione dello stato moderno e della democratizzazione è diventato quindi invisibile. Di conseguenza, la “nazione” è intesa come una questione di identità e appartenenza, e lo “stato” come un sistema sovrano di governo in un particolare territorio. Per questo motivo, “il nazionalismo appare come una forza estranea alla storia della costruzione dello Stato in Occidente. Invece, è una proiezione sull’altro […] La costruzione dello stato occidentale è stata reinventata come un’esperienza non nazionale, civile, repubblicana e liberale”. 

La nazione moderna è una “comunità immaginata“, concepita nel linguaggio piuttosto che nel sangue che, sebbene proiettata nella storia, era un progetto politico consapevole e deliberato. Non ci sono mai state comunità nazionali naturali, evidenti e scontate a cui lo stato-nazione corrispondeva naturalmente. Ciascuna ha dovuto essere costruita, spesso violentemente, attraverso un processo scrupoloso. Ma, essendo la nazione intesa come il contenitore dello stato moderno e della democrazia, il suo ruolo nel plasmare le politiche di inclusione ed esclusione è stato messo in ombra. Oggi, questo inquadramento nazionale tanto comodamente dimenticato è ritornato con una vendetta, forse come farsa, ma comunque come qualcosa di mortale. 

Seguendo il modello occidentale, il compito di costruire una cultura nazionale è diventato un corollario naturale della modernizzazione. Come tale, è stato ripreso in tutto il mondo durante la decolonizzazione e, più tardi, nei processi di transizione dei paesi post-socialisti. Nel suo libro “Nations and Citizens in Yugoslavia” (Nazioni e cittadini in Jugoslavia), Igor Štiks propone l’inquadramento (etno-)nazionale della cittadinanza e della democrazia nelle sue sottounità come un momento chiave nella disintegrazione della federazione multinazionale.  

In linea con il percorso occidentale verso la modernità (vale a dire la transizione verso la democrazia liberale e l’economia di mercato) la nazione è stata percepita come l’unico quadro praticabile per la democratizzazione, e le leggi sulla cittadinanza sono state utilizzate come uno dei mezzi importanti per la sua istituzione. Secondo Štiks in quasi tutti gli stati post-jugoslavi, la nuova legislazione ha offerto uno status privilegiato ai membri della nazione di maggioranza, indipendentemente dal luogo di residenza, e ha sostanzialmente complicato il processo di naturalizzazione per quelli che ne erano al di fuori. 

De-democratizzazione della democrazia 

I regimi di cittadinanza degli stati nazionali occidentali hanno una funzione simile. Il paradosso centrale delle democrazie liberali di oggi, secondo il filosofo Étienne Balibar, è che hanno bisogno di “sottovalutare e affermare” simultaneamente l’equazione tra nazionalità e cittadinanza. Schiacciate tra l’onnipresente movimento transnazionale di capitali e persone da un lato, e le radici nazionali della loro legittimità dall’altro, le democrazie liberali mettono al lavoro complessi apparati amministrativi e coercitivi per differenziare tra cittadini e non-cittadini, desiderabili e indesiderabili, tra coloro che appartengono e coloro che sono esclusi, tra chi puo’ essere “integrato” e chi resterà straniero. Non sorprende che gli aspetti nazionali della cittadinanza siano molto presenti in questi processi. Per essere naturalizzati, e quindi per ottenere i diritti politici, si deve fare prova di impegno non solo verso lo stato, ma verso la nazione, per esempio imparando la lingua nazionale e, spesso, rinunciando alla cittadinanza precedente. 

La costruzione della nazione, sebbene oscurata dal linguaggio burocratico e civico, rimane uno dei criteri centrali che modellano il processo di naturalizzazione. E, in effetti, nella maggior parte degli stati europei lo jus sanguinis, la trasmissione dello status di cittadinanza “attraverso il sangue” dai genitori ai figli, è la pratica centrale. 

L’intenso processo di globalizzazione degli ultimi trent’anni ha messo in discussione la stabilità del presunto stato nazionale autarchico — che confondeva cittadini, popoli sovrani e cittadini —  e l’avvento della razionalità neoliberale ha indebolito i legami di solidarietà tra i membri del gruppo nazionale. Durante l’ultimo decennio, la quota di “non cittadini” è aumentata significativamente in tutta Europa, in particolare nei casi di Malta (dal 5,3% al 20,1%), Austria (dall’11,8% al 16,6%), Islanda (dal 6,7% al 13,6%), Germania (dal 9,4% al 12,5%) e Irlanda (dall’11,8% al 13,0%). Nelle città cosmopolite il rapporto è ancora più sorprendente: un residente su cinque a Berlino e Barcellona, e quasi un terzo a Vienna, è un “non cittadino”. 

Due fattori — l’integrazione economica globale e l’emergere di potenti istituzioni finanziarie sovranazionali — hanno fatto dire che questi cambiamenti tettonici avrebbero portato al declino dello stato nazionale. Invece il nostro mondo contemporaneo è più che mai un mondo di stati-nazione. Gli stati-nazione hanno dimostrato di essere non solo compatibili con la globalizzazione, ma indispensabili ad essa, soprattutto nei momenti di crisi. La differenziazione delle condizioni sociali tra le economie nazionali e la conservazione dei regimi di sfruttamento del lavoro a basso costo che contribuiscono a mantenere sono proprio le forze che fanno avanzare la globalizzazione. È per questo più pertinente parlare di riconfigurazione degli stati-nazione piuttosto che di scomparsa. 

Per Balibar, i concetti di cittadinanza e democrazia sono indissolubilmente legati, eppure nella sua essenza, l’istituzione della cittadinanza porta con sé una contraddizione rispetto alla democrazia. Come categoria universale che implica diritti uguali per tutti, l’idea moderna di cittadinanza contraddice la sua forma nazionale “realmente esistente”. La cittadinanza come “idea eterna” suggerisce un movimento costante verso l’universalizzazione e la conquista dei diritti. Mentre la democrazia, inscritta com’è nello Stato-nazione, funziona per preservare una certa definizione di cittadinanza e diventa quindi incapace di resistere alla sua “de-democratizzazione”. 

Questo carattere contingente della cittadinanza è rimasto fino a poco tempo fa largamente invisibile perché la modernità ha equiparato la cittadinanza alla nazionalità, rendendole praticamente identiche nella “equazione fondante dello Stato repubblicano moderno“. I cambiamenti demografici portati dalla globalizzazione rivelano che questa equazione è storicamente determinata, essenzialmente instabile, e suscettibile di distruzione e riformulazione. Inoltre, questi cambiamenti, mettono anche in luce il fatto che l’identità nazionale non contribuisce necessariamente all’unità della comunità dei cittadini. 

Classi di cittadini 

Lo sviluppo della cittadinanza moderna è stato strettamente connesso alla progressiva espansione dei diritti: espansione in termini di qualità — dai diritti civili a quelli politici e sociali — e nella definizione di chi ne era considerato il legittimo titolare. Lo smantellamento neoliberale del modello di Stato sociale attraverso la simultanea deregolamentazione, privatizzazione e individualizzazione, ha invertito la direzione di sviluppo della cittadinanza, restringendo la gamma dei diritti sociali e rifondando il cittadino come cittadino-imprenditore. 

La penetrazione della razionalità neoliberale nel campo politico, nelle parole della teorica politica Wendy Brown, “produce soggetti, forme di cittadinanza e comportamento, e una nuova organizzazione del sociale”. Ciò che Brown chiama la “de-democratizzazione della democrazia” implica l’estensione dei valori del mercato in domini precedentemente non economici: così facendo, tutta l’azione umana e istituzionale diventa “azione imprenditoriale razionale”.  

In questo modo il neoliberismo cancella la distinzione tra comportamento morale ed economico e designa la moralità come una questione di deliberazione razionale. Lo stato stesso si trasforma, non solo rispondendo alle esigenze del mercato, ma comportandosi come un attore del mercato stesso, usando come indicatore della sua legittimità la salute e la crescita dell’economia. Brown conclude che, presi insieme, questi processi portano alla morte della democrazia liberale, poiché diminuiscono la separazione tra economia e politica in modo che i principi politici di uguaglianza e libertà non figurino più come riferimenti sociali e morali alternativi a quelli del mercato. 

Una delle conseguenze di questa riconfigurazione è la mercificazione della cittadinanza e la trasformazione dello Stato in un fornitore di servizi di tipo aziendale. In molti paesi europei (Malta, Portogallo, Spagna, Grecia, Lettonia, Bulgaria, Regno Unito, Montenegro), la residenza, e persino la cittadinanza stessa, possono essere “acquistate” o conseguite tramite un investimento (i cosiddetti programmi “golden visa”).  

Il Portogallo è stato il primo paese dell’Ue a introdurre questa possibilità nel 2012, offrendo diversi percorsi per la residenza (come un trasferimento di capitale di almeno un milione di euro o l’acquisto di un immobile del valore di 500mila euro o più) e la cittadinanza dopo cinque anni di residenza rinnovata (anche se la residenza fisica non è richiesta). Il settore è già stato soprannominato “l’industria dell’immigrazione per investimento”: diverse società di consulenza offrono il supporto di esperti per ottenere questi “visti d’oro”. 

Il processo di naturalizzazione è l’aspetto più densamente regolamentato del diritto di cittadinanza. Per accogliere il crescente afflusso di stranieri nei loro territori, gli stati hanno sviluppato una miriade di status che si trovano “al di sotto” di quello di cittadino (residenti temporanei e permanenti, rifugiati, richiedenti asilo, etc.), ognuno con un insieme peculiare di diritti e obblighi. Così facendo, costruiscono in effetti delle classi di cittadini, pratica che può solo andare crescendo.  

Si stanno già sperimentando concetti molto discussi di “community cloud”, come la “cittadinanza digitale” e la “nation-as-a-service”, che ridefiniscono lo stato come una piattaforma di servizi digitali, valori sociali e culturali, e/o regole economiche. L’Estonia è uno dei pionieri di questa tendenza con la sua e-residency, che permette a una persona di operare economicamente all’interno del sistema legale nazionale, ma senza i benefici “classici” come il diritto di risiedere effettivamente nel paese. Altri Paesi, come la Croazia e la Serbia, stanno introducendo una legislazione per facilitare l’accesso alla residenza ai “nomadi digitali”: cittadini di paesi terzi che lavorano digitalmente o hanno una società registrata altrove. 

Democrazia senza cittadini? 

Nel film del 2012, Atto di forza (Total Recall), ambientato alla fine del Ventunesimo secolo, i cittadini della Colonia (ex Australia) fanno quotidianamente i pendolari tramite un ascensore gravitazionale attraverso il nucleo della Terra per raggiungere l’unico altro luogo abitabile del pianeta, l’Europa occidentale. Questo scenario assomiglia molto alla nostra situazione contemporanea: sono numerosi coloro che, fisicamente o virtualmente, attraversano regolarmente le frontiere nazionali per trovare lavoro. 

Questo fenomeno è diventato estremamente visibile all’inizio della crisi del Covid-19. Nonostante le frontiere chiuse, sono stati organizzati speciali corridoi aerei e ferroviari per permettere ai lavoratori stagionali e del settore dell’assistenza di viaggiare dalla Romania alla Germania e all’Austria. Questi nuovi tipi di lavoratori migranti mobili costituiscono una quota crescente della forza lavoro europea, soprattutto nei settori dell’agricoltura e dell’assistenza.  

La metà dei lavoratori agricoli italiani sono composti da lavoratori stagionali legali, immigrati illegali e cittadini dell’area Schengen che lavorano illegalmente sul territorio, mentre la Germania si affida quasi interamente alla migrazione intracomunitaria per soddisfare la sua domanda di lavoratori agricoli stagionali. In Austria, i lavoratori del settore dell’assistenza e della cura alla persona provenienti dalla Romania e dalla Slovacchia occupano fino all’80% dei posti di lavoro nel settore. 

Con la transizione in remoto, tendenza accelerata dalla pandemia, la capacità del capitale di impiegare lavoratori esterni al mercato del lavoro nazionale si espanderà ad altri settori. La globalizzazione del mercato del lavoro e la sua espansione al lavoro d’ufficio (i cosiddetti “colletti bianchi”) si farà sentire sempre di più tra le classi medie dei paesi ricchi. L’economista Branko Milanović suggerisce che questo fenomeno renderà a sua volta più attraenti i luoghi dove si vive spendendo meno, un fenomeno già osservato nel caso dei nomadi digitali. Come gli operai prima di loro, questi lavoratori potrebbero iniziare a dubitare dei benefici della globalizzazione, e avvicinarsi a narrative del tipo “loro ci rubano il lavoro”, dando origine a sentimenti di destra e a politiche migratorie più restrittive. 

Se estrapolate, queste tendenze –  l’ubiquità dei non cittadini e dei lavoratori migranti mobili, la trasformazione neoliberale dello stato e della cittadinanza, e l’uso crescente di diversi livelli di cittadinanza –  innestate nel quadro della democrazia nazionale, dipingono un quadro estremamente distopico. Il tentativo delle democrazie “materiali” di preservare la definizione nazionale di cittadinanza può implicare che una porzione significativa della loro popolazione (quelli che abitano stagionalmente, temporaneamente o permanentemente e/o lavorano sotto la loro struttura legale) saranno non cittadini o addirittura non residenti. Allo stesso tempo, altri possono godere di vantaggi acquistati sul “mercato della cittadinanza”. Con un numero crescente di apolidi, o di persone con diritti di cittadinanza solo limitati, la cittadinanza non può più essere intesa come una categoria universale. Nel contesto di una crisi climatica che può significare la dissoluzione delle strutture politiche nelle aree colpite e la migrazione di massa, queste prospettive sono estremamente preoccupanti. 

“Tribes of Europa” presenta uno scenario immaginario su un futuro possibile. Quello a cui stiamo assistendo oggi potrebbe sembrare finzione, ma sta diventando realtà, e ad un ritmo sostenuto: l’avvento di un nuovo tipo di democrazia, una “democrazia senza cittadini” in cui la piena cittadinanza è un lusso non disponibile per tutti (uno sviluppo già anticipato nell’idea di “democrazia illiberale”). Si tratterebbe ancora di democrazie, o piuttosto di sistemi che istituzionalizzano nuove forme di apartheid? Non dimentichiamo che, fino alla loro delegittimazione, i vecchi regimi di apartheid erano considerati propriamente democratici. 

Possiamo sognare un futuro diverso ma, come dice Jameson, non possiamo davvero immaginarlo? Possiamo certamente provarci. Dato che l’idea modernista dei diritti universali sembra non trovare più la sua espressione nel quadro nazionale, non dovremmo pensare a delle alternative? La struttura sovranazionale dell’Unione europea è spesso vista come una di queste alternative.  

Ma c’è un errore: come la Federazione di Star Trek, per citare un altro famoso futuro utopico, l’Ue è essenzialmente un’estensione del modello nazionale, caratterizzato da confini rigidi, identità esclusive (ed escludenti), e una richiesta di fedeltà alla nazione (o alla Federazione). Questo non esclude, comunque, che l’Unione europea non possa giocare un ruolo, specialmente se diventa un’alleata nelle lotte sul significato della democrazia e della cittadinanza che la attendono: potrebbe aiutare a facilitare i processi di trasformazione, in particolare se l’Ue stessa si trasforma. 

Altri immaginari sembrano più promettenti, come la crescente importanza delle città che impiegano approcci municipalisti per ampliare la partecipazione democratica (inclusi i non cittadini) e ristabilire la proprietà pubblica e il controllo su infrastrutture e servizi importanti. In quest’ottica possiamo anche citare i tentativi di organizzare l’attività economica intorno alle idee di beni comuni e di democrazia economica. Queste sono sinonimo di una buona gestione (democratica e lungimirante) delle risorse naturali e culturali, insieme alla costruzione di infrastrutture che oltrepassano i confini e gli interessi nazionali, implicando la creazione di nuove forme di politica al di là della nazione e dell’idea di cittadinanza nazionale. Nel contesto della crisi ecologica, pensare la proprietà come un concetto “democratico” e la gestione comune delle risorse è particolarmente pertinente, nel tentativo di sfidare il paradigma capitalista della crescita senza fine. In fondo, se stiamo assistendo alla fine della modernità, sta a noi lottare per ciò che verrà dopo: cosa vogliamo mantenere delle sue idee e istituzioni e cosa vogliamo abbandonare.  

Tradotto in collaborazione con la Heinrich Böll Stiftung Parigi, Francia.

Democracy Ever After? Perspectives on Power and Representation
Democracy Ever After? Perspectives on Power and Representation

Between the progressive movements fighting for rights and freedoms and the exclusionary politics of the far right, this edition examines the struggle over democracy and representation in Europe today.

Order your copy

More by Aleksandra Savanović