Ece Temelkuran ha perso il suo lavoro da giornalista in Turchia per aver criticato esplicitamente il regime al potere, sempre meno democratico. Oggi la scrittrice guarda ai segni dell’autoritarismo strisciante al di là dei confini del suo Paese: anche se ci sono segni di speranza, molte democrazie occidentali si muovono su un terreno traballante che va sempre più verso la destra, avverte. Il cammino è lungo e richiede che i cittadini reclamino la loro dignità e ritrovino la fiducia in se stessi, nelle loro democrazie e nella relazione tra di loro.

Beatrice White: Nel suo libro “How to Lose a Country” (Come perdere un paese), lei parla di una forma di autoritarismo contemporaneo che non arriva con i carri armati, ma che prende piede in maniera esponenziale. Quali sono le caratteristiche principali di questo fenomeno? Come lo vede incarnato in Europa oggi?

Ece Temelkuran: Questo libro, un po’ ironicamente, è scritto come un manuale per aspiranti dittatori. Ma, allo stesso tempo, dà un’idea di quello che potrebbe accadere in Europa. In realtà, si tratta di un appello alla solidarietà globale, diretto soprattutto ai Paesi europei e agli Stati Uniti perché paesi come l’India, la Turchia e il Pakistan conoscono questo folle processo che vede un paese democratico scivolare sempre di più verso una politica autoritaria. I paesi occidentali hanno dato a lungo la democrazia per scontata: hanno troppa fiducia nelle loro istituzioni e nella loro cosiddetta “cultura democratica”.

Il messaggio principale è che l’autoritarismo è un fenomeno globale e i leader autoritari stanno imparando gli uni dagli altri. L’autoritarismo non arriva in uniforme, ma con acconciature divertenti, come nel caso di Boris Johnson e Donald Trump. Generalmente le persone reagiscono in maniera perplessa se questo fenomeno viene identificato come Fascismo.

Io penso che dovremmo chiamarlo Fascismo, piuttosto che populismo o autoritarismo. Si pensa che il Fascismo sia stato completamente cancellato in Europa alla fine della Seconda Guerra mondiale. In realtà, è stato giusto battuto su un campo di battaglia. Pochi paesi, a parte la Germania, hanno affrontato le loro storie di Fascismo.

Il mio scopo è quello di lanciare un avvertimento, per spronare queste società ad agire: in paesi come la Turchia siamo stanchi ed esausti da questo fenomeno. L’autoritarismo non riguarda solo la politica ma produce corruzione morale e distrugge il consenso di base all’interno delle società. Abbiamo ancora bisogno della resistenza delle masse, contrarie e preoccupate in Occidente. Si tratta di trovare un modo per costruire un linguaggio comune — una narrazione condivisa — in modo da poterci opporre insieme a questa nuova forma di Fascismo. Non può essere sconfitto dal popolo di un singolo paese da solo. Richiede una solidarietà globale.

Leader come Recep Tayyip Erdoğan e Donald Trump sono abili ad appropriarsi della retorica della democrazia: solo le loro vittorie sono risultati veramente democratici. Come hanno fatto coloro che difendono i principi democratici contro personaggi autoritari a rendersi conto che perfino i concetti stessi che difendono — la democrazia stessa — vengono usurpati?

Quello che dicono non è completamente sbagliato. Sì, vincono le elezioni, vincono alle urne, ma questo dato racconta solo la crisi di rappresentanza che stiamo vivendo: per un lungo periodo, la democrazia si è ridotta all’atto di andare urne. La campagna per fermare l’invasione dell’Iraq nel 2003 ne è stata un esempio lampante. Le strade erano piene di gente che diceva no alla guerra, eppure i leader sono andati avanti lo stesso.

Il libro è uscito due anni fa: i suoi avvertimenti su ciò che sarebbe accaduto hanno fatto sì per molte persone fosse esagerato, percepito come “eccezionale”. E per questo è stato respinto. Ma ora in tanti, in posti come Regno Unito, Francia, Germania e Stati Uniti sono tornati a rifletterci. Questo mostra che, nello spazio di due anni, tutte queste istituzioni, tutte queste cosiddette “democrazie mature”, hanno iniziato a perdere la fiducia in se stesse. Sta accadendo molto rapidamente, davanti ai nostri occhi.

L’inizio di questo processo può essere fatto risalire molto più indietro: alla fine degli anni Settanta, quando Margaret Thatcher e Ronald Reagan dichiararono che “non c’è alternativa”. Da allora, specialmente dopo la Guerra Fredda, la democrazia è diventata qualcosa di amministrativo, qualcosa di cui qualcun altro dovrebbe occuparsi per noi. Gestire un paese era una questione di numeri: numeri che parlavano a numeri. Le persone non contavano più. Se non c’è alternativa, qual è la reazione delle persone? Vanno avanti con le loro vite. Questo è quello che ci si aspettava da loro. Tutto questo non è successo per caso. La sinistra è stata eliminata/opprssa in ogni paese, con un colpo di stato militare, come è successo in Turchia, o con leader come la Thatcher e Reagan, che hanno fatto la guerra ai sindacati.

L’intera sfera politica si è spostata a destra. Dobbiamo confrontarci con questo dato. Senza elementi progressisti nella politica e nella società, non ci sono controlli ed equilibri in termini di moralità e politica. Ci ritroviamo a vivere con il figlio mutante della politica neoliberale. Senza una vera democrazia che includa la giustizia sociale, si finisce in una situazione in cui tutti si possono autoproclamare “veri democratici”.

Questo tipo di “democrazia”, che è ancora l’attuale stato di democrazia, richiede masse apoliticizzate. Si produce così un cittadino “ideale” che evita la politica, che pensa che la democrazia riguarda solo le urne, che la politica dell’identità è tutto ciò che conta, e che la libertà è solo una questione individuale, e così via. Il risultato della perdita e della riduzione di tutti questi concetti e valori sono cittadini che pensano che se ci si libera dell’Unione europea (specialmente nel Regno Unito) saremo liberi e più “grandi”. Questo paradigma persiste ancora oggi. Le persone non vogliono essere al corrente del  periodo storico in cui la politica della destra è diventata così dominante da diventare il nostro stato naturale. Molte altre crisi sono in gioco allo stesso tempo — la crisi del capitalismo, della democrazia, del clima, e così via — e queste paure possono essere facilmente politicizzate e mobilitate da leader populisti di destra se ai cittadini non vengono date scelte reali e solide.

Eppure ci sono ancora persone che scendono in piazza oggi: penso i movimenti pro-democrazia a Hong Kong, Russia, Bielorussia e Myanmar, per esempio… ma anche in Ma Occidente, con i giovani in particolare che chiedono giustizia sociale, razziale e ambientale. Come vede questi movimenti?

C’è una grande diversità tra questi movimenti, per quanto riguarda le persone che scendono in piazza e loro richieste, background e lingue. Ma vedo una comunanza globale: tutti chiedono dignità umana, in diversi modi. Questo fenomeno è parte della risposta alla crisi della rappresentazione e ad altre crisi che affrontiamo. C’è qualcosa di profondamente legato alla speranza in queste proteste e manifestazioni che sono emerse, anche durante una pandemia. In tutto il mondo, il desiderio di dignità delle persone è più forte della loro paura di morire. Questo dimostra che l’umanità ha ancora un po’ di fiducia in se stessa. Spero che tutte queste manifestazioni possano essere solidali tra loro sotto l’insegna della dignità umana.

Questa nuova generazione è talmente arrabbiata con le generazioni precedenti. Perché non dovrebbero esserlo d’altronde? Hanno vissuto tutte queste crisi che gli sono cadute addosso. Sentono di non avere nulla da perdere. Vedono l’ipocrisia: sono cinici, sono sarcastici e sono arrabbiati. Ma stanno ancora contrattando: vogliono ancora qualcosa, e sono chiari su quello che vogliono. Se non verranno ascoltati, tuttavia, il rischio è che le prossime ondate di protesta non saranno così eloquenti.

I cittadini scendono in piazza anche nelle democrazie che stanno retrocedendo, in particolare i gruppi emarginati i cui diritti fondamentali sono ora minacciati, come le donne. Come vede il ruolo di questi gruppi nei movimenti di resistenza?

Non è una coincidenza che la resistenza più vigorosa oggi venga dal movimento delle donne. Quando si combatte per la propria vita — letteralmente — si combatte con più forza. Questo potrebbe sembrare un problema che non riguarda le donne in Occidente. Ma pensate a tutto ciò che è cambiato negli ultimi anni e che prima sembrava impensabile.

In paesi come la Turchia, c’è una guerra totale alle donne. Ed era prevedibile, sappiamo che la misoginia è l’ancella del Fascismo. Le donne sono il metro di comprensione quando si tratta di Fascismo. Questo non perché i loro sensori politici e morali siano più sensibili di quelli degli uomini, ma perché il Fascismo attacca sempre prima la donna: non parlo solo delle donne in sé, ma di tutto ciò che è femminile. E il Fascismo sarà, secondo me, sconfitto smantellando la misoginia, e questo dipende dalle donne, e ora stanno diventando consapevoli in tutto il mondo. Secondo me, l’unica cosa davvero stimolante della politica di oggi sono i giovani, in particolare le donne.

I movimenti di protesta spesso sviluppano nuovi modi di fare politica. Una delle eredità delle proteste di Gezi Park sono state le assemblee popolari dal basso, che sono spuntate in tutta la città. Ci sono segni che la politica convenzionale possa aprirsi ad alcune di queste pratiche, mentre i movimenti sociali aumentano il loro potere?

Sì, penso che l’establishment politico si stia rendendo conto che, a meno che non accolga questi movimenti, sarà obsoleto, superato e alla fine morirà. Abbiamo visto nuovi organismi politici emergere dai movimenti di Hong Kong, Istanbul e Il Cairo. Ma non sono compatibili con la nostra democrazia rappresentativa, così come è oggi.

L’unico modo che vedo per uscire da questa impasse è la politica locale. Penso a sindaci progressisti, comuni e politici locali che sono desiderosi di trovare nuovi modi di fare politica e sono più disposti a interagire con questi movimenti politici. Se le proteste di Gezi non fossero avvenute, [il candidato dell’opposizione di centro-sinistra CHP] Ekrem İmamoğlu non avrebbe vinto di nuovo quando le elezioni del sindaco di Istanbul sono state ripetute nel 2019. Sono state quelle persone che hanno organizzato e mobilitato se stessi e gli altri, a votare di nuovo. Penso che quei movimenti politici ci stiano insegnando attraverso le loro azioni. La determinazione, la testardaggine e la malizia che li rende così rinvigorenti può rinfrescare le nostre istituzioni politiche, se queste sono aperte ad essere rinfrescate.

Come possono i Verdi e i progressisti andare oltre i loro circoli ristretti e raggiungere una società più ampia, evitando la retorica populista e le strategie messe in atto dai loro avversari?

Viviamo in un’epoca di paura e disintegrazione sociale. I fascisti giocano con le emozioni e le monopolizzano nei loro discorsi. Penso che la sinistra in generale, ma i Verdi in particolare, debbano riflettere sul loro rapporto politico con le emozioni, oltre che con i valori. Smettere di avere paura delle emozioni, e imparare di nuovo a parlare con la gente, oltre che tra di noi, di amore, di rabbia, di paura e anche di fede. Cos’è la fede per noi? In cosa abbiamo fede? Cosa possiamo dire dell’amore come persone di sinistra? O dell’orgoglio? Vedo una distanza disciplinata dalle emozioni nella politica progressista. Eppure questo è quello che i nuovi organismi politici stanno cercando di fare: stanno cercando di esprimere emozioni. Ecco perché sono così dinamici e completamente diversi dalla politica istituzionalizzata e consolidata.

Come scrittrice, lei esplora la complessità della natura e delle motivazioni umane. Che ruolo può avere la narrativa nel cambiare la nostra politica e le nostre società, e nell’aiutarci a capirci l’un l’altro?

Le parole, siano esse politiche o non politiche, non cambiano il mondo: sono solo le persone che credono in queste parole che possono farlo. È quindi impossibile paragonare lo scrivere di politica con lo scrivere narrativa in termini di giudizio morale del nostro contributo al mondo. Se me lo chiedete, il mio romanzo “Women Who Blow on Knots” (Donne che soffiano sui nodi) è stato molto più trasformativo politicamente di “How to Lose A Country” (Come perdere un paese). Il vantaggio della fiction è che la storia è una forma di comunicazione più compassionevole e avvolgente: per il lettore è più facile avvicinarsi ad uno scrittore apparentemente apolitico. Nel regno della fiction, lo scrittore può parlare delle idee più controverse e della verità.

Come giornalista che prendeva continuamente la parola, è stata confrontata con le figure che sono alle spalle del declino democratico della Turchia. Il suo nuovo libro “Together” (Insieme) chiede al lettore di scegliere di avere fiducia nelle persone con cui condividiamo la vita in questo pianeta. Come direbbe che ora possiamo costruire dei ponti, per avere questa fede gli uni negli altri?

Penso che la domanda “come costruire ponti” non sia quella giusta da porre. A volte non ci sono ponti. La politica non è fatta di pace e armonia, è fatta di confronto. Ciononostante abbiamo bandito questo modo di pensare dalla nostra sfera politica. Il sistema politico non ama il confronto, non vuole l’antagonismo. Per questo le persone hanno bisogno di credere che non c’è alternativa, non c’è più niente per cui lottare. Senza nemmeno accorgercene, abbiamo normalizzato questa idea. Abbiamo eliminato la lotta dal nostro vocabolario nel tentativo di sopravvivere. Abbiamo accettato la diminuzione del nostro spazio di esistenza.

Ma se invece ci rendiamo conto che ci hanno battuto, e che siamo arrabbiati, può essere un punto di partenza per fare qualcosa. La politica è una lotta, purtroppo. Sarebbe bello se questa lotta riguardasse solo le parole, ma a volte non è così.

Ecco perché torno a questa sconfitta; una volta che sei sconfitto in qualche modo legittimi, normalizzi la sconfitta, e poi inizi a chiedere come possiamo costruire ponti. Li sconfiggeremo. Devono essere fermati. Come siamo arrivati a fare questa domanda sulla convivenza con il Fascismo? No, questa è la domanda sbagliata! Queste sono le domande abilitanti dell’ideologia dominante.

Tradotto in collaborazione con la Heinrich Böll Stiftung Parigi, Francia.

Democracy Ever After? Perspectives on Power and Representation
Democracy Ever After? Perspectives on Power and Representation

Between the progressive movements fighting for rights and freedoms and the exclusionary politics of the far right, this edition examines the struggle over democracy and representation in Europe today.

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